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Post N° 18

Post n°18 pubblicato il 22 Maggio 2008 da ivan_cimmarusti

Penne avvelenate

Tratto dal settimanale  'Internazionale'

c
'è una ricerca che finora vi ho tenuto nascosta. Speravo che, se
l'avessi ignorata per un po' di tempo, alla fine l'avrei dimenticata,
risparmiandovi così le sue imbarazzanti conclusioni.
Purtroppo non è successo e quindi, dato che anche gli editorialisti
hanno una coscienza, mi sento ormai obbligato a farvene una sintesi. Si
tratta di un'indagine, pubblicata nel 2007 sulla rivista statunitense
Journalism History, sulla psicologia di 187 tra i maggiori giornalisti
di tutti i tempi.
Lo studio, intitolato Depressione, alcol e sregolatezza,
giungeva alla conclusione che "metà dei 187 soggetti era affetta da
depressione, crisi di ansia o disturbi bipolari; più di un terzo
abusava di alcol, antidepressivi o oppiacei; circa un terzo era
costituito da inguaribili dongiovanni e una buona percentuale da
prepotenti, misogini o ninfomani".
Ora lo sapete. Per attenuare l'effetto di questa notizia, vorrei
precisare che i 187 soggetti presi in considerazione erano i
giornalisti più straordinari, coraggiosi e pieni di talento degli
ultimi trecento anni.
Ma non possiamo negare l'evidenza: diciannove di loro sono morti a
causa dell'alcol, sette perché fumavano troppo, più di uno si è
suicidato e tredici sono morti perché mangiavano in modo sregolato.
Devo dire che quasi tutti i migliori giornalisti che ho conosciuto
erano affetti da qualche tipo di dipendenza (se non altro quella dalla
loro immagine riflessa nello specchio).
Ricordo il caposervizio dal temperamento
così violento che una
volta lanciò un computer da una finestra del terzo piano; la coppia
scoperta da un agente della sicurezza a fare l'amore sul tavolo della
sala riunioni; i due giornalisti sportivi talmente aggressivi da
arrivare a fare a pugni sul nastro che trasporta i bagagli
all'aeroporto di Heathrow; interi bar pieni di ubriachi, uno dei quali
una volta andò avanti per nove giorni nutrendosi solo di vodka e
patatine.
C'è stato anche il redattore di una rivista americana che, per
dimostrare che i giornalisti sono tipi versatili, indagava sulla vita
privata delle stelle di Hollywood, ma invece di pubblicare il materiale
incriminante lo usava per ricattarli; e quel ghiottone di un
giornalista del New Yorker, mandato in una clinica svizzera per perdere
peso, che a forza di svignarsela per andare al ristorante è uscito più
grasso di quando era entrato.
Potrei continuare, ma non vorrei arrivare alla conclusione che tutti i
giornalisti sono così, o che le firme di questa rivista e quelli che ci
lavorano sono tutti fumatori di oppio, alcolizzati senza speranza o
maniaci sessuali.
Alcuni di loro potrebbero esserlo – mi arrivano notizie contrastanti –
ma è più probabile che, anche se non sono modelli di virtù, siano
persone piuttosto normali. Tranne che per un aspetto: quel pizzico di
mentalità contorta che ci fa desiderare di diventare giornalisti.
Mi spiego meglio. Molti anni fa, quando diventai per la prima volta il
caporedattore di un giornale nazionale, a Londra ci fu una grande
manifestazione contro una nuova tassa imposta dal governo di Margaret
Thatcher.
Ero in redazione quando una nuova segretaria che lavorava per me solo
da qualche giorno mi passò una telefonata. Era il giornalista che avevo
mandato alla manifestazione. Stavano succedendo cose terribili. Erano
scoppiati dei violenti incidenti, sembrava che ci fossero anche dei
morti.
Saltai subito in piedi e ordinai ad altri due reporter di precipitarsi
sul posto, ai grafici di disegnare una mappa della zona dei disordini,
ai fotografi di andare immediatamente e così via. La nuova segretaria
era allibita.
"Si sta divertendo, vero?", mi chiese. "Sì", risposi io. "Ma lì ci sono
dei feriti", disse lei. "Non posso farci niente", risposi. "Non sono un
dottore. Il nostro compito è scoprire cosa è successo e perché, per
raccontarlo alla gente". Ci pensò su un attimo, poi riprese il suo
lavoro e io il mio.
All'inizio della settimana seguente andò dal direttore e diede le
dimissioni. Quando le chiesi perché, disse che non se la sentiva di
lavorare con i giornalisti "dopo aver visto che tipi erano". Quella
sera raccontai la storia a mia moglie, che è infermiera, sperando in
una sua parola di conforto. Ma invece di mostrarsi comprensiva con me,
disse che capiva perfettamente i sentimenti della ragazza. "Se vengo a
sapere di un terremoto io mi intristisco, tu invece ti ecciti. Non è
normale".
Credo che abbia ragione,
come a volte capita alle mogli. Per noi
giornalisti, le catastrofi del mondo non sono soltanto eventi sui quali
indagare per poi raccontarli ai lettori. Sono anche – diciamo la verità
– il palcoscenico sul quale recitiamo e proiettiamo il nostro ego. E se
quelli di noi che siedono dietro una scrivania sono un po' strani, non
c'è da meravigliarsi se i giornalisti straordinari, che rischiano la
loro vita e la loro libertà per andare a caccia di notizie, sono spesso
ubriaconi, spendaccioni, libertini e drogati. E la cosa più terribile è
che ne siamo orgogliosi.

 
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Commenti al Post:
Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 23/05/08 alle 12:35 via WEB
Direi che il profilo disegnato dall'autore del pezzo è un pò allarmante, ma allo stesso tempo assai eccitante. Il dramma sarebbe ritrovarsi nel profilo
(Rispondi)
 
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