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Post n°95 pubblicato il 03 Settembre 2009 da fittavolo
 

Arrivai a Carpino che erano le cinque del pomeriggio. Il paese dell’olio mi accolse con indifferenza, c’era una sagra paesana e l’attenzione della gente era tutta per essa. Mi fermai il tempo necessario per bere un caffè e fare qualche foto. Poi ripresi il viaggio verso Monte Sant’Angelo.

Tra Carpino e Monte Sant’Angelo ci sono pochi chilometri, ma la particolare posizione di entrambi allunga di parecchio il tempo necessario per percorrerli. Carpino si trova sul fianco nord del Gargano, da lì, si può ammirare la bellezza del lago di Varano, mentre Monte Sant’Angelo è sulla cima del fianco sud, e da lì, si vede il golfo di Manfredonia, con la zona industriale. Purtroppo. La strada che lega i due paesi, da Carpino striscia lungo il fianco interno per raggiungere la profonda vallata nel cuore del Gargano, per poi risalire verso Monte Sant’Angelo. Sulla cartina stradale è rappresentata solo con qualche curva, in realtà la strada è una curva unica, con tornanti molti stretti, alcuni da fare a passo d’uomo, soprattutto sul fianco di Carpino.

Lasciato Carpino, incontrai il primo cartello con l’indicazione SP50. Strada provinciale 50 “da tenere bene a mente in caso di necessità” pensai. La strada curvò quasi subito, e dopo una curva, un’altra e poi ancora un’altra. Un’infinità di curve. La velocità media era di 30 Km l’ora, ma in compenso il paesaggio che si ammirava, era incantevole. La larghezza della carreggiata era appena sufficiente ad ospitare due auto e in alcuni tratti stringeva leggermente. Le condizioni del manto stradale erano molto variabili: si alternavano tratti in buono stato a tratti dissestati, con buche che mi costringevano ad invadere l’altro senso di marcia. Non c’era la riga di mezzeria, ma solo le due che delimitavano la carreggiata, la larghezza del senso di marcia era affidata al buon senso e alla praticabilità dello stesso. Su questo nastro asfaltato mi piombavo giù verso la vallata. Dopo dieci chilometri mi fermai. Era troppo bello il paesaggio per non scattare qualche foto. Posteggiai la macchina in quella che sembrava essere una piazzola d’emergenza, invasa dalla sterpaglia e feci qualche scatto. L’aria era veramente pura, sentivo l’odore dell’erba che calpestavo. Odori selvatici, di piante che non conoscevano lo smog e che, per tutto il giorno, guardavano un cielo limpido e azzurro. Quel azzurro intenso tipico dei cieli meridionali, dove si riesce ancora a vedere il punto il in cui la volta celeste bacia la terra. E sembrava un punto vicino, invece era molto lontano. La chiarezza dell’atmosfera avvicinava le distanze e ingannava quelli come me, abituati alle limitazioni dell’aria inquinata. La profondità di veduta mi stordiva e mi dava un senso d’infinito. Mi ero seduto su un grosso sasso e ammirai quel paesaggio per circa mezz’ora. Qualche centinaio di metri in basso, alla mia destra, avevo notato un gregge di pecore che pascolava tranquillo nella macchia. Non vidi il pastore, ma sicuramente c’era, forse era all’ombra di qualche albero. A circa cinquecento metri dal gregge, notai una casa, dal camino usciva del fumo. La casa aveva le mura dipinte di bianco e al suo lato c’era un’area recintata. Era una piccola fattoria, riuscivo a distinguere nettamente, le galline che razzolavano libere. Immerso in quella solitudine avevo paura e, allo stesso tempo, sentivo una tranquillità interiore notevole. Un senso di pace che mi convinceva a non muovermi. Da Carpino avevo incrociata solo un vecchia FIAT 127, che con sofferenza risaliva la strada, e da quando mi ero fermato, non era passato nessuno. La paura aveva le sue radici proprio nel sentirmi lontano da chiunque, nel pensiero che potesse accadermi qualcosa e non potessi ricevere aiuto. In questi ultimi anni ho sempre vissuto a pochi passi da un meccanico, a qualche centinaia di metri dal centro commerciale più vicino e non ho mai visto la via dove abito deserta; anche quando tornavo di notte, dopo aver passato qualche ora con gli amici, incrociavo sempre qualcuno. Avevo la testa sgombra dai pensieri e una strana sensazione di leggerezza. Era piacevole restare seduti a guardare e ad ascoltare la natura, mentre il tempo passava senza far rumore. Quando decisi di riprendere il viaggio erano quasi le 18.30. Seguivo la strada e pensavo a come sarebbe stato bello vivere in quei posti, lontano da tutti e da tutto. Isolati da quella modernità che mi proponeva quotidianamente modelli di vita legati a oggetti la cui utilità era discutibile. Mi venne in mente il cellulare. Un oggetto che mi portavo dietro da anni. E da anni avrei dovuto cambiarlo con un modello più recente, o perlomeno cambiargli la batteria, perché mi permetteva una telefonata di pochi minuti, poi crollava interrompendo bruscamente la comunicazione. Ma mi sono sempre opposto dato l’uso esiguo che ne facevo, limitato a casi d’emergenza, e quel poco di autonomia è sempre stata più che sufficiente. Continuavo a lasciarmi dietro le curve, procedendo a passo d’uomo, mentre si alternavano tratti ombrati, da sembrare notte, a tratti illuminati