Creato da anchise.enzo il 30/01/2012

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IN COLONIA AL SEMINARIO VESCOVILE

Post n°53 pubblicato il 15 Marzo 2012 da anchise.enzo

Eravamo in duecento circa, ospiti del seminario di via Mazzini. La giornata di quel mese di colonia iniziava e finiva con l’alzabandiera, come in caserma, mentre in coro cantavamo l’inno di Mameli.

La corriera di Santoro ci attendeva al mattino, per condurci nel boschetto Barone, a ridosso del cimitero cittadino. Quattro signorine sorvegliavano le squadre formate da venti ragazzi ciascuna, lasciandoci liberi di giocare nel bosco. Certo non ci annoiavamo. Un giorno, sotto un albero, trovammo armi e bombe, sotterrate dai tedeschi in fuga. Tornavamo per il pranzo, imbandito nell’immenso refettorio con fagioli in scatola, farina, marmellata, biscotti, cioccolata…, tutti con il marchio a stelle e strisce del Piano Marshall.

Nel tardo pomeriggio si passeggiava per via XXIV Maggio, non ancora fitta di case e palazzi, oppure per la campagna, nei pressi del Foro Boario. In fila per due, il serpentone di bambini, con i curiosi vestitini da puffi, faceva tenerezza ai passanti. Ai più sfortunati capitava di ammalarsi di morbillo o scarlattina e di passare la colonia a letto, in quarantena, negli oscuri stanzoni del terzo piano.

Al rientro dalla passeggiata, assistevamo alla messa, nella cappella vescovile, fissi gli sguardi all’ampia vetrata istoriata dell’abside. Durante la guerra era stata mandata in frantumi dall’unica bomba che aveva colpito la città, uccidendo mons. Secondo Bologna, l’arcivescovo di Campobasso, proprio mentre celebrava la messa.

A sera, nell’angusto cortile quadrato dove a stento riuscivamo a vedere il cielo stellato, le signorine e i novizi ci raccontavano storie di santi, più o meno edificanti. Il vescovo Carinci, l’austero successore di mons. Bologna, se ne restava chiuso nei suoi uffici. Quando scendeva le ampie scalinate del seminario, non mancava mai di rimproverarci per il chiasso assordante.

Avevo solo otto anni quando fuggii dal seminario, in un torpido pomeriggio, per raggiungere il tabaccaio, comprare una cartolina postale e scrivere poche righe ai genitori, esortandoli a venirmi a liberare da quell’inferno.

Non poterono farlo. Me ne resi conto all’indomani quando la direttrice mi invitò nel suo ufficio. Mostrandomi la cartolina (nella mia ingenuità, avevo invertito gli indirizzi: in quello del destinatario avevo scritto quello del mittente), la matura e severa signorina Pasquale mi chiese perché avevo definito la colonia un inferno. Non voleva sapere altro. Arrossii e piansi, chiedendo scusa, ma non bastò.

All’inferno mi ci mandò davvero, per punizione. E lì, nel magazzino sotterraneo, dove scorrazzavano ratti enormi, piansi tutto il giorno, per colpa di quella cartolina che aveva preso la direzione sbagliata.

 
 
 
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