Creato da fittavolo il 03/12/2007
I MIEI RACCONTI, LE MIE FANTASIE, LE MIE ESPERIENZE.

Area personale

 

Tag

 

Archivio messaggi

 
 << Giugno 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
          1 2
3 4 5 6 7 8 9
10 11 12 13 14 15 16
17 18 19 20 21 22 23
24 25 26 27 28 29 30
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 
Citazioni nei Blog Amici: 5
 

Ultime visite al Blog

fittavolostellamarisdgl11stellamarisOdgldglallegra.gioiamario_ameriomakavelikatempestadamore1900enrico505robi19700Seria_le_Ladychiarasanyblaisemodestylorenzoemanuegesu_risortoannunz1
 

Ultimi commenti

What weather today,What weather today in United States,...
Inviato da: What weather today
il 04/04/2022 alle 17:37
 
Un racconto molto breve,più che altro,un ricordo pieno di...
Inviato da: stellamarisodgl
il 24/09/2014 alle 14:47
 
mi dà SEMPRE i brividi questo testo
Inviato da: sonosaffitrina
il 02/06/2012 alle 09:19
 
LACRIME
Inviato da: puzzle bubble
il 07/05/2012 alle 23:36
 
e il seguito???
Inviato da: Arabafelice0
il 20/04/2012 alle 09:38
 
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

 

NASCOSTO

Post n°91 pubblicato il 05 Agosto 2009 da fittavolo

La notte era diventata una dimora, dove nascondersi. Avvolto dalle tenebre perdeva il senso della realtà e rimodellava il dolore rendendolo sottile, quasi impercettibile. Riusciva così a sopravvivere al giorno, alla luce.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

SCOPRIRE

Post n°90 pubblicato il 03 Agosto 2009 da fittavolo

La luce penetrò nella stanza buia e ne illuminò il contenuto. E allora gli risultò tutto chiaro: l’inizio e la fine, della storia che stava cercando di capire.
Al principio era il nulla, ma lo era anche la fine. Quella stanza era il mondo che si richiudeva su di lui.

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

PERSO

Post n°89 pubblicato il 24 Luglio 2009 da fittavolo

E’ lei che voglio! E’ lei che non mi abbandona mai!
Respiri affaticati annebbiamo la mente, offuscano quel poco che è rimasto sano. La malattia che ho, porta il suo nome. Nessuna medicina può guarirmi, nessun dottore può aiutarmi. Confuso, cerco risposte a domande senza senso, sempre le stesse. Apro e chiudo gli occhi e ad ogni battito di palpebra, spero che la sua immagine appaia, disegnata nell’aria dalla magica mano dall’artista che l’ha concepita.

Sono io l’ultimo romantico che per amore piange, che si commuove guardando un film, che resta affascinato dalla magia di una carezza. Può l’amore portare alla follia. Voglio dire, far fare gesti inconsueti, cose che non avresti mai fatto, ma neanche ci avresti mai pensato. Abituato da anni ad una vita rilassata, non impegnata sul piano sentimentale, mi ritrovo ad un bivio: devo scegliere se continuare così oppure svoltare per un amore definitivo. Tutta colpa sua! Da quando l’ho incontrata sono iniziati i problemi. E io che pensavo che mai avrei perso tempo dietro una donna, nel senso che non mi sarei mai innamorato.
Io innamorato, ma quale assurda idea!
Certe cose succedono solo nei film e a chi si è lasciato infinocchiare da un sorriso. Di sorrisi ne ho avuti tanti, ma sono stati attimi fuggenti. Questo sorriso, l’ultimo, non mi abbandona. Mi si è appiccicato addosso come una cicca sotto le scarpe. Me lo diceva mio padre, o la porti a letto subito o ti frega. Con lei ho esitato, ho lasciato passare la prima sera e così ce n’è stata una seconda, una terza, una quarta, tutte rigorosamente in bianco. Di solito dopo la seconda serata, se non concludo, mollo l’osso. Di seconde serate ne ho avuto poche, la maggior parte delle volte ho concluso tutto alla prima. Ho sempre odiato far fatica con le donne, ce ne sono così tante che non vale la pena sudare sette camicie per una. E per fortuna il mio sesto senso mi ha sempre dato una mano, anche se qualche volta ha sbagliato. In sostanza una volta scelta la femmina con cui animare la mia serata, cerco di farmi scegliere come possibile soluzione della sua serata. C’è sempre qualcosa che mi fa capire se ciò accade. Il resto viene da sé. Anche loro, le donne, hanno una fottuta voglia di divertirsi senza alcun impegno, un connubio ideale per lasciare traccia di sé in qualche letto, senza le complicazioni sentimentali. Di donne così, ne ho conosciute tante, di donne come me ce ne sono tante. Allora cosa vuole quest’ultima, che mi ha ingannato mostrandosi disponibile solo per far breccia nel mio cuore.
Il mio cuore!
Poverino, in questi ultimi tempi è molto stressato, salta in aria per un nonnulla.
Sono l’ultimo uomo che sta per varcare la soglia del romanticismo più sfrenato, dopo anni di rigetto. Si, proprio io sono l’ultimo dei romantici. Chissà se riuscirò mai a dirlo “mi sono innamorato”, a dirlo convinto, accettarlo. Intanto è passato quasi un mese senza concludere nulla. Una sera sì e una sera no ci vediamo. Nella sera no, vorrei andare in giro, rivisitare i locali che mi hanno visto protagonista, ma qualcosa mi blocca a casa davanti al televisore, a vedere vecchi film e a commuovermi. Vorrei provarci ancora con qualcun’altra, solo per far sesso, sollecitare i miei sentimenti per metterli alla prova, per verificare se dopo cambi qualcosa oppure no.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

