il garage patafisico
il mio zoo personale ovvero cose senza capo né coda
Quando ero piccolo sul mio libro di scuola nelle pagine di storia c'era la storia di Cristoforo Colombo. Siccome era molto povero e non poteva comprarsi una nave anche se lui voleva voleva navigar, allora andò dalla regina, che dicono fosse bellissima, per farsene regalare una e tanto la pregò e tanto insisté che lei, scostandosi i capelli dal viso, gli disse affettuosa: "tieni Cristoforo, mangiati questa noce che tanto c'ho il vassoio pieno". Colombo, che era genovese, pensò che in fondo una noce era meglio di niente e che in fondo la visita dalla regina qualcosa aveva fruttato (anche se era secca) e se la mise in tasca. Qualche giorno dopo, dopo pranzo, che consistette in un uovo perché come detto era povero, siccome aveva ancora un po' di fame pensò che poteva mangiarsi anche la noce della regina. La prese dalla tasca e cominciò a cercare lo schiaccianoci nel cassetto delle posate della mamma. Quando alla fine lo trovò dopo aver rivoltato il cassetto, perché gli schiaccianoci hanno la cattiva abitudine di nascondersi nelle dimensioni parallele che esistono in tutti i cassetti del mondo, mise la noce in mezzo e la schiacciò. Il guscio si ruppe in due parti uguali e mentre Colombo si mangiava la noce ebbe l'illuminazione che si chiama ancor oggi "uovo di Colombo" per via di quello che si era mangiato prima. Prese prima un pezzetto di carta quadrato e ci disegnò su una bella croce rossa (perché da piccolo aveva pensato di fare anche l'infermiere), poi spezzò uno stuzzicadenti che usava quando l'uovo gli restava tra i denti e ci infilzò in due punti il foglietto su cui aveva disegnato la croce. Poi accese una candela e lasciò colare un po' di cera proprio al centro di una delle due metà del guscio della noce che si era mangiato e, prima che si raffreddasse, con gesto veloce ci poggiò sopra lo stuzzicadenti con il foglietto. Poi uscì, chiamò alcuni amici che conosceva e tutti insieme andarono al mare. Saltarono tutti sulla barchetta che aveva costruito col guscio di noce e se ne andarono in giro per il mondo scoprendo tante cose, alcune delle quali sarebbe stato meglio che fossero rimaste coperte.
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Finalmente una buona notizia: d'amore si può morire. E non lo dico io, né lo dicono piccoli lacrimevoli cantanti pop di tutte le latitudini che nonostante l'imperversare della musica house hanno sempre una parola buona per tutti i cuori infranti del mondo, né sottodotati scrittorucoli al femminile che hanno campato di rendita su quest'unico concetto accompagnando nel loro languore generazioni di femminucce per decenni. Ché, finché lo dicevano loro, diciamocelo, era davvero poco credibile, con tutti i soldi che guadagnavano e guadagnano e quel vago sentore di presa per i fondelli che si avverte quando chi ti dà il benestare al tuo sentirti infinitamente depresso e svuotato se ne và, coi tuoi soldi, a svernare ai tropici o in qualche trasmissione televisiva. Senza contare che Leopardi -che dicono fosse pure bruttino e un po' gobbetto- d'amore non ci è nemmeno morto, e allora perché lui no e io sì, che era pure più sfigato di me? No, adesso il lasciapassare per la morte per amore viene direttamente dalla scienza. Dall'università di Utrecht, per la precisione, che non sarà un'università americana a cui siamo disposti a credere senza leggere neanche chi ha condotto la ricerca, che tipo di criteri ha utilizzato, che campione ha preso in considerazione e quanto ci hanno impiegato ad arrivare alla conclusione, ma che è pur sempre una seria e prestigiosa università europea, di quelle che fanno parlare di sé solo quando giungono a certezze manifestamente rilevanti. Dunque, la serissima università olandese spende tempo e risorse e in pagine e pagine di pubblicazione su altrettanto serie riviste scientifiche proclama che lo stress psicologico provocato dal distacco di una relazione finita aumenta fino al 21% il rischio di morte, unito all'adozione di stili di vita "insani" per distogliere la mente dalla sofferenza. Si sostiene, in altre parole, che la sofferenza per la fine della relazione invita a stordirsi con maggior facilità con alcool, fumo e droghe, a trascurare l'alimentazione ed il sonno, a guidare più spericolatamente, a mettere in atto in definitiva una serie di comportamenti definiti "seducenti" ma pericolosi per la salute. Ci si avvia incautamente verso la depressione, insomma, senza rendersi conto che il proprio stile di vita pende minacciosamente verso una forma di autolesionismo che, diciamocelo di nuovo, qualche conseguenza tragica la deve pur avere. Naturalmente vi sono differenze tra i due sessi nell'assorbire questo lutto e và da sé che le donne sono più resistenti degli uomini anche in questo (giungono infatti solo al 17% in più di rischio di morte), e che l'età è una discriminante di non poco conto. Però il nocciolo della questione rimane intatto: ora siamo tutti legittimati non solo a stare male per la fine di una nostra storia (cosa che nel nostro piccolo facevamo già anche se con infiniti sensi di