Creato da anchise.enzo il 30/01/2012

Mondo contadino

Civiltà contadina molisana

 

 

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LA GIORNATA DEL CONTADINO

Post n°24 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

La giornata del contadino torese di una volta
I bimbi delle Elementari di Toro visiteranno la mostra etnologica allestita da Vincenzo Colledanchise, sabato 16 maggio. Il tema proposto loro dalle maestre è quello di sapere come vivevano i nonni o i bisnonni. A beneficio dei piccoli visitatori e di tutti noi, Vincenzo racconta qui la sua personale esperienza di ragazzo cresciuto in una famiglia contadina del secolo scorso, fine Anni Cinquanta, inizi Anni Sessanta.



Bimbi vestiti a festa a dorso di un asinello


Alle sette, quando mi alzavo, i miei avevano già rassettato e governato gli animali, che erano nella sottostante stalla. Venivo aiutato nella sveglia dai nitriti di un mulo, che appena faceva la prima colazione di fieno, ormai sazio, esprimeva la sua gioia in quel modo. Avevamo anche il gallo che avrebbe dovuto svegliarmi ma, forse perché pigro, lo faceva molto dopo essermi già svegliato. Se non erano gli animali a svegliarmi, erano gli intensi odori provenienti dalla vicina cucina. Sotto la brace del camino cuoceva la pizza di granone o di farina (pizza mallevita) al cui fianco, sui treppiedi di ferro, a fuoco lento, arrostivano dei peperoni oppure pomodori e baccalà o “caciaove e cipollata”. Non era la colazione di noi ragazzi, era il pranzo che i miei avrebbero portato in campagna.

Molto prima, di solito alle cinque, la mamma aveva ottenuto la sua ennesima caciotta, che noi ragazzi ci divertivamo a contare sull’apposito trespolo di legno (appennacasce), appeso al soffitto, per essiccare il formaggio. Avendo le pecore e qualche capra, la mamma cagliava il latte per averne pezze di formaggio che vendevamo ai vicini.


Con pecore e capre al pascolo


La colazione, noi ragazzi la preparavamo col siero, ottenuto dalla cagliatura e con la “posa” del caffè, donatoci dalla zia benestante, in quanto pensionata di guerra. Due sottoprodotti, due scarti, che uniti alle fette di pane abbrustolito, rendevano comunque saporita la colazione.

Qualche volta che non ero preparato, per affrontare dignitosamente una nuova giornata scolastica, mi recavo coi miei in campagna. Grida e strilli irripetibili aprivano quel corteo di uomini e animali recalcitranti, di prima mattina, nel recarsi in campagna. Il lungo convoglio di muli, asini, giumente, al cui traino seguivano svogliatamente capre e pecore, con le funi legate ai basti, e l’immancabile cane fedele, adempivano tutti insieme, puntuali, al solito rito mattutino: ripetere la loro rabbia o noia con nitriti, ragli e belati all’uscita della stalla e quello successivo, di depositare lungo la Via del Convento ogni tipo di feci, che era quasi di intralcio ai passanti, tanto che dopo le nove la strada assumeva altro colore.


Coppia di muli equipaggiati con i caratteristici sportoni (i spertune)
per il trasporto dei covoni di grano


La prima sosta obbligata era al muraglione, dove salivamo in sella alle vetture: noi maschi seduti a cavalcioni, le donne di fianco ( a causa delle gonne), badando a non farsi male agli attrezzi ed aratri issati al basto, e a non urtare la bisaccia con le provviste della giornata.

Capitava che altri convogli, simili al nostro, facessero la stessa strada e allora, lungo il tragitto, io ascoltavo in silenzio ciò che i grandi si dicevano donandosi reciproche confidenze, a volte cariche di pene per la loro vita dura nella esasperante quotidianità. L’avarizia della terra e l’implacabilità delle ricorrenti avversità atmosferiche, mettevano ogni giorno alla prova il loro coraggio e la loro religiosa tenacia.

Giunti in campagna, un fazzoletto di terra nel dirupo della Costa, si sistemavano gli animali: pecore e capre legate a qualche albero o arbusto per pascolare. Mentre alle vetture, munite dei collaretti a cui erano agganciati le funi col bilancino, si legava l’aratro.


Il contadino con l'aratro è Nicola Pietrantuono


Mentre mio padre lanciava irripetibili rimproveri alle povere bestie, perché non rispettavano la linearità del solco nel lungo e faticoso lavoro di aratura, dai poderi vicini, invece, arrivava sempre la melodia di un canto di donna che gioiosamente ci avvinceva, raccontando nenie di amori e tradimenti.

Non mi annoiavo. la caccia ai nidi di uccelli sugli alberi e la pesca nel vicino torrente erano i miei passatempi preferiti. Altre volte, sotto il capanno di foglie di granoturco, mi divertivo a fare statuine con l'abbondante creta a disposizione. Oppure allineavo tantissime pietre, dalle più piccole alle più grandi, lungo un viottolo e mi improvvisavo “fuochista” lanciando in cielo, con inaudita violenza quelle pietre , imitando nel gioco, gli amati fuochi pirotecnici.

A mezzogiorno, alla voce santa della campana, il lavoro cessava e portandoci sotto la grande quercia, consumavamo quel frugale pranzo, che aveva preparato al mattino la mamma, racchiuso nella “mappina” ancora fumante.


Un sorso alla fiasca per dissetarsi


Mi recavo a prendere la fiasca di vino, tenuta nel fresco del pozzo, e quel vinello rosso era veramente conforto e ristoro alla grande fatica, lo indovinavo dal largo sorriso soddisfatto di mio padre. Seguiva puntuale un breve riposo sotto la folta e ombrosa quercia, che era più o meno lungo, a secondo della fatica sopportata. La mamma, mentre consumava il parco e frugale pasto, osservava compiaciuta il lavoro del marito; tanta terra arata, ora scura e dalle zolle a cresta lucenti.

Si proseguiva il lavoro fino all’imbrunire, mentre la mamma prima di rifare il percorso per il paese, provvedeva ad estirpare le erbacce dall’orto e cogliere alcuni ortaggi che usavamo per la cena a casa.


Donne con minelle in testa e ciuccio con le bigonce (piunzi) con i loro carichi d'uva


Lungo la “viarella” di ritorno a casa, si riformava la stessa processione del mattino: asini, muli, pecore, cani e contadini stanchi. Qualche vecchia, approfittava del lungo il percorso per sferragliare con i tipici ferri l’ennesima calza di lana per i nipoti; qualche altra pregava.

A sera, il riposo e la sosta davanti al camino erano più pretesto per raccontarsi che per scaldarsi davanti ai ciocchi fumanti. Il riposo a letto era veramente dono meritato.

 
 
 
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