da qual poco sole che si affacciava a fatica dal lato ovest del Gargano. Avevo percorso circa cinque chilometri, quando ero stato costretto a fermarmi. Un gregge di pecore stava attraversando la strada, in un tratto dove era rettilinea e pianeggiante. Spensi il motore e scesi dall’auto. Era un gregge di circa cento capi e ci mise un po’ a liberare la strada. Questo mi permise di scattare qualche foto e d’indagare dove era diretto. Seguiva un tratturo, verso la piccola fattoria che avevo visto prima. In coda c’era il pastore, un uomo magro, dal volto stanco e con la barba di qualche giorno. Aveva in mano un lungo bastone e continuava a batterlo per terra. Attraversando la strada, senza scomporsi, mi fece un cenno con la mano. Risposi a quel saluto e ritornai in auto. Cercai di metterla in moto, ma non ci riuscii. Insistetti un po’, senza successo. Il motore era sordo al mio richiamo, continuava a singhiozzare senza dare segui di vita. Scesi ed aprii il cofano. Sapevo che non sarebbe servito a niente, non ero un meccanico, ma in cuor mio speravo di trovare qualche filo staccato. Decisi di chiamare aiuto, presi il cellulare e composi il numero di pronto intervento della mia assicurazione. Dopo il secondo squillo rispose una voce di donna, riuscii a riconoscere un accento nordico nel “pronto” detto con tanta energia, prima del silenzio assoluto. La batteria aveva deciso di abbandonarmi, proprio nel momento di maggiore bisogno. Ero solo e la sera era alle porte. Le ombre lunghe degli alberi, pian piano, stavano invadendo quella piccola oasi di luce. Mi ricordai del pastore, era l’unica persona che avevo incontrato, forse poteva aiutarmi, forse aveva un telefono nella sua fattoria. Mi affacciai sul tratturo e lo vidi lontano, era quasi arrivato alla fattoria. Risalii la strada sterrata con passo veloce e lo raggiunsi che stava chiudendo l’ovile.
“Salve, mi chiamo Franco. Ho l’auto in panne, per cortesia mi lascia fare una telefonata?” chiesi.
“Tieni l’auto con i panni? Sei un mercante?” rispose chiedendomi con un accento molto spiccato del luogo.
“No…no…niente panni…la mia auto si è rotta, non parte più, ho bisogno di fare una telefonata” dissi.
“Tieni l’auto rotta e che c’entrano i panni? – disse guardandomi con una faccia meravigliata poi concluse – non teniamo il telefono”.
Uscì dalla casa una ragazza giovane e si diresse verso di noi. Aveva in mano uno straccio con cui si asciugava le mani, poi si deterse anche la fronte, grondante di sudore.
“Ho finito di preparare la pasta, posso mettere l’acqua a bollire?” gli chiese, mentre incuriosita mi scrutava.
“Sì,sì” le rispose l’uomo.
“Buona sera, mi chiamo Franco” le dissi allungando la mano.
“Io sono Lina” mi rispose afferrandomi la mano e stringendola forte da farmi male.
“Le ho fatto male?... Mi scusi. Sono abituata ad usarle con durezza e mi risulta difficile dosarne la forza in occasioni come questa. Come mai è qui?” chiese.
“Sono rimasto bloccato con l’auto sulla provinciale, avrei bisogno di fare una telefonata” dissi.
“Purtroppo non abbiamo il telefono, qui siamo completamente isolati dal mondo” confermò le parole dell’uomo.
“Non avete neppure un cellulare?” chiesi.
“Cellulare? Qui abbiamo un mulo, le pecore, le capre e le galline. Il cellulare e il telefono, no. Abbiamo un vecchio televisore, ma funziona solo quando c’è benzina per il gruppo elettrogetico – sgranai gli occhi, non comprendevo – quello che fa corrente” disse.
“Ah…gruppo elettrogeno!” precisai.
“Sì…sì…proprio quello” rispose.
“Non avete corrente in casa?” chiesi meravigliato.
“Solo se c’è benzina, altrimenti le candele” disse con durezza scandendo le parole, come se volesse lanciare un messaggio preciso a qualcuno.
L’uomo aggrottò la fronte, il suo viso era scuro e mostrava meno disponibilità. La ragazza notò il cambiamento e con grazia disse “però stiamo bene e non ci manca nulla. Papà… come possiamo aiutare questo signore?”
“Sta quasi scurando, qui a valle viene scuro presto e all’improvviso e stiamo molto distanti dal più vicino paese. Possiamo trainare la sua auto sino qui e ospitarlo. Se gli sta bene…altrimenti può risalire la strada verso Carpino e sperare di trovare un meccanico” rispose senza guardare nessuno.
Pensai alla strada percorsa da Carpino, forse erano dieci, quindici chilometri, troppi da fare a piedi con la notte che si avvicinava. E poi quel uomo aveva ragione, trovare un meccanico disposto a intervenire a quell’ora e fuori paese, sarebbe stato molto difficile. Non avevo alternativa, ero costretto ad accettare l’invito. Guardai la valle, pareva una grande pentola che stava per essere chiusa, l’oscurità avanzava velocemente, mi girai verso di loro e dissi “Va bene, sarò vostro ospite. Grazie”.
La ragazza sorrise. L’uomo fece un cenno con il capo e andò verso la piccola stalla e tirò fuori il mulo.
“Dobbiamo sbrigarci, lo scuro viene presto. Lina metti l’acqua a bollire tra mezz’ora” disse e si avviò verso la provinciale senza aspettarmi. Un po’ preso alla sprovvista dalla fulminea azione dell’uomo, rimasi per qualche attimo imbambolato, poi salutai la ragazza e lo raggiunsi.

 

 
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