Creato da mjago il 09/12/2007

Cioccolata con panna

Racconti di mjago

 

 

Dalla Russia con amore

Post n°55 pubblicato il 06 Luglio 2008 da mjago

“Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo.”
(Lev Nikolaevič Tolstoj - Anna Karenina)

Ieri pomeriggio

Ci sono uomini che credono di trovare il segreto dell’eterna giovinezza accompagnandosi con donne molto più giovani di loro. Uno di questi, ieri pomeriggio, se ne stava seduto in una scomodissima poltroncina dell’area partenze dell’aeroporto Roma-Fiumicino. Cinquantant’anni, due divorzi, tre figli, oggi si accompagna con una splendida fanciulla che ha i lineamenti tipici delle ragazze dell’est Europa. Potrebbe avere su per giù l’età della sua figlia più grande, ovvero venticinque anni e a vederli seduti lì insieme, vicini, si sarebbe portati proprio a scambiarli per un padre e una figlia in partenza per qualche meta esotica. Mentre lei sfoglia con un certo interesse una rivista di moda, lui legge distratto un noioso quotidiano, quando ad un certo punto, dalla folla, si sente chiamare da una voce conosciuta:

- Ingegner Luigi ti ricordi di me?

Stupito ma non troppo, si volta e riconosce un ragazzo sulla trentina che si affretta ad abbracciare con grande affetto e simpatia:

- Carissimo Mjago, ma che ci fai qui?
- Torno a casa, sono stato qualche giorno a Roma per lavoro! E tu dove vai?
- Parto per le ferie, vado a Panarea! Anna ti presento, Mjago, un carissimo collega

Anna si alza e mi saluta cordialmente con uno spiccato accento russo, vista da vicino è ancora più carina: alta come minimo un metro e ottanta (e senza tacchi!), capelli scuri lisci, occhi verde smeraldo e una carnagione chiarissima, bianco latte. Luigi insiste per andare a bere qualcosa al bar, la sua compagna diplomaticamente ci lascia andare da soli e rimane a leggere la sua rivista. Il mondo è piccolo e negli aeroporti le distanze sembrano annullarsi ancora di più permettendoti di fare curiosi incontri. Luigi è stato il mio “mentore” nei primi anni dopo l’università, geniale professionista, un po’ eccentrico, mi hai iniziato al mondo del lavoro.

- Un succo d’ananas vero?
- Che ottima memoria, certo!
- Sei una delle poche persone che conosco che non beve caffè! Allora Mjago, ho sentito che ti stai dando molto da fare sul lavoro!
- Sto cercando di ritagliarmi un mio spazio ma è dura
- Ci vuole un po’ di tempo, devi avere pazienza. Peccato che tu non mi abbia seguito qui a Roma.
- Lo so, ma quando me l’hai proposto non potevo proprio partire.
- Si me lo ricordo bene.

Poco dopo, chiamano per l’imbarco il suo volo, e dobbiamo interrompere il nostro inaspettato rendez-vous. Saluto lui e Anna che si avviano verso le loro vacanze e vado a cercare un posto comodo dove aspettare il mio aereo che è naturalmente in ritardo.
Trovo una poltroncina vicino ad una coppia di anziani, sono molto in là con gli anni, ma mi sembrano piuttosto arzilli mentre discutono animatamente con una cartina in mano: contrasti sugli itinerari della loro vacanza. Nella mia borsa ci sono un paio di relazioni che sarebbero da leggere e correggere, ma sinceramente non ne ho voglia. Mi tolgo la giacca, mi arrotolo le maniche delle camicia e decido di oziare, ripensando a Luigi e al nostro primo incontro, cinque anni fa nel suo studio.


