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Post n°107 pubblicato il 17 Marzo 2010 da fittavolo

Ora che guarda Alina con gli occhi della morte, comincia a capire di esserci riuscito. Accenna ad un sorriso, nonostante il dolore atroce che gli strizza lo stomaco. Neppure ora vuole chiedere perdono per il male che fece, per la sofferenza procurata a colei che da sempre ama. É ancora troppo presto, la morte ha appena iniziato ad alitargli addosso, e Dio solo sa come possono essere lunghi questi attimi prima della fine. La morte inganna il tempo, lo espande rendendolo sottile sottile, tagliente. Alina in piedi lo fissa. Non voleva perdere un solo attimo della sua sofferenza.

Borgo Fornasotto era uno dei tanti centri rurali che a metà del secolo scorso sorgevano nelle campagne italiane: una piccola chiesa aperta solo di Domenica dal prevosto che veniva appositamente da Bergamo; un negozio che vendeva ogni genere di cose, e tante case costruite alla rinfusa senza particolari disegni urbanistici. Alina viveva lì dalla nascita, vi era cresciuta e quando fu in età da matrimonio, in tanti le misero gli occhi addosso. Ma lei preferiva aspettare, era convinta che il grande amore della sua vita dovesse ancora arrivare. – Quando arriverà, lo riconoscerò tra mille –ripeteva a sua madre che la invitava a fare una scelta in ogni occasione. Intanto gli anni passavano e i pretendenti, uno dopo l’altro, deviavano le attenzioni dei loro cuori verso altre donne. Uno di questi, Alfonso, era deciso a resistere, incoraggiato dall’abbandono degli altri e dalla certezza, che il trascorrere del tempo, giocasse a suo favore.
Ormai Alina era in età avanzata, le sue coetanee si erano accasate ed alcune avevano anche dei figli. I suoi genitori, rassegnati, avevano smesso di parlarle di matrimonio. Un giorno, qualche anno prima del secondo conflitto, arrivò a Fornasotto un distinto signore in cerca di un podere da comprare. Veniva da un paesino sul lago di Garda e dopo la morte di entrambi i genitori, aveva venduto la sua eredità per cercare fortuna altrove. Alina ne aveva sentito parlare da suo padre, un forestiero faceva sempre notizia da quelle parti. Lei lo incontrò per caso, mentre andava alla fonte a prendere l’acqua. “Perché il cuore mi batte così forte? Perché le mani mi sudano ed ho come un vuoto allo stomaco?” si chiedeva Alina fissando gli occhi di quello sconosciuto. Uno sguardo così intenso e insistente, non sfuggì a Luigi, che dopo qualche passo si voltò per rivedere quella donna un po’ sfiorita, ma ancora tanto bella. Alina fece lo stesso e con quella azione capirono che i loro cuori avevano cominciato a battere insieme. Si sposarono nella piccola cappella del borgo, un anno dopo. Il forestiero, Luigi, ormai era stato accettato ed era diventato parte di quella piccola comunità cui condivideva usi e tradizioni. Quel giorno, Alfonso maledì se stesso per non essere stato capace di conquistare il cuore di Alina. Seguì la cerimonia e i festeggiamenti di nascosto, come un ladro spiava la coppia felice e sentiva addosso il peso degli anni passati ad aspettare Alina. Maledì Luigi, causa del suo dolore.
Vennero anni di miseria e povertà. La guerra aveva spazzato via ogni gioia dal cuore della gente. I contadini, riuscivano a sopravvivere nascondendo i prodotti della terra in cantine ben celate ai tedeschi e ai fascisti. Dopo l’armistizio del 8 Settembre del ‘43 l’Italia era divisa in due. Al nord costituirono la repubblica sociale e molti cittadini, per scampare agli arruolamenti forzati, scapparono in montagna, in collina, e si organizzarono in bande. Le bande dei partigiani combattevano i tedeschi e i repubblichini fascisti, con attentati che miravano ad indebolirne il sistema. La gente comune, i contadini, erano con loro. Luigi e Alina, molto spesso, ne ospitavano qualcuno, quando scendevano dai monti per procurarsi cibo e materiale vario. Cibo e materiale che i due coniugi recuperavano facendo collette nella loro comunità.