COLPITO

Post n°88 pubblicato il 22 Maggio 2009 da fittavolo

In silenzio ascoltavo il suo corpo tagliare l’aria, era un sibilo che bucava il cuore, penetrava nell’anima. Rimasi incanto dalla grazia con cui si muoveva, e quel suo apparire all’improvviso mi travolse. Immobile in un fermo immagine interminabile, la guardavo passare. Lentamente la moviola della vita, fotogramma dopo fotogramma, la dipinse nell’aria, la spostò nello spazio, lasciando una scia di colori che si univano formando un arcobaleno di una bellezza assoluta. Percorse i pochi metri dalla porta alla sedia, dove si sedette, annullando le leggi della fisica e il mio equilibrio chimico.

Il gabinetto medico a quell’ora era quasi vuoto. La donna entrò e si sedette. Accavallò le gambe. Dalla piccola fessura della minuta gonna intravidi la corolla dell’autoreggente. Mi guardò e sorrise e mi chiese – è in orario il dottore? –. Imbambolato e un po’ imbarazzato risposi balbettando – sì…sì…fo fo forse no no non so…s sono a ap appena ar  ar arrivato? – divenni rosso, mi vergognavo, forse lei mi credette uno stupido o forse comprese appieno il motivo del mio farfugliare.
Cominciammo a parlarci. A dire il vero parlò quasi sempre lei, io ogni tanto annuivo e spezzavo il suo discorso con brevi interventi. Mi specchiavo nei suoi occhi, le sue pupille erano un mare in tempesta, mi agitavano dentro e continuavo a salivare e a deglutire. La sua voce era una potente calamita, mi aveva acchiappato e non mi mollava più. Conficcò un chiodo nel mio cuore e vi si era appesa. Scalava le sue pareti cercando l’ingresso, non sapeva di essere già dentro, di fluire insieme al sangue, dalle vene ai capillari, dai punti più periferici fino a quelli più interni. Mi batteva nel cervello, pulsava con esso. Spazzò via tutti i pensieri, il mio passato era una terra sconosciuta, il mio presente aveva il suo volto, il suo odore, il mio futuro erano fogli colmi del suo nome. Il prato che vedevo, era quello dove avrei voluto portarla, dove avrei voluto fondere i nostri corpi per sancire il nostro destino.
Qualcuno mi chiamò, era l’infermiera: era il mio turno. Entrai nello studio a farmi curare la piccola carie. Benedissi quella minuscola macchiolina nera sul mio molare. Quindici minuti e fui di nuovo dentro i suoi fari. Poi toccò a lei e mentre si alzava, mi disse – aspettami –. Mi legai alla sedia, contai i secondi che passarono, come se stessi spostando dei macigni da un punto ad un altro. Mi pesò quell’attesa, fu interminabile. Infine ricomparve sull’uscio dello studio, era più bella di prima, scosse la testa per assestare i capelli appiattiti e un po’ scompigliati per la posa che aveva dovuto assumere durante la cura.  – Grazie dottore…alla prossima – disse e allungò la mano verso di me – andiamo? –. Strinsi le sue dita tra le mie e uscimmo.