L’appuntamento era fissato nel tardo pomeriggio, io arrivai in leggero anticipo. Mi accolse una premurosa segretaria, “forzatamente bionda”, ma dai modi gentili, che mi fece accomodare in una piccola sala d’aspetto. Dopo pochi minuti, la stessa “finta bionda” mi accompagnò nella stanza del capo. Percorsi un lungo corridoio insieme a lei, alla fine del quale c’era una porta socchiusa. La segretaria bussò, e mi fece accomodare. Mentre entravo, sentii squillare il cellulare di Luigi, esitai un attimo, ma lui mentre rispondeva mi fece un cenno con la mano con la quale mi invitava ad accomodarmi. Rimasi così solo con lui nella sua stanza. Fino ad allora avevo pensato che il posto più disordinato sul pianeta Terra fosse il ripostiglio di mia Madre a casa. Mi dovetti ricredere, non avevo mai visto, e fino ad oggi non ho ancora visto, un posto più “incasinato” di quella stanza. Libri, riviste, progetti erano accatastati in ogni posto possibile ed immaginabile. Su tre pareti della stanza, c’era una robusta libreria di legno pregiato che letteralmente traboccava di volumi di vari argomenti mentre l’unica parete libera, in cui si trovava un’ampia portafinestra era occupata da un pannello su cui c’erano attaccate decine di foto, poster, ritagli di giornale, cartoline e su tutte spiccava una foto gigantesca di Marx, che osservai con un certo disagio. Al centro della stanza, sotto una vera e propria montagna di carte e cartelle si intuiva esserci una enorme scrivania, nella quale erano sistemati due computer, con due schermi grandi quanto il mio televisore a casa. Mi accomodai su una avvolgente poltroncina e osservai Luigi. Poco più basso di me, brizzolato, baffo curato, eccessivamente abbronzato, indossava una camicia bianca con gemelli, ed un paio di pantaloni blu. Conversava allegramente, passeggiando qua e là nella stanza con un tono di voce particolarmente scanzonato. Finita la telefonata, mi guardò, si avvicinò e mi strinse con vigore la mano:

- Carissimo Mjago, finalmente ci conosciamo come stai?
- Bene grazie, lei?
- Regola n.1 caro Mjago, chiamami Luigi e dammi del tu! In quanto a me ti devo confessare che non sto attraversando uno dei periodi migliori della mia vita. Sto divorziando dalla mia seconda moglie, ieri ho beccato mia figlia che si girava una canna a casa con una sua amica e sono un po’ in crisi con la mia nuova compagna!

Rimasi di gesso!
Ad un colloquio di lavoro, tra l’altro il primo, tutto ti aspetti fuorché il tuo interlocutore ti racconti in un paio di battute la storia della sua vita. Ma questo è Luigi: eccessivo, dissacrante e spudorato! Marxista con il vizio del lusso, ottimo scacchista, raffinato poliglotta capace di parlare e scrivere correntemente in quattro lingue oltre l’italiano: Inglese, Francese, Spagnolo e Russo. Mi raccontò una volta che aveva imparato quest’ultima perché, avendo una grande passione per la letteratura russa, voleva leggere i suoi autori preferiti in lingua originale. Una passione che posso confermare visto che era capace di citare a memoria Dostoevskij e Tolstoj senza alcun problema, anche se, personalmente, ritengo che il reale motivo del suo interesse per il russo, più che nell’amore per la letteratura, sia da ricercare in un'altra sua grande passione, ovvero la “fauna femminile oltre cortina” di cui Anna, la sua nuova deliziosa compagna, ne è uno splendido esempio...
Si lo so, a “pensar male si commette peccato, ma qualche volta ci si azzecca…”

 
 
 

Memorie di un ex terzino

Post n°54 pubblicato il 28 Giugno 2008 da mjago

”Ma Nino non aver paura a sbagliare un calcio di rigore,
non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore,
un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia. E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai di giocatori che non hanno vinto mai ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro e adesso ridono dentro a un bar, e sono innamorati da dieci anni con una donna che non hanno amato mai. “
(Francesco De Gregori - La Leva Calcistica Della Classe '68)

Luglio 1989

Nel bicentenario della Rivoluzione Francese, a pochi mesi dalla caduta del muro di Berlino, alcune settimane dopo il mio esame di quinta elementare, in un afoso pomeriggio di Luglio ero impegnato negli esercizi di riscaldamento prima della semifinale del campionato di calcio provinciale categoria “esordienti”.
Militavo in quella società sportiva da tre anni, e mi ci ero iscritto con l’intento di giocare in porta, ma Mister Luciano detto “Ciccheddu” aveva avuto da subito in mente per me altri progetti:

- E in che ruolo vorresti giocare?
- Mister, io voglio fare il portiere!
- Ma noi un portiere ce lo abbiamo già, tu sei veloce e hai un buon tiro, meglio che continui a fare il terzino!

