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« ONOREVOLE ( DEGNO DI ONO...CHE FINE FARANNO I CARI ... »

PERCHE' QUESTE ODI A SCUOLA NON SI STUDIANO PIU'

Post n°25 pubblicato il 22 Agosto 2012 da LIBERODIPARLARE
Foto di LIBERODIPARLARE

 

 IL PARLAMENTO di Giosuè Carducci

I

Sta Federico imperatore in Como.

Ed ecco un messaggero entra in Milano

Da Porta Nova a briglie abbandonate.

«Popolo di Milano,» ei passa e chiede,

«Fatemi scorta al console Gherardo

Il consolo era in mezzo de la piazza,

E il messagger piegato in su l'arcione

Parlò brevi parole e spronò via.

Allor fe' cenno il console Gherardo,

E squillaron le trombe a parlamento.

 

 

 

II

Squillarono le trombe a parlamento:

Ché non anche risurto era il palagio

Su' gran pilastri, né l'arengo v'era,

Né torre v'era, né a la torre in cima

La campana. Fra i ruderi che neri

Verdeggiavan di spine, fra le basse

Case di legno, ne la breve piazza

I milanesi tenner parlamento

Al sol di maggio. Da finestre e porte

Le donne riguardavano e i fanciulli.

 

 

 

 

 

III

«Signori milanesi,» il consol dice,

«La primavera in fior mena tedeschi

Pur come d'uso. Fanno pasqua i lurchi

Ne le lor tane, e poi calano a valle.

Per l'Engadina due scomunicati

Arcivescovi trassero lo sforzo.

Trasse la bionda imperatrice al sire

Il cuor fido e un esercito novello.

Como è co' i forti, e abbandonò la lega.»

Il popol grida: «L'esterminio a Como!»

 

 

 

 

 

IV

«Signori milanesi,» il consol dice,

«L'imperator, fatto lo stuolo in Como,

Move l'oste a raggiungere il marchese

Di Monferrato ed i pavesi. Quale

Volete, milanesi? od aspettare

Da l'argin novo riguardando in arme,

O mandar messi a Cesare, o affrontare

A lancia e spada il Barbarossa in campo?»

«A lancia e spada,» tona il parlamento,

«A lancia e spada, il Barbarossa, in campo!»

 

 

 

 

 

V

Or si fa innanzi Alberto di Giussano.

Di ben tutta la spalla egli soverchia

Gli accolti in piedi al console d'intorno.

Ne la gran possa de la sua persona.

Torreggia in mezzo al parlamento: ha in mano

La barbuta: la bruna capelliera

Il lato collo e l'ampie spalle inonda.

Batte il sol ne la chiara onesta faccia,

Ne le chiome e ne gli occhi risfavilla.

È la sua voce come tuon di maggio.

 

 

 

 

VI

«Milanesi, fratelli, popol mio!

Vi sovvien» dice Alberto di Giussano

«Calen di marzo? I consoli sparuti

Cavalcarono a Lodi, e con le spade

Nude in mano gli giurâr l'obedïenza.

Cavalcammo trecento al quarto giorno,

Ed a i piedi, baciando, gli ponemmo

I nostri belli trentasei stendardi.

Mastro Guitelmo gli offerí le chiavi

Di Milano affamata. E non fu nulla

 

 

 

 

VII

«Vi sovvien» dice Alberto di Giussano

«Il dí sesto di marzo? Ai piedi ei volle

Tutti i fanti ed il popolo e le insegne.

Gli abitanti venían de le tre porte,

Il carroccio venía parato a guerra;

Gran tratta poi di popolo, e le croci

Teneano in mano. Innanzi a lui le trombe

Del carroccio mandâr gli ultimi squilli,

Innanzi a lui l'antenna del carroccio

Inchinò il gonfalone. Ei toccò i lembi

 

 

 

VIII

«Vi sovvien?» dice Alberto di Giussano:

«Vestiti i sacchi de la penitenza,

Co' piedi scalzi, con le corde al collo,

Sparsi i capi di cenere, nel fango

C'inginocchiammo, e tendevam le braccia,

E chiamavam misericordia. Tutti

Lacrimavan, signori e cavalieri,

A lui d'intorno. Ei, dritto, in piedi, presso

Lo scudo imperïal, ci riguardava.

Muto, col suo dïamantino sguardo.»

 

 

IX

«Vi sovvien,» dice Alberto di Giussano,

«Che tornando a l'obbrobrio la dimane

Scorgemmo da la via l'imperatrice

Da i cancelli a guardarci? E pe' i cancelli

Noi gittammo le croci a lei gridando

- O bionda, o bella imperatrice, o fida,

O pia, mercé, mercé di nostre donne! -

Ella trassesi indietro. Egli c'impose

Porte e muro atterrar de le due cinte

Tanto ch'ei con schierata oste passasse.»

 

 

 

X

«Vi sovvien?» dice Alberto di Giussano:

«Nove giorni aspettammo; e si partiro

L'arcivescovo i conti e i valvassori.

Venne al decimo il bando - Uscite, o tristi,

Con le donne co i figli e con le robe:

Otto giorni vi dà l'imperatore -.

E noi corremmo urlando a Sant'Ambrogio,

Ci abbracciammo a gli altari ed a i sepolcri.

Via da la chiesa, con le donne e i figli,

Via ci cacciaron come can tignosi

 

 

XI

«Vi sovvien» dice Alberto di Giussano

«La domenica triste de gli ulivi?

Ahi passïon di Cristo e di Milano!

Da i quattro Corpi santi ad una ad una

Crosciar vedemmo le trecento torri

De la cerchia; ed al fin per la ruina

Polverosa ci apparvero le case

Spezzate, smozzicate, sgretolate:

Parean file di scheltri in cimitero.

Di sotto, l'ossa ardean de' nostri morti

 

 

 

XII

Cosí dicendo Alberto di Giussano

Con tutt'e due le man copriasi gli occhi,

E singhiozzava: in mezzo al parlamento

Singhiozzava e piangea come un fanciullo.

Ed allora per tutto il parlamento

Trascorse quasi un fremito di belve.

Da le porte le donne e da i veroni,

Pallide, scarmigliate, con le braccia

Tese e gli occhi sbarrati al parlamento,

Urlavano - Uccidete il Barbarossa! -.

 

 

XIII

«Or ecco,» dice Alberto di Giussano,

«Ecco, io non piango piú. Venne il dí nostro,

O milanesi, e vincere bisogna.

Ecco: io m'asciugo gli occhi, e a te guardando,

O bel sole di Dio, fo sacramento:

Diman da sera i nostri morti avranno

Una dolce novella in purgatorio:

E la rechi pur io!» Ma il popol dice:

«Fia meglio i messi imperïali.» Il sole

Ridea calando dietro il Resegone.

 
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