Il parco era il luogo ideale per confermare un rapporto, approfondirlo. Gli odori, i colori, i rumori erano una cornice favolosa per la nostra neonata storia. Seduti su di una panchina, lei parlava e io ascoltavo. Le sillabe unite per formare le parole erano pezzetti di poesia, armoniosamente muovevano l’aria in mille vibrazioni dal sapore celestiale. Ingoiavo quei lemmi e costruivo dentro la sua vita, per accorciare le distanze, accelerare i tempi: non volevo sprecare un solo attimo, tutto d’allora doveva avere la sua immagine. Più in là dei bambini giocavano con la palla, si rincorrevano, facevano capriole sull’erba, poco distanti le loro mamme, qualche papà. E già immaginavo una bambina con i capelli lunghi come i suoi, le sue stesse labbra, i suoi stessi occhi, la stessa profondità. In quella profondità mi ero perso e come un adolescente fantasticavo sul nostro futuro, sulla mia vita nata un’ora fa nel gabinetto medico del mio dentista, quando entrò lei. Può l’amore essere così aggressivo, così rapace? Un incontro casuale con una persona sconosciuta, può stravolgere la vita? Evidentemente sì, stava succedendo, aveva svuotato la mia esistenza, l’aveva rovesciata come se fosse un secchio, e ora goccia dopo goccia la riempiva di sé. Smise di parlare, mi guardava come se si aspettasse qualcosa, un’azione che tardava ad arrivare. Ero troppo imbambolato per pensare a qualcosa di diverso che non fosse la profonda emozione che provavo. Mi bloccò la testa con le mani e avvicinò piano le sue labbra alle mie. Non reagii, rimasi immobile, mentre sentivo scariche di adrenalina scuotere dall’interno il mio corpo. – Non ti piaccio? – mi chiese un po’ stupita per la mia freddezza. Avrei voluto spiegarle cosa provavo in quel momento, quale cambiamento stava apportando alla mia vita, ma ogni parola, ogni frase sembrava poca cosa. La strinsi forte e la baciai. Ne sentivo il sapore e m’inebriavo. Da impacciato che ero presi a ravanare sotto i suoi indumenti, aveva i sei duri, il reggiseno come avevo intuito, era un indumento che non usava. Quando cercai di andare oltre me lo impedì, afferrandomi il braccio. – No, qui no, ci sono i bambini – disse. – Scusami mi sono lasciato andare, ma vorrei spiegarti… – le dissi dispiaciuto. – Non voglio spiegazioni, voglio i fatti, e qui non è possibile. Verresti a casa mia? – mi chiese. Rimasi smarrito da quelle sue parole pronunciate con durezza, perché non ne compresi il significato. Lasciammo la panchina con il nostro primo ricordo, quello che si scolpisce dentro l’anima, che non si dimentica mai: il primo bacio.