Il soprannome di Mister “Ciccheddu”, come è facile immaginare, derivava dalla sua grande passione per l’alcol. Credo di non averlo mai visto completamente sobrio. Perennemente paonazzo, provava ad “affogare” i dispiaceri e le frustrazioni di una vita prendendo per il collo decine di bottiglie, nelle bettole più indecenti della mia città, ma evidentemente i suoi dispiaceri e le sue frustrazioni sapevano “nuotare” molto bene e spesso mi chiedevo come in certi giorni potesse stare in piedi.
Non avevo molta simpatia per lui. Prima di tutto perché non aveva voluto vedere nemmeno per una volta come giocavo in porta e poi perché era troppo rude e burbero per i mie gusti. Con la sua pelle color nocciolina, la barba incolta e la sigaretta sempre accesa seguiva con attenzione i nostri allenamenti. Prendeva molto sul serio il suo ruolo di “mister”, forse anche troppo e appena sbagliavi erano dolori: cinque, dieci, quindici giri di campo a fine allenamento, queste erano le “punizioni” per chi non si atteneva scrupolosamente alle sue istruzioni.
Si raccontava che in passato fosse stato un buon centromediano metodista con il vizio del goal e che avesse giocato una stagione in serie C1, prima di rompersi un ginocchio a ventidue anni. Un infortunio dal qualche non si riprese più, tanto da dover appendere gli scarpini al chiodo, e del qualche riportava ancora le conseguenze visto che era leggermente claudicante.

Mio malgrado, fui così costretto ad adattarmi al ruolo di terzino, scorazzando sulla fascia destra di improvvisati e impolverati campetti di periferia. Quel numero “due” sulle mie spalle mi sembrava proprio un scherzo del destino, “ad un passo dal numero uno, dal mio ruolo”,così mi dicevo ogni volta che indossavo la mia maglia arancione con sopra il macabro sponsor di una impresa di pompe funebri!

Quell’anno però i mezzi rudi e poco ortodossi del nostro Mister ci avevo comunque portato alla semifinale del campionato provinciale. I nostri avversari sulla carta erano decisamente più forti, eppure nella partita di andata, eravamo riusciti a strappare un dignitoso pareggio. Nella partita di ritorno, per andare in finale, sarebbe bastato strappare un tranquillo zero a zero. Ma Mister “Ciccheddu”, non era certo tipo da “zero a zero”. Convinto sostenitore del calcio moderno, “Sacchiano” della prima ora, pensava che le sue “squadre” dovessero giocare necessariamente un calcio “champagne”, che detta così sembrerebbe nient’altro che una facile battuta sul suo terribile vizio.
Il primo tempo si era chiuso a reti inviolate, ma giusto per puro caso, visto che i legni della nostra porta avevano tremato per ben quattro volte! A metà della ripresa, arrivò però la doccia fredda. Su un nostro svarione difensivo, l’ala sinistra avversaria, prese palla, andò sul fondo, scodellò al centro e di testa il centravanti insaccò alle spalle del nostro portiere.
Con la forza della disperazione, ci spingemmo alla ricerca del pareggio. A cinque di minuti dalla fine, ricevetti palla da un mio compagno all’altezza di centrocampo, feci un triangolo con il nostro mediano e mi involai sulla fascia destra, alzai la testa e vidi il nostro centravanti che mi seguiva nell’azione, entrai nell’area di rigore dei nostri avversarsi pronto a crossare, quando venni letteralmente falciato da un difensore avversario nel vano tentativo di fermarmi. Il contatto con il terreno fu evidentemente doloroso ma trovai subito sollievo nel sentire il fischio dell’arbitro, che ci concedeva un indiscutibile calcio di rigore!
E qui avvenne l’imponderabile!
“Ciccheddu” infatti richiamò la mia attenzione con il suo inconfondibile fischio alla pecorara e mi urlò:

“Mjago, il rigore lo tiri tu!”