colpa nei nostri confronti e di chi ci sta intorno, perché "come posso permettere a quello/a stronzo/a di farmi sentire così dopo tutto quello che mi ha fatto?), ma vieppiù a morirne, se ci pungesse vaghezza e una buona disponibilità generale. Alla fine il nostro dolore ne sarebbe socialmente sdoganato e cosa c'è di più dolce che morire sotto lo sguardo benevolo e comprensivo dell'umanità che ci assiste? Senza sensi di colpa o di inadeguatezza, perché, in fondo, lo dice anche la scienza. E sarebbe solo la testimonianza della nostra grande sensibilità. L'unica controindicazione parrebbe quella temporale: anche il desiderio di darsi la morte, ben presente in tutte le forme di malattia d'amore, tende a ridursi col passare del tempo. E' massimo nei primi trenta giorni, poi decresce via via fino a scomparire se nel frattempo altre cause non l'hanno già procurata o se il cuore infranto riesce a rifarsi una vita. Occorre saper cogliere l'attimo, insomma. E mi viene in mente mio nonno che, dopo la morte di mia nonna, non si risolse prima di tre mesi a lasciare anch'egli questa valle di lacrime, lasciandoci nel dubbio di quale aggravamento delle sue due malattie, quella fisica o quella dell'anima, gli fosse stato fatale. |
Eccezion fatta per il fatto che devo pur continuare ad alimentarmi ed a praticare altre a tutti note attività fisiologiche, passerei intere giornate a letto. Tirar giù il piedino dal letto in queste mattine è pratica paragonabile per le mie obnubilate capacità fisiche e mentali alla scalata non dico dell'Everest ma almeno del K2 senza bombola ad ossigeno, con l'aggravante che il pavimento è ancora più freddo di tutta la parete nord. Raggiungo con immane sforzo psicologico e fisico dapprima il bagno poi la caffettiera in cucina, tremolando come un pallido crème caramel su un piattino tenuto da un cameriere ubriaco e strabuzzando gli occhietti per evitare almeno gli spigoli più appuntiti, poi mi accascio crepitando su una sedia già fatalmente provato. Aspetto che il magico liquido fuoriesca e ne ingurgito quanto più posso per poter avere l'autonomia necessaria a tornare almeno in camera da letto e riaccasciarmi esausto. E, anche se ho appena dormito dodici ore filate, ho sonno, ho invariabilmente sonno, ho inevitabilmente sonno. La prospettiva di alzarsi e compiere qualche gesto di un qualche riconoscibile valore o di una qualche utilità personale o sociale non mi sfiora nemmeno. Dormirei e dormirei senza tregua, senza sosta, senza rimpianti e probabilmente senza ritegno. Giuro che non mi è mai successo prima e non è neanche che io non ami l'inverno o quel venticello freddo che sento sbattere sulle persiane e infilarsi in mezzo agli infissi malandati. Non mi dispiace neanche vestirmi di abiti pesanti e sospirare di soddisfazione quando entro finalmente in un bel posto caldo come un bar dove è evidente il sollievo di tutti i presenti deducibile dalle espressioni facciali tipo "l'abbiamo scampata bella". Mi piace l'inverno, il cielo grigio, la luce bianca, mi piace il respiro che si vede uscire dalla bocca. Eppure quest'anno sono entrato in letargo. |
- Sono una donna, no? Avrò il diritto di non sapere cosa voglio. - Figurati. Mi incasinerei ancora di più. - A che rimedio pensi? - Rimedio? Non c'è nessun rimedio. Sono una donna e basta, non dimenticarlo, mica una superdonna. - Ho capito. Ma ci sarà in fondo a te stessa una qualche sensazione...Dicono che voi donne ne abbiate su qualunque cosa... - Sensazione...sensazione...non ho nessuna sensazione...perché dovrei avere una sensazione? Sono già abbastanza confusa così. - Ma le sensazioni poi, emergendo, ti danno la risposta che cerchi. Dicono... - Non cerco nessuna risposta. Non voglio più dare risposte a nessuno. Voglio essere libera di tenermi tutte le mie confusioni. E piantala di seccarmi. - Scusa. Credevo che ti facesse bene parlarne... - Ecco. Tutti a credere che abbia voglia di parlarne...Quando una donna sta così non ha affatto voglia di parlarne. E non le fà affatto bene, aumenta solo la confusione. Ora vorrei solo stare in silenzio. - Come vuoi. Allora facciamo così. Io entro a vedere "Ai confini del paradiso". Tu se vuoi mi raggiungi, mi metto sulla sinistra. Se no ti vai a vedere Soldini. Altrimenti mi aspetti in macchina. E tieni i popcorn, a me non piacciono.
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mercoledì 1 marzo 1995 Il primo contatto con il viaggio e con la Francia è stato facile e piacevole. Maryline è stata una compagnia intrigante e discreta. Lei, provinciale-parigina che studia lingue, vive per più di un anno in Italia con l'Erasmus e sogna di fare la "cucitrice". E non so davvero se intendesse più la stilista che la sarta, almeno da come muoveva le mani e dagli sguardi luminosi che le venivano quando parlava di cucire e di inventare costumi mettendo assieme abiti d'epoca a pezzi di vestiti moderni. |
Inviato da: mary.shelley
il 04/11/2009 alle 16:14
Inviato da: infinito.Garbo
il 03/01/2009 alle 13:41
Inviato da: m.oebius
il 03/10/2008 alle 10:47
Inviato da: l_assedio
il 30/09/2008 alle 20:06
Inviato da: m.oebius
il 23/06/2008 alle 12:54