Non abitava molto distante dal parco, con una passeggiata di venti minuti raggiungemmo casa sua. Era un appartamento molto elegante pieno di confort e comodità di ogni genere. Mi offrì da bere e non bastò un bicchierino per calmare il demone che mi si accese dentro, quando la vidi entrare in salotto con una vestaglia trasparente che lasciava intravedere il suo stupendo corpo. Si sedette vicino, cominciò ad accarezzarmi e dolcemente mi spogliò. Facemmo la doccia insieme continuando a sfiorarci senza alcuna forzatura, ad ogni contatto il cuore accelerava, fino a sentirlo in gola. Era un gioco fatato dove imparavamo a conoscerci. Io e lei terra da esplorare, e ognuno era il pioniere dell’altro. Senza alcuna fretta tastavamo i nostri corpi assaporandone il gusto. La tenevo stretta con le spalle appoggiate al mio petto e la baciavo sul collo e le davo dei piccoli morsi. Lei spingeva il suo bacino contro il mio ansimando. Cominciò così, un amplesso che provò fortemente la mia tenuta. Se non fosse stato per lei, sarei stato travolto dalla forte emozione e avrei fatto sicuramente cilecca, tradendo ogni aspettativa. Dopo aver fatto l’amore rimanemmo un po’ stesi sul letto, l’uno accanto all’altra. Nessuno parlava. Nell’aria solo il rumore fortemente attutito delle auto che passavano giù in strada. Nella testa avevo tanta confusione e non cercai di venirne a capo: era troppo bello quello che mi stava capitando. Squillò il telefono e ruppe la magica atmosfera. – Sì va bene – disse al telefono – quando hai detto?... Stasera?...Sì sì posso, al solito posto…va bene –. Tornò in camera e si fermò a guardarmi in piedi davanti al letto. Dolcemente le dissi – E’ stato fantastico, stupendo, favoloso, magnifico, splendido – e aggiunsi – penso di amar… –  ma m’interruppe dicendo – sarà stato tutte queste cose, ma mi devi duecento euro… ed è un prezzo di favore…solo perché…solo perché per un attimo ho pensato che tu potessi essere quello giusto –.
Una mano possente stritolava il mio stomaco procurandomi fitte dolorose, erano le sue parole taglienti come bisturi che stavano amputando tutte le speranze di amarla. Riuscii ad alzarmi e m’infilai i pantaloni. Lei rimase nuda e senza alcuna vergogna continuava a mostrarmi il suo corpo, era abituata o forse sapeva ben sfruttare il ruolo di donna dominante. Ero io che mi vergognavo e cercavo in fretta di coprirmi, come per celare e custodire quel sentimento dalla sua aggressione. Ero un bambino impaurito nel buio della notte, e mi nascondevo sotto le coperte, sperando che il brutto mostro non mi vedesse. Invece il mostro continuava a fissarmi sovrastandomi. Sentivo il suo sguardo pesante bastonare le mie membra, renderle insicure, così che gesti fatti da sempre divennero imprese epocali. – Perché? – le chiesi con la stessa semplicità con cui l’avevo accolta nel mio cuore. Lei non rispose subito, come se la mia domanda non se l’aspettasse. Avvolse la leggera vestaglia attorno al suo corpo, e si sedette. – Avevo sperato che tu non mi portassi a letto, che oggi avessi rinunciato per un domani…per un futuro insieme. Ti assicuro che se questo fosse successo, ora ti avrei chiesto di essere il mio uomo – disse con tono triste e rassegnato. – Ma è quello che voglio, che desidero fortemente, perché dovresti rinunciarci? – le chiesi ansimando. Si alzò e si mise una vestaglia per oscurare il suo corpo, ora era lei a disagio – mi sono sempre chiesta come sia far l’amore con l’uomo della mia vita e come avrei fatto a riconoscerlo? – parlava e fissava il vuoto – ho avuto tanti uomini interessati solo al mio corpo, ho parlato con loro, ho parlato di me, sembravano incantati, ma tutto crollava appena entravamo in questo appartamento – si volto di scatto verso di me e continuò rabbiosa – tu sei come loro, hai fatto le stesse cose, appena hai potuto mi sei entrata dentro abbattendo le mie speranze. – Una tenue luce cominciava a rischiarare la confusione che alloggiava dentro la testa. Le chiesi senza mezzi termini – sei una puttana? – e lo chiesi con il gusto di provocarla, di darle uno scossone. – Non sono una puttana – disse – accompagno clienti di alcune aziende che sono in giro per lavoro, gli faccio compagnia. – E poi ci vai a letto – aggiunsi. Lei mi guardò fulminandomi – no, non è come pensi. A letto ci vado se mi va, e non ho mai chiesto soldi. – Prima li hai chiesti – precisai – e non mi è parsa essere la prima volta. –
Lasciò cadere la mia provocazione come se dicessi un fatto insignificante, si alzò e si avvicinò alla finestra, guardò fuori – quanta gente che corre, da qui sembrano tante formichine che scappano spaventate, e io scappo spaventata dal mio destino. – Mi avvicinai e l’abbracciai. Respiravo nei suoi capelli e dicevo – supera questo blocco, questa fissazione. Io sono venuto a letto con te perché mi piaci, ma sono stato anche spinto dalle tue azioni, dal tuo palese invito, e sento di provare qualcosa che va al di là, del semplice rapporto sessuale. – Si voltò di scatto, mi fissò dicendo – Non voglio parole, voglio i fatti. Se tu dici il vero dovrai dimostrarmelo. – Dammi l’opportunità di farlo, lasciati amare. – dissi accarezzandola. Prese il telefono e compose un numero – Ciao sono io – disse con voce sicura – per stasera…per domani…per sempre non ci sarò. – Mi guardò e fece luce nel mio cuore con il suo sorriso.     