Era evidente che il Mister fosse completamente ciucco!
Daniele, il centravanti della nostra squadra, aveva già in mano il pallone, lo lascio cadere e andò a protestare dal Mister, ma fu tutto inutile, quel rigore l’ avrei dovuto tirare io.
Così presi il pallone, lo pulii con la maglietta e mi avviai verso il dischetto. Sistemata la sfera, tornai qualche metro indietro per avere lo spazio sufficiente per la rincorsa. Il portiere non si era ancora posizionato tra i pali, lo aveva fatto apposta, tutti i portieri sanno che bisogna far innervosire il tiratore. Chiese all’arbitro di verificare se il pallone fosse ben sistemato sul dischetto, per tutta risposta l’arbitro, lo invitò a mettersi sulla linea bianca della porta e non muoversi fino al suo fischio. Il portiere si mise al suo posto e iniziò a muovere le braccia verso l’alto, come Grobellar ,l’ex portiere del Liverpool che in una epica finale di Coppa Campioni di qualche anno prima fece sbagliare tre rigori ai suoi avversarsi facendo il pagliaccio. Non lo guardai più, mi stava deconcentrando, così fissai l’arbitro e aspettai il fischio, che arrivò dopo qualche istante. Avevo deciso di tirare a sinistra, partii convinto e colpii la palla per bene di collo pieno ma con il busto troppo spostato verso l’alto. Il pallone si impennò paurosamente e volò alto nel cielo insieme alla bestemmie di “Ciccheddu”, che venne subito dopo prontamente espulso per le imprecazioni!

La finale svanì con quel pallone in cielo, ma servì a convincere “Ciccheddu” che forse era il caso si vedere come giocasse in porta quel terzino destro, veloce, con un buon tiro, ma un “tantino” impreciso nel tirare i calci di rigore!

 
 
 

Il teorema del pappagallo

Post n°53 pubblicato il 15 Giugno 2008 da mjago

“La matematica è quella scienza in cui non sappiamo mai di che cosa parliamo né se sia vero quello che diciamo.”
(Bertrand Russel)

“Sia data la serie per n che va da zero all’infinito (-1)n an, con an > 0 per ogni n appartenente ad N. Se la successione an è decrescente e se il limite per n che tende all’infinito è uguale a zero, allora la serie è convergente. Inoltre, le somme parziali di indice pari approssimano la somma per eccesso, quelle di indice dispari per difetto; il resto della serie è maggiorato, in valore assoluto, dal primo termine trascurato.”
(Analisi Matematica - Serie Numeriche - Teorema di Leibniz)

Dieci anni fa.

Quando sentii il mio cognome riecheggiare nell’aria dell’Aula C mi si gelò il sangue nelle vene. Eppure me lo aspettavo, toccava a me per forza, ero il quarto della mattinata. Era un mercoledì, mancava un quarto d’ora a mezzogiorno, secondo giorno degli orali dell’esame di Analisi Matematica, primo appello dopo la fine delle lezioni. Il mio cognome si trovava nella lista dei trentadue superstiti dello scritto di due settimane prima, una “mattanza” a cui ero miracolosamente sopravvissuto con un mediocre venti su trenta.
Mentre scendevo gli scalini che mi portavano verso la cattedra, gli occhi dei colleghi che affollavano l’aula li sentivo tutti addosso me, avanzavo come una sorta di “vittima sacrificale” verso l’altare il cui “sacerdote” aveva le sembianze astratte del professore del corso più odiato in assoluto da ogni studente della mia facoltà. Lui mi aspettava lì, in piedi, con la sua barba nera seppia e gli occhi piccoli dietro le lenti spesse da miope senza speranza. Un aria di mistero aleggiava su quell’uomo sulla cinquantina che si preparava ad interrogarmi. Durante l’anno accademico avevo seguito tutte le lezioni del suo corso. Arrivava sempre puntualissimo, vestito sempre allo stesso modo, sempre con colori scuri. Cancellava la lavagna con una sua cimosa che si portava dall’ufficio insieme a dei suoi gessetti. Non portava con se nient’altro. Nessun libro, nessun appunto, aveva tutto nella sua testa. Mai una esitazione, un tentennamento o un dubbio. Con la sua calligrafia precisa riempiva le lavagne con chilometri di formule e dimostrazioni. Finita la lezione, cancellava tutto, salutava e se ne andava. Nessun tipo di comunicazione, nessun accenno di dialogo. Noi studenti sembravamo essere nient’altro che un elemento dell’arredamento dell’aula.
Ogni esame rispettava un protocollo, anzi meglio, un cerimoniale di sapore quasi religioso. I due assistenti arrivavano dieci minuti prima dell’orario prefissato, facevano l’appello e si posizionavano davanti alla cattedra, spalle agli studenti. Il professore compariva sempre puntualissimo all’ora prevista per l’inizio dell’esame. Come al solito, senza niente in mano. Si disponeva, su un lato della cattedra in modo da avere davanti a sé la porta dell’aula. Nulla era lasciato all’improvvisazione, tutto era pianificato e preparato.
Gli esami orali alla lavagna erano terribili. Ti sentivi solo e indifeso. Ed era proprio così il mio stato d’animo, quella mattina, nel giorno del mio primo esame universitario, stretto nella mia polo nera accompagnata da un paio di banali jeans blu, in piedi vicino alla lavagna con il cuore che mi batteva forte forte come un picchio che scava la sua tana nell’albero.
Il professore chiuse gli occhi, passeggiò verso l’uscita con le mani dietro la schiena, tornò indietro, si rimise al suo posto e guardando davanti a se, senza nemmeno pensare alla mia esistenza, come ispirato da una visione divina, esordì:

