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CARPE DIEM (seconda parte)

Post n°109 pubblicato il 14 Aprile 2010 da fittavolo

Il giorno dopo andammo nuovamente al mare. Questo suscitò molta meraviglia da parte dei miei, considerato che ne ero sempre stato restio: quella volta non feci alcuna obbiezione. Arrivammo in spiaggia che il sole era già alto, faceva un caldo torrido e io ero già tutto sudato. Sinceramente, avevo dei dubbi di rivedere quelle ragazze, la sera scorsa era andato tutto bene, ma non avevo certo brillato. E poi, non sapevo cosa ci trovassero in noi. Già allora ero convinto che ad ogni effetto c’è la sua causa, che nulla accade senza motivo. Quindi un motivo ci doveva essere, ma quale? Legate e imprigionate nelle vecchie e sacre tradizioni del sud, con un padre autoritario, non potevano pensare di fare qualcosa al di fuori di quei canoni così ferrei. E io? Perché desideravo ancora di rivederle: era per la ragazza dagli occhi piccoli o per il semplice gusto di stare in loro compagnia?
Il mare era calmo. Le piccole onde si dissolvevano nella sabbia, senza quasi dar sentore della loro esistenza. Neppure un leggero soffio di vento ad alleviare la calura opprimente. Comprai una birra e cominciai a berla prima ancora di essere sotto l’ombrellone, diversamente dalle altre volte, non ce la feci ad aspettare il pomeriggio, avevo subito bisogno di qualcosa che mi desse la sensazione di fresco. La birra era un’ottima cosa. La mattinata trascorreva tranquilla, delle ragazze nemmeno l’ombra, mio fratello era sparito e io seduto sotto l’ombrellone continuavo a sudare. Nel mare c’erano tante persone, era così pieno che la voglia d’entrarci non s’affacciò neppure sulla soglia di un pensiero. In tarda mattinata, vidi arrivare mio fratello in loro compagnia. Qualcuna si sedete, qualcun’altra si buttò in mare. Mio fratello preferì fare un bagno. La ragazza dagli occhi piccoli mi disse che erano riuscite a convincere loro cognato a portarle al mare. E che potevano trattenersi poco perché sua sorella era incinta, prossima al parto. Suo cognato con la sorella vivevano a Foggia, nei pressi della stazione ferroviaria. Da qualche giorno si erano trasferiti a casa sua, per poter ricevere un valido e più immediato aiuto, prima e dopo il parto. La sorella partorì dopo qualche giorno, io ero già a Milano. Si trattennero veramente poco. Dopo una mezz’oretta le vedemmo andar via in compagnia di un uomo, loro cognato. L’appuntamento per la sera restò confermato, salvo complicazioni, e ora sapevo quali potevano essere.
Stesso posto stessa ora. Così come ieri, avevo spavaldamente detto “dovete dirci solo il giorno, l’ora e il posto. Noi ci saremo”. Era uno dei miei cavalli di battaglia, un modo di dire che è rimasto incastrato tra quelle due giornate e che nel tempo è diventato l’emblema del nostro rapporto. Estratto da un vecchio brano di un noto gruppo italiano, ogni volta che la ascoltiamo è un’emozione fortissima, un ritorno al passato che si conclude sempre con un bacio incorniciato in un abbraccio mozzafiato.
La sera davanti alla villa comunale mi sembrava di rivivere il flashback della sera precedente. Noi arrivammo in anticipo e loro in ritardo. Questa volta c’era anche una ragazzina molto giovane, quasi una bambina: sua sorella minore. In loro compagnia passeggiammo per le strade di San Severo, ripercorremmo percorsi fatti la volta prima con qualche piccola variazione. Era come se recitassimo un copione, scommetto che se ci fosse stato un altro incontro, sarebbe stato uguale. Nonostante questa limitazione dovuta soprattutto alla non possibilità di farsi vedere in giro, furono comunque serate straordinarie, inconsuete per noi in quei luoghi. Poi giunse il momento di salutarci, lo scambio degli indirizzi, dei numeri di telefono e le solite promesse di mantenerci in contatto. Strinsi la mano alla ragazza dagli occhi piccoli, ed era una stretta che non voleva allentarsi. La fissai negli occhi e le dissi “ti telefonerò, sicuramente”. Lei intimidita, forse non si aspettava una simile certezza mi disse “va bene, ma non il 18, ché è l’onomastico di mia madre e saranno tutti a casa per festeggiarla e se puoi di mattino, perché lei è al lavoro”. Era la sera del 16 agosto del ‘86.
Il mattino dopo, io e mio fratello prendemmo l’espresso delle ore 7.50 a Foggia e arrivammo a Milano alle ore 19.00. Non fu un viaggio facile. Il caldo nel compartimento era opprimente, la lentezza del treno e le sue fermate continue stressanti. Il pensiero di stare a fare una cavolata mi divorava dentro. Continuavo a ripetermi che dovevo restare, che stavo perdendo l’occasione buona, forse quella giusta. Ma quella vacanza breve, pianificata in fretta e furia esisteva proprio perché corta, perché partissimo quel giorno. Né io né mio fratello la avremmo altrimenti fatta e non potevo tirarmi indietro solo per inseguire una sensazione. Il momento più triste è stato quando il treno fermò alla stazione di San Severo. Volevo scendere. Ricordo lo sguardo di mio fratello, nei suoi occhi c’era tutta la gioia dei momenti passati in loro compagnia e a pensarci bene, anche l’invito a fare qualche colpo di testa. Lui l’aveva capito, anche se non gli confidai nulla. Nel momento in cui il convoglio riprese la corsa, ero in piedi in corridoio e fissavo la stazione, le persone, quelli che consideravo fortunati perché con delle grandi valigie si avviavano verso il paese. “È persa” mi sono detto. “È andata” qualche attimo dopo. Rimasi a guardare il paese sparire lentamente, poi i binari curvarono all’interno di una piccola gola e quando il treno riaffiorò in superficie, c’era già la campagna che aveva preso il suo posto.
L’arrivo a Milano in prima serata, la stazione centrale, la metropolitana per tornare a casa, l’autobus per fare l’ultimo tratto e infine il palazzo dove vivevo, mi hanno riportato lentamente alla normalità. Era stato bello, ma era finito, comunque non poteva avere un seguito. Ma come fare a cacciare via il pensiero di quella ragazza che continuava a tormentarmi? La lontananza era un buon deterrente e volevo riappropriarmi della tranquillità che avevo prima di quella breve vacanza. Avevo promesso di telefonarle, l’avrei fatto, sì ma quando? Se da un lato volevo dimenticare tutto per evitare sia a me sia a lei, complicazioni di qualunque tipo, dall’altro avevo una fottuta voglia di provarci. Allora mi venne in mente che mi disse di non telefonarle il giorno 18 perché era l’onomastico di sua madre. Diamine il giorno 18 era quello dopo il nostro ritorno, allora si aspettava che io la chiamassi subito. Ma perché? Quale altro motivo se non quello che qualcosa si era mossa anche in lei. Questo pensiero mi fece riflettere e riaccese in me tutta la faccenda. Quale grande scelta stavo per fare e soprattutto quale grande scelta avrei chiesto di fare a lei! Vissi quel 18 agosto combattuto tra un sì e un no, che si alternavano continuamente nella testa, nei pensieri, in quel castello che stavo costruendo su una semplice conoscenza estiva.

 
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