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

VERSO IL NORD

Post n°87 pubblicato il 19 Maggio 2009 da fittavolo

L’auto correva nella notte, percorreva chilometri di strada superando decine di distributori e aree di sosta. Non ne avevo mai visti così tanti e non avevo mai percorso tanta strada come in quella notte. Nonostante l’ora tardi non avevo voglia di dormire. I miei fratelli, quelli più piccoli, dormivano già da un bel pezzo. Io fermo immobile, con gli occhi sbarrati guardavo fuori dal finestrino. Era tutto nuovo, ne ero affascinato. Guardavo le luci dei paesi appesi nell’oscurità della notte, sembrava che galleggiassero nell’aria, sospesi in una magica atmosfera, come in una fiaba, per me che lasciavo il paese solo per recarmi a Borgo San Giusto, ogni cosa era una novità. Non avevo mai viaggiato di notte, quella fu la prima volta e fu una volta bella.
Qualche mese prima mio padre, rientrato in paese per trascorrere le ferie, annunciò che presto ci sarebbe stata una grossa novità: tutta la famiglia sarebbe tornata a vivere insieme, ma in un posto lontano, su al nord. Dopo quasi sei anni vissuti in lontananza, lavorando in Germania, c’era una concreta possibilità di rientrare in patria. La ditta per la quale lavorava, apriva uno stabilimento nel nord Italia, a qualche chilometro da Milano e l’aveva candidato come possibile istruttore per iniziare il nuovo impianto. Era l’opportunità che aspettava da tempo e la prese al volo. Lui ed altri tre suoi colleghi furono spostati in Italia, per seguire la nova sede.
“Era un po’ che ci pensavano, io e vostra madre – ci disse contento – da tempo eravamo convinti che fosse tempo di finirla con questa vita. Voi qui e io lontano a lavorare. Per un po’ va bene, ma per sempre non è vita. La famiglia deve essere unita, vivere nello stesso posto. Mi sono stufato di tornare a casa e non trovare nessuno, io ho bisogno di voi, e voi avete bisogno di me. All’inizio pensavano di trasferirci direttamente in Germania, dove ho lavorato per tutti questi anni, ma poi una buona occasione mi si è presentata. Un’occasione d’oro: lavorare in Italia, a Milano. Tra due settimane ripartirò e comincerò a lavorare lì, nella nuova sede nell’nord Italia. Ho bisogno di qualche mese per cercare casa, una buona sistemazione. Io nel frattempo alloggerò in una pensione per lavoratori emigranti, per questo, non posso portarvi subito con me. Devo fare le cose con calma, fatte bene, perché il passo che faremo insieme, sarà per una scelta definitiva e non possiamo sbagliare.–
Dopo questa notizia ci fu il panico. Mia sorella pianse, non voleva lasciare le amiche, il posto dov’era nata e diceva di non voler partire. I due fratelli più piccoli erano entusiasti, un viaggio lungo, un posto nuovo dove vivere e fare nuove amicizie, era un argomento interessante. L’altra sorella restò indifferente, quasi come se per lei vivere lì o in un qualsiasi altro posto fosse la stessa cosa. Io ascoltai la notizia e non feci nessun commento, pensavo alla mia situazione. Avevo sì amici, ma nessuno per cui valesse la pena piangere. Sono sempre stato un tipo solitario, trascorrevo la maggior parte del tempo chiuso in casa. Molto spesso mia madre era costretta a mentire ai compagni che venivano a cercarmi, doveva inventarsi delle scuse per persuaderli che non ero in casa. Poi mi guardava e mi diceva che alla mia età dovevo andare con loro, in giro a giocare e uscire di casa. Con loro, quelle volte che li seguivo, ho avuto delle bellissime esperienze, non sempre nuove ma comunque interessanti. Questo però non è mai stato sufficiente per schiodarmi da casa, per staccarmi dalle mie fantasie, alimentate dalle letture che facevo su una vecchia enciclopedia illustrata chiamata “Conoscere”. In fin dei conti cosa perdevo: dei compagni di gioco dei quali non ero affezionato, e il posto dov’ero nato. Neanche quest’ultimo rientrava nei miei affetti, un luogo che non è stato capace di dar lavoro ai suoi figli, che non era stato capace di dar lavoro a mio padre. Meglio partire, lasciare tutto e ricominciare da capo in un altro paese. Mentre l’auto macinava chilometri, quella notte mi ripetevo che stavo per ricominciare una nuova vita, che non perdevo niente, che il luogo dove eravamo diretti mi avrebbe offerto molte più possibilità, che non appartenevo più a quel paese, che Lucera non aveva più un posto nel mio cuore.
Mia nonna e mio nonno avevano visto partire altri figli, avevano pezzi della loro grande famiglia seminati in tutta Italia. Noi eravamo quinti nella graduatoria delle partenze. Mia nonna era molto affezionata a sua figlia, mia madre. Quella notte pianse, continuava a dire che il Signore ci proteggesse, che ci guidasse lungo la strada. Poi prima di staccarsi da mia madre le mise in mano una statuetta della madonna. La portiera fu chiusa e la macchina partì. Mio nonno, un po’ curvato dai tanti anni di lavoro nei campi, assistette commosso al distacco, impotente verso un destino che allontanava altre persone cui voleva bene. Morì due anni dopo, ucciso da una malattia che lo consumò.
Dopo qualche ora di viaggio cedetti al sonno. Eravamo in cinque sul sedile posteriore della FIAT 125, appoggiati l’uno sull’altro dormivamo, ignari del nostro futuro nel nuovo paese del nord, ma eravamo insieme ed era questa la nostra forza.