- Dall’analisi del suo compito ho notato che ha avuto qualche difficoltà nella risoluzione del quesito sulle Serie Numeriche;
- Si
- Vorrei iniziare proprio da questo. Mi enunci e mi dimostri il Teorema di Leibinz per la convergenza delle Serie Numeriche.


Oggi non saprei dire a cosa serva il Teorema di Leibniz. Ricordo perfettamente a memoria invece il suo enunciato, come un pappagallo che ripete una frase senza senso. Questo teorema è marchiato a ferro e fuoco nella mia mente, come se fosse il ricordo nefasto di qualche trauma infantile.
Iniziando la dimostrazione non spezzai il gesso, e scrivendo provocai quel tipico e fastidiosissimo stridio della bacchetta sulla lavagna. Il professore, per la prima volta da quando lo conoscevo, mi guardò in faccia e pronunciò una frase che aveva il retrogusto di una battuta:

- Credo che per il suo benessere uditivo , per il mio, per quello dei miei assistenti, e per quello dei suoi colleghi sia il caso di spezzare la barretta di gesso.

La platea alle mie spalle, da bravo “gregge”, si lascio andare ad una risata, che sembrò proprio una sorta di anonimo “belato”. Io abbozzai:

- Si professore, credo che convenga fare così.

Per un ora e mezzo, seguendo il suo stile, andò alla ricerca di un argomento che non conoscessi. Era la sua tattica. Quando lo trovava , si fermava lì e iniziava ad andare a fondo. Quando ti vedeva in difficoltà non aveva nessuna pietà. Quella stessa mattina era rimasto per dieci, dico dieci minuti di orologio immobile in attesa di una risposta da parte di una mia collega. Era evidente che lei non sapesse rispondere, ma lui sadico non l’aveva aiutata e con un laconico “si accomodi” l’aveva congedata invitandola a ripresentarsi all’appello di Settembre. Esercizi, teoremi, corollari, proposizioni, in un modo o nell’altro, arrampicandomi sugli specchi, tergiversando qua e là risposi a tutte le sue domande. Alla fine, si arrese:

“Si accomodi”

Così finì l’esame. Distrutto, sudato, ricoperto di gesso come se mi dovessi preparare ad una prova di ginnastica artistica agli anelli, appoggiai il gesso e la cimosa e, provato ma soddisfatto, mi sedetti in prima fila.
La solita pantomima, gli assistenti che si avvicinarono al professore, conciliabolo farsesco, visto che a decidere non poteva che essere sempre lui. Dopo pochi minuti, quella mattina, per la seconda volta sentii il mio cognome riecheggiare nell’aula, come il sibilo di una frustata. Venivo invitato ad alzarmi:

- Questa commissione ha deciso di valutare il suo esame orale, con la votazione di trenta trentesimi. Considerati i venti trentesimi riportati nella prova scritta, mediando , avremo una votazione finale di venticinque trentesimi.
Tuttavia, vista la brillante prova orale, le proponiamo un voto finale di ventisette trentesimi. Accetta?
- Dove devo firmare?