Quando una sera arrivarono i tedeschi, ed entrarono in casa sfondando la porta, Luigi sapeva già che la sua vita era giunta al termine. Individuato la botola d’accesso alla cantina che faceva da deposito a svariate cose, tra cui anche divise del regio esercito italiano lasciate lì dai disertori prima di passare in latitanza, non fu difficile accusarlo di spalleggiare i partigiani o addirittura di essere uno di loro. I processi sommari erano delle farse, e molto spesso si limitavo alla lettura dell’accusa con la conseguente condanna. Luigi fu impiccato all’alba. Restò appeso per tre giorni, così disponeva l’ordinanza, per dissuadere altri a dare man forte ai briganti partigiani. Alina rimase ai suoi piedi per tutto quel tempo, supplicando chiunque passava affinché l’aiutasse a tirarlo giù. Le donne cercavano di darle conforto, ma niente poteva calmare la disperazione di Alina. Al terzo giorno, durante il funerale, si avvicinò Alfonso, le disse parole di sostegno, cercò di darle ancora qualche ragione per vivere. Ma quale ragione poteva trovare ancora Alina per una vita che le aveva negato la felicità?  Nessuna, se non quella di vendicare Luigi combattendo contro i suoi carnefici.
Passarono le settimane, passarono i mesi e la guerra sembrava non avere più fine. Alina partecipava attivamente alla vita partigiana, faceva da staffetta tra un paese e l’altro, portando notizie alle varie brigate nascoste nel territorio. Alfonso iniziò a frequentarla quasi quotidianamente. Pian piano le riempì il tempo quando era a casa nell' attesa di qualche missione, per lei era il buon vecchio amico di sempre. Poi cominciarono ad arrivarle degli strani biglietti. Li trovava sotto la porta e dicevano di non fidarsi degli amici. Ai primi non diede molto retta, ma quando cominciarono ad essere tanti, decise di vederci chiaro. Un giorno fece finta di allontanarsi, e rientrò in casa di nascosto dal retro. Appena il biglietto sbucò da sotto l’uscio, aprì la porta e vide una donna. Le chiese spiegazioni – sono la serva del podestà di Brembate, ho sentito il mio padrone parlare di alcuni fatti successi qui qualche mese fa. Io ho una cugina che abita qui – disse la donna. – Che fatti? – chiese Alina, quasi soffocata dal cuore che le batteva forte in gola. – Il podestà parlava di un’operazione ai danni dei partigiani, di qualcuno che aveva detto il nome di Luigi Grembi come un loro basista a borgo Fornasotto – rispose la donna. Alina tutta tremante prese per il bavero la serva e spingendola contro il muro gridò – Chi? Chi ha detto quel nome? – . La serva cercò di liberarsi, ma Alina la teneva ben stretta. – Lasciami, ti prego non riesco a respirare – supplicava la donna – va bene va bene… te lo dico, ma lasciami – disse ansimando – è stato Alfonso Chiesi a denunciare tuo marito –. Alina allentò la presa e mentre si piegava su se stessa dallo sconforto, la serva ne approfittò per scappare.
Dopo aver cenato Alfonso iniziò ad accusare i primi sintomi del veleno che Alina aveva mescolato con la minestra. Sapeva cosa gli stava succedendo, lo capì guardando gli occhi rossi di odio di Alina. – Cosa hai messo nella minestra? Quale maleficio mi hai fatto? – le chiese Alfonso. – Che importanza ha saperlo? Ora pagherai tutto il male che hai fatto al mio Luigi, tutta la sofferenza inferta a me per la sua morte – rispose Alina. – Sapevo che prima o poi l’avresti scoperto….speravo di avere più tempo – disse sofferente Alfonso – speravo finalmente che tu t’innamorassi di me…perché io…io…io ti amo…per questo l’ho fatto….ho voluto dare un’altra possibilità al nostro amore. – Al nostro amore! – ripeté Alina inorridita – non c’è mai stato amore tra noi due, bastardo. Muori bastar… –. Alina portò le mani al ventre, ebbe una fitta, un dolore lancinante che la piegò in due. Una risatina echeggiò nella stanza, più che una risata era un verso misto tra gioia e dolore. Alina alzò gli occhi verso Alfonso, lo vide sorridere in malo modo, storcere la bocca cercando di dire qualcosa, ma non riusciva a pronunciare parola. A fatica si teneva sulla sedia e quando racimolando le poche forze rimastogli disse qualcosa, Alina capì di aver fallito. Alfonso esalò l’ultimo respiro pronunciando quelle parole, poi morì accasciandosi sul tavolo.
Alina si muoveva a fatica, si trascinava sul pavimento cercando di raggiungere la porta per chiedere aiuto. Malediceva Alfonso e il giorno in cui era nato, ma non bastò per cancellarle dalla testa la sua ultima frase – verrai con me, staremo per sempre insieme –.

 
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