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

UNA VECCHIA SCRITTA

Post n°86 pubblicato il 05 Maggio 2009 da fittavolo

Sul vecchio muro del casolare, sbiadita dal tempo, la scritta riusciva ancora a far parlare di sé ai vari turisti di passaggio. La costruzione era abbandonata da tempo ed era posizionata lungo la strada che conduceva ai vecchi possedimenti di Tonino Carrino. Il grande latifondista era morto da tempo, ma visse abbastanza da vedere parte delle sue proprietà sbriciolarsi sotto i colpi della riforma agraria. Dopo la caduta del fascismo fu l’unico a difendere quei tre verbi e ogni anno incaricava i suoi servi di rinfrescarli affinché risultassero sempre ben leggibili. Non tutti erano d’accordo sul suo operato, ma lui si giustificava dicendo che sulla sua proprietà poteva scriverci quello che gli pareva, e chi non la pensasse così poteva andarsene. Tonino era un uomo potente e lo rimase anche dopo l’esproprio impostagli dallo stato, per dare, la tanto desiderata terra, ai contadini. Il casolare, luogo di ricovero degli attrezzi da lavoro dei suoi fittavoli, rimase in suo possesso, anche la strada, ma con la concessione di passaggio a chiunque. Dopo aver ottenuto la terra i contadini cominciarono a lavorarla per conto proprio sperando di ottenere tanto da poter sfamare le loro famiglie. Quando passavano davanti al casolare, qualcuno imprecava, qualcuno sputava per terra e qualcun altro restava indifferente: quelle tre parole per tanto tempo rimasero sulla bocca di tanti. Una volta un gruppo di loro si presentò alla masseria di Carrino e senza mezzi termini chiese al vecchio di coprire quella scritta. Il vecchio non si fece intimorire, li guardò negli occhi uno per uno e senza indugio li invitò ad andarsene. Quell’azione ebbe come conseguenza la riduzione in miseria di chi osò sfidarlo: per tre anni nessuno comprò i loro prodotti. Il mercato del frumento, gestito da Carrino e altri potenti proprietari terrieri, impose un prezzo talmente basso da non recuperare neppure le spese. Tonino Carrino rimborsò il mancato guadagno ai suoi amici latifondisti e ridusse i piccoli proprietari terrieri sul lastrico. In molti cedettero, riconoscendo a Carrino un’autorità che non gli spettava. Altri restituirono il terreno allo stato ed emigrarono all’estero. Ancora una volta i poveri soccombettero, dando nuovo vigore al “CREDERE OBBEDIRE COMBATTERE” nel cuore di Tonino.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

ACCETTARE

Post n°85 pubblicato il 28 Aprile 2009 da fittavolo

Giunto a questo punto non mi resta che una sola cosa da fare. Dare una svolta alla mia vita, prendere l’ultima decisione, la più risolutiva. Ma di fronte a questa immensità, mi chiedo se sia giusto farlo. Sono arrivato in questo luogo con un unico scopo, l’ho sentito fortemente, e adesso, mi manca il coraggio. Guardo il mare. La sua forza è straordinaria, instancabile; continua col suo moto perpetuo da sempre, senza lamentarsi, accettandosi senza chiedersi nulla. Io sono un punto di fronte all’immenso e mi sento sempre più un fallito. Ecco che rimonta lo sconforto, e stavolta, sono nel posto giusto. Nessuno osa mettere piede in questi luoghi nei mesi freddi. Solo chi cerca un po’ di solitudine, o come me, un luogo dove farla finita.

Da tempo era nell’aria, poi passarono i giorni e non ci pensai più, come se fosse stato tutto uno scherzo, quattro chiacchiere dette al bar tra amici, o le solite voci di corridoio, puntualmente smentite dai fatti. Quando mi ha consegnato la lettera e liquidato con una stretta di mano, ho sentito il cuore fermarsi. Quella soffice sensazione di leggerezza che si ha prima di svenire, di accedere all’inconscio. E dopo che finalmente riuscii a raggiungere la mia postazione di lavoro, e mi sedetti, cominciai a sudare freddo, mi si bagnarono persino zone del corpo che non ricordavo di avere. E aspettai. Aspettai che il tal collega, nascosto in qualche angolo, ne uscisse fuori, e ridendo mi rivelasse la buona riuscita dello scherzo. Ma nessuno si vide, e, il tal collega passò davanti al mio ufficio, anche lui con una busta in mano e sbiancato peggio di me. Allora capii ch’era tutto vero, realizzai in pochi attimi il mio completo fallimento nel mondo del lavoro, e cominciai a sentire addosso l’odore marcio della precarietà. Tutto sfuocò, i contorni svanirono e il mio futuro diventò un’enorme macchia bianca. Non ho mai pensato che mi potesse accadere. A me no! Impossibile!

Osservo le onde infrangersi a riva, sparire nella sabbia, una dopo l’altra, assorbite da essa. Possa assorbire anche me dopo l’impatto, da svanire nel nulla, senza lasciare alcuna traccia. Sarebbe la cosa migliore. Un uomo senza lavoro, non ha dignità.