 
 
 

Quattro stelle nel cielo

Post n°52 pubblicato il 08 Giugno 2008 da mjago

“Come in una di quelle assurde processioni del paradiso dantesco sfilano in teorie interminabili, ma senza cori e candelabri, gli uomini della mia gente. Tutti si rivolgono a me, tutti voglio deporre nelle mie mani il fardello della loro vita, la storia senza storia del loro essere stati. Parole di preghiera o d’ira sibilano con il vento tra i cespugli di timo. Una corona di ferro dondola su una croce disfatta. E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita,mi sento come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberali in eterno della loro memoria.”
(Salvatore Satta – Il giorno del giudizio)


Quest’anno - Il giorno del mio compleanno.

Quel martedì notte era più tardi del solito. Amo i piccoli rituali prima di andare a letto. Tutto deve avere un suo ordine, ogni cosa al suo posto ed un posto per ogni cosa, la mia sfida quotidiana contro la legge di Boltzmann, so che purtroppo tutto è inutile, che l’entropia alla fine non potrà che aumentare, ma nell’universo delle nostre case possiamo illuderci di essere dei piccoli “ridicoli Dio”. I quaranta Watt della lampada sul comodino non sempre sono sufficienti per leggere, ma quella sera non avevo molta voglia di farlo. Puntata la sveglia, tolti gli occhiali, chiusa la luce mi ritrovavo nel buio della notte sotto le coperte. La mia camera da letto si affaccia su una strada riservata, di notte non si sente alcun rumore. Da ragazzino i rumori della notte mi spaventavano a morte, bastava poco, lo scricchiolio di un mobile, il latrato di un cane, ad accendere la mia fantasia.
Nel silenzio della notte ripensavo a quel giorno, a quello che era successo, alle due ore passate in Comune a bisticciare contro un’ assurda burocrazia, alle pacche sulle spalle, alle telefonate, ai messaggi di auguri, ai pacchetti scartati, alla torta, a quell’unica candelina: si trenta quest’anno sarebbero state decisamente troppe da spegnere.
Trent’anni.
Diciamo che detta così più che una festa sembra una sentenza di condanna passata in giudicato. In un film di Nanni Moretti, mi sembra di ricordare che sia Aprile, il protagonista, il giorno del sul compleanno, si trova a fare un gioco particolare. Prende un doppio metro, di quelli scorrevoli, considera la durata della vita media di un uomo e la trasforma in centimetri. Poi ne sottrae una quantità pari ai suoi anni. Rimane quindi una misura, qualche decina di centimetri, quello che in teoria gli rimarrebbe da vivere. Qualche giorno fa ero in cantiere. Ho trovato per terra uno di quei metri scorrevoli e mi sono ricordato la scena di quel film. Ho pensato a quella che può essere la vita di un uomo medio. Ho considerato qualche anno in meno visto che tradizionalmente in famiglia non è che siamo particolarmente longevi. Ne ho dedotto i mie trent’anni e sono rimasto a fissare con una certa sorpresa il risultato: “Perbacco sono quasi arrivato a metà del guado…sempre che non sia caro a qualche Dio dell’Olimpo!”
Mastro Vittorio, con la sua faccia da carta geografica, passando di lì vedendomi pensieroso, si avvicinò e mi chiese:

- “Geniere” la vedo perplesso non le torna qualche conto?
- Mastro Vittorì è il tempo! Scorre troppo velocemente!
- Geniere ma lei è un ragazzino, avrà più o meno l’età di mio figlio!
- Quanti anni ha suo figlio?
- 38!

“Mortacci sua!” Trentotto anni? Si dimostro qualche anno di più è sempre stato così, ma caricarmene otto mi sembra un tantino esagerato. Mamma mi diceva sempre, coraggio, quando si dimostra qualche anno in più da ragazzi, poi quando si è più maturi si sembra più giovani.
Ma intanto il tempo passa.
E quel martedì, nel giorno del mio trentesimo anno, come in un immaginario “Giorno del giudizio”, le donne che mi hanno accompagnato in questi ultimi anni hanno deciso di tornare a farmi visita dal passato, con una sorta di ”processione da paradiso dantesco” il cui senso, probabilmente, mi sfugge, ognuna con in mano la propria storia che in fondo è la mia storia. Non ho incontrato nessuna di loro, sono infatti tutte lontane da me centinaia di km. Addirittura due si trovano all’estero.
Una sola si trova nella mia isola ed è Gaia, quella che mi è rimasta più vicina in tutti i sensi, quella con cui ho percorso più strada insieme. La “vedo” ferma, immersa in una attesa da “Deserto dei Tartari”, come in un ultimo disperato assedio, cosciente, e in questo forse sta la sua incoscienza, che però stavolta io non ho nessuna bandiera bianca da sventolare.
Francesca, Gaia, Giulia ed Alice hanno scelto quattro modi diversi per comunicare con me: un bigliettino, una telefonata, un sms, internet. Poche parole, ma il desiderio comunque di dire che nonostante tutto, quel giorno, ancora una volta "ho pensato a te".
Quando muore una stella nel cielo la sua luce continua viaggiare nel cielo per milioni di anni. Ognuno di noi ha delle stelle nel firmamento del proprio cuore. Alcune sono più grandi, altre sono più piccole, ma tutte danno, chi più o chi in meno, il proprio contributo per illuminare il buio della notte.
Quella sera guardando nel cielo del mio cuore ho visto ancora quattro luci. Le stelle da cui provengono probabilmente si sono spente, ma sono convinto che la loro luce continuerà a viaggiare nel tempo e nello spazio, ed è bello alzare gli occhi e vedere questo “cielo fiorito”, anche se si tratta, ormai, solo di ricordi…

 
 
 

Dodici settimane e mezzo e un pomeriggio al mare

Post n°51 pubblicato il 25 Maggio 2008 da mjago

“ La memoria è fragile e il corso di una vita è molto breve e tutto avviene così in fretta, che non riusciamo a vedere il rapporto tra gli eventi, non possiamo misurare le conseguenze delle azioni, crediamo nella finzione del tempo, nel presente, nel passato, nel futuro, ma può darsi che tutto succeda simultaneamente”
(Isabel Allende – La casa degli spiriti)

Estate 2007…
Davanti alla fermata di un tram di una delle principali arterie della nostra Capitale, due giovani ragazze aspettano che passi il “14”. Fa caldo, molto caldo, troppo caldo in quella estate romana. Le due ragazze sono lì, accaldate, hanno quasi la stessa età, poco più che vent’anni, ma appaiono molto diverse.
Una è alta, carnagione chiara, con una cascata di capelli ricci neri, vestita con una maglietta a polo ed un paio di jeans. L’altra è sensibilmente più bassa, di carnagione più scura, capelli castani finissimi, come fili di rame. Due occhi grandi le riempiono un viso tondo e solare. Anche lei porta jeans, accompagnati da una maglietta girocollo che trattiene a stento la “gioiosa esplosione del suo petto”. A tutta quella “generosità” non si è mai abituata, quanto imbarazzo, quasi un po’ di vergogna nel sentirsi sempre, maliziosamente, osservata.
Quel tram non vuole arrivare, e lei si scoccia. Succede sempre così, ragazza impaziente, volitiva, un poco mascolina nei modi e nei gesti, burrosa creatura metropolitana dall’aria, avvolte, austera. “Ma che ora saranno? ”, apre la borsetta nera e inizia a frugare…

Ho sempre “invidiato” la borsetta alle donne. Quanto è comoda, quante cose che ci si possono mettere dentro: chiavi, portafogli,portamonete, agendine, penne, matite, cellulari. Ed è bello frugare nelle borsette delle ragazze, curiosare, scoprire i segreti, indovinare chi si ha davanti rovistando dentro quel personalissimo contenitore. Adoro coglierle di sorpresa:
“Mi fai dare un’occhiata?”
E loro stupite, cedono, quasi sempre, ed assecondano così la mia “morbosa” curiosità! Le borsette delle donne sono il regno del caos e del disordine, un mondo magico e irrazionale, pieno di sogni e sorprese, luogo poetico dove fazzoletti appallottolati si fanno compagnia con ammuffite caramelle, dove “provvidenziali pannolini” chiacchierano con vecchie penne dall’inchiostro asciutto che non sognano altro che il momento in cui torneranno a correre su bianchi fogli di carta. In quelle borsette ci sono loro, le donne, con tutta il loro mistero, che le rende così, straordinariamente, uniche.