Quel giorno tornai a casa un po’ più tardi del solito. Dovevo trovare il coraggio di dirlo a mia moglie, a mio figlio. Non era una cosa facile, contai molto sulla loro comprensione, sulla loro solidarietà. E così è stato, mi diedero il coraggio di ricominciare. Ma lo spazio, per uno della mia età, era finito. Il mondo del lavoro, con le sue fabbriche, i suoi uffici, mi considerava vecchio, senza alcuna possibilità di riciclo. Vecchio a quarant’anni! E la mia esperienza ventennale aveva valore nullo. Incalzato da parenti e amici, insistetti. Bussai a porte prontamente serrate, consumai scarpe in chilometri di delusione, strizzai le speranze fino all’ultima goccia, fino a quando lo sconforto e l’amarezza prevalsero persino sul grande coraggio che mia moglie e mio figlio mi diedero. Non volevo essere un mantenuto, non volevo essere un fallito. Lei non me l’ha fatto mai pesare, sempre pronta a non farmi mancare niente, ed erano proprio queste sue premure a tenere aperta la ferita. A volte la medicina giusta è lasciare andare le cose come sempre hanno fatto, per dare una parvenza di continuità tra un’esperienza e l’altra della vita. Il modo giusto di accettare la realtà senza enfatizzarla o sminuirla: lasciare scorrere la vita in quel canale che le costruiamo negli anni, i cui margini sono le certezze delle nostre esperienze.
Dopo aver trascorso un anno nullafacente, mi resi conto di aver raggiunto un punto tanto lontano da quella che era la mia normalità, e ne ebbi paura. Smisi di uscire, mi rifugiai nelle poche e uniche certezze che avevo nelle quattro mura domestiche. A nulla servirono le parole di mia moglie, il sorriso confortante e insistente di mio figlio, ormai avevo deciso.

La brezza fredda proveniente dal mare, mi fa tremare. I gabbiani in alto, sospesi nell’aria sembra che aspettino l’inizio dell’esibizione, qualcuno volteggia facendo tante capriole. Apro le braccia e per dare un po’ di sensazione spettacolare comincio il conto a ritroso. Scandisco i numeri gridandoli nel vuoto. I gabbiani muovono le ali, sembra un applauso, un incitamento. TRE…DUE…UNO…VIAAAA. Una mano mi afferra e blocca il mio lancio. Qualcuno mi butta a terra e mi sale sul ventre a cavalcioni, mi colpisce il viso con raffiche continue di schiaffoni. La faccia mi fa male, brucia. A fatica blocco il mio aggressore e lo guardo in faccia. Piange. – Perché? – mi chiede. E’ mia moglie, non so come abbia fatto a raggiungermi, a capire che sarei venuto qui, su questa rupe. Non ho il coraggio di guardarla, lascio la presa e giro lo sguardo verso il mare. Ora piango anch’io. Lei si lascia andare e appoggia la testa sul mio petto. – E’ così difficile per te, per voi uomini, accettare una nuova condizione di vita? – chiede, ma non l’ascolto. Istintivamente le tocco i capelli, sono morbidi, li accarezzo. Toccarli mi provoca sensazioni primitive, di molto tempo fa. – Ricordi i due cigni, quelli che avevano fatto il nido ai margini dello stagno… – dice stringendosi al petto – ricordi, siamo rimasti a lungo a osservarli, a curiosare nella loro vita, e ne siamo stati affascinati. Ricordi cosa facevano? –. Quell’immagine mi tornò in mente, richiamata dalle sue parole, da quel suo modo dolce di pronunciarle. La coppia di cigni covava un uovo. Il maschio e la femmina si alternavano nel tenerlo a caldo, e lo facevano entrambi con la stessa cura e lo stesso amore. Ci sorpresero, e ne parlammo per tanto tempo; confrontammo la loro vita con la nostra, con le consuetudini umane. – Ricordi, la lunga chiacchierata di quel giorno – era proprio quello che stavo pensando – e soprattutto cosa ci siamo detti alla fine della giornata, dopo aver fatto l’amore: qualsiasi cosa succeda ci aiuteremo l’un l’altro. E’ gia successo qualcosa e tu rifiuti il mio aiuto – Non rifiuto il tuo aiuto – dissi scostandola e sedendomi – e che così mi sento un fallito, ne abbiamo già parlato tante volte. Non riesco ad accettare questa nuova condizione di vita. Io voglio lavorare –. Lei si alzò mi fissò, il suo viso mostrava i lineamenti della rabbia – tu sei il solito maschilista – disse puntandomi contro e agitandolo il dito indice – se fosse successo a me di perdere il lavoro e di rimanere a casa, non avresti fatto una piega, perché sarebbe stato una cosa nella norma, perfino giusta. Vero? Se alla fine del mese sono solo io a portare lo stipendio, ti senti un fallito, un mantenuto. Invece io nelle tue stesse condizioni mi sarei dovuta sentire gratificata, realizzata. Ti sembra giusto? –. In tanti anni non l’avevo mai vista così adirata, e con me poi! Non rispondo subito, non trovo argomenti per controbatterla. Lei dice il vero. Non saprei come definire quello che provo, un sentimento contorto, un misto di rabbia e gratitudine. Mentre rifletto, lei lascia cadere le braccia e delusa si volta a guardare il mare, forse in quell’infinito cerca le risposte che io non riesco a darle. Mi alzo e faccio lo stesso. Perché sono così? Perché noi uomini dobbiamo soddisfare il bisogno di essere superiori alle donne? E’ possibile costruire un rapporto come quello dei due cigni, dove l’unico interesse è il bene comune, il trionfo dell’amore senza alcuna condizione? Chiuso nel mio egoismo basale, non riesco a trovare alcuna risposta sensata a queste domande. Fare il casalingo, non era e non è una mia aspirazione. Ma sono stato sfortunato e questa donna con mio figlio, sono l’unica certezza che mi rimane. Mi rifugio tra le sue braccia e la stringo forte.

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

UN GIORNO LEI

Post n°84 pubblicato il 20 Aprile 2009 da fittavolo

Avevo accarezzato il suo viso col pensiero, sin dal primo momento che la vidi sulla spiaggia a Marina di Lesina. Quel giorno era uno come tanti altri in un mese di Agosto molto caldo. Quel giorno trasformò la mia vita. Il sole caldo, la brezza marina, il rumore delle onde erano delle certezze quotidiane, e in spiaggia ci andavo solo per questo. Nonostante la mia grande avversione per la salsedine e la sabbia, passavo ore intere sotto l’ombrellone a bere birra e a non far niente. Le ragazze erano un bel vedere. Si susseguivano una dopo l’altra, passeggiando lungo la riva, come in una sfilata. Seni grandi e piccoli, culi di varie pezzature passavano ondeggiando, alcuni ricoperti con minuscoli costumi, altri con mutandoni medioevali. Le mezze misure erano quelli che gradivo di più: non erano volgari e lasciavano intravedere quel tanto che bastava a rendere piacevole lo sforzo di alzare gli occhi. Lei arrivò così, con un costume tigrato adeguatamente dimensionato per la grandezza del suo seno e sufficientemente sgambato per mettere in risalto nel modo giusto la bellezza del suo culo. Non venne sola, ma con una sorella e qualche amica. Le accompagnava mio fratello, già allora donnaiolo, forse con uno scopo ben preciso che non seppi mai. Chissà cosa mi spinse verso di lei, lei tra tante. Era la più anziana del gruppo quella che più si avvicinava alla mia età, ma non fu questo il motivo. Quando con fare scherzoso la invitai a sedersi nel mio salotto, lei accettò senza indugio. Sedette sull’asciugamano accanto a me, mentre le altre si disponevano in cerchio intorno a noi. Qualche chiacchiera, qualche convenevole inevitabile, e poi qualcuno propose di fare un bagno. Ero restio a bagnarmi per via della salsedine, ma quella volta non esitai. Lei si mostrò perplessa, indugiava, allora le chiesi – vieni a fare il bagno? – . I suoi occhi grondavano di timore, aggrottati in un’espressione di paura e desiderio allo stesso tempo. Mi rispose che aveva paura che non sapeva nuotare. Cercai di rassicurarla dicendole che anch’io non nuotavo e avevo intenzione di non allontanarmi troppo. Non fu convinta, allora allungai la mano verso di lei e dissi – ti fidi di me? –. Prese la mia mano come se fosse stata quella di un vecchio amico, una persona conosciuta da tempo, e mi seguì. Nell’acqua calda avvennero i nostri primi contatti, i nostri corpi si parlarono con un linguaggio primitivo, istintivo, riconoscendosi come complementari. L’istinto è spontaneo, non razionale, segue gli odori, i colori, i suoni, i gesti. Ma è la base d’inizio per un processo più complesso, che coinvolge tutto. I sentimenti, la ragione, la mente, ogni piccola particella che ci compone. Eravamo fermi in un punto dove si toccava, l’acqua ci arrivava alle ascelle e lei, paurosa, stringeva la mia mano. I suoi seni distorti dal riflesso dell’acqua sembravano enormi, avevo una voglia pazza di toccarli, avevo una voglia pazza di stringerla. La sentivo già mia. In quel poco tempo trascorso insieme avevamo rotto il muro della diffidenza, seminato il prato dove stenderci al sole, e aspettavamo che l’erba crescesse. Non ero attratto solo dal suo corpo. Avevo la netta sensazione di averla sempre avuta dentro, era la parte nascosta dei miei desideri, l’ombra nella quale mi rifugiavo per sentirmi vivo, per sentirmi uomo. La mano che accarezzava il sesso nell’adolescenza, la figura di donna costruita dai pensieri erotici ora si materializzava col suo corpo, con le sue linee