Finalmente ecco il tram! Sono due addirittura! Che fortuna, meno gente, più comodità, meno promiscuità nauseabonda.
Una volta salite, mentre la “riccia” oblitera diligentemente il suo “titolo di viaggio”, la “liscia”, come al solito, se ne infischia, si siede, occupa un posto per l’amica e spera che anche questa volta, senza biglietto, la riesca a fare franca.
La loro fermata di arrivo non è molto lontana. Poco prima si alzano e si avviano verso l’uscita. La ragazza dai capelli lisci è contenta, per l’indomani è previsto il ritorno a casa, nella sua terra, dal suo mare. Non ama Roma, non l’ha mai capita, la sopporta con fastidio, troppo grande, troppo caotica, troppo rumore paragonato al silenzio della sua isola, nella quale ,avvolte, si riesce anche a non sentire l’assordante rumore dello scorrere del tempo. E mentre era lì immersa nei suoi pensieri, all’improvviso, un rumore sordo cancella tutto. Si sente proiettata in avanti e cade rovinosamente a terra insieme alla sua amica. Gli occhiali volano e l’aria si riempie di urla e imprecazioni. Quei due tram arrivati insieme, una fortuna avevano pensato, si trasformano in una sfortuna, tamponandosi tra di loro e mandando all’ospedale le due giovani ragazze! Per fortuna niente di rotto! Solo una partenza rinviata, un paio di occhiali nuovi e qualche giorno in compagnia di un fastidioso collare ortopedico…


Autunno 2007…una telefonata
- Ciao Mjago! Ti disturbo? (Alice)
- Ciao Alice , se mi disturbassi non ti avrei risposto (Mjago)
- Sei a lavoro? (Alice)
- Si, tu dove sei? (Mjago)
- Si sente subito quando sei a lavoro, hai una voce “professionale”? (Alice)
- Professionale? (Mjago)
- Si e poi non fai lo scemo! (Alice)
- Vabbè e tu dove vai? (Mjago)
- Io vado a fare ginnastica posturale! (Alice)
- Ginnastica posturale? (Mjago)
- Si, non ti ricordi? Male male, allora non mi ascolti! (Alice)
- Si aspetta mi ricordo e per via dell’incidente di questa estate! Ma ti farà bene questa ginnastica? (Mjago)
- Si, dopo il collo e la schiena vanno molto meglio, come è andato il tuo pomeriggio? (Alice)
- Le solite lamentele dei clienti, non sono mai contenti! (Mjago)
- Secondo me fai il filo a qualche signora! (Alice)
- Cara Alice, non faccio mica il “gigione” con tutte! (Mjago)
- Lo fai solo con me? (Alice)
- Ma con te tanto è inutile! (Mjago)
- Perché? (Alice)
- Mi hai già detto che non sono il tuo “tipo”! (Mjago)
- Ancora con questa storia? E tu mi hai detto che non sono la tua “tipa”! (Alice)

E si, io non ero il suo “tipo”, e lei ,forse, non era la mia “tipa”. Ma per fortuna ci siamo incontrati, naufraghi in mezzo alla “tempesta”. Siamo stati “scialuppa” l’un per l’altro e ci siamo aiutati, abbiamo remato insieme per uscirne fuori, per non esserne sopraffatti, ci siamo consolati e voluti bene.
Per dodici settimane e mezzo.
Fino a quel pomeriggio al mare, dove, finita la tempesta, arrivati a riva ci siamo salutati e inconsapevolmente, o forse no chissà, ognuno aveva già deciso di prendere un’altra strada.

 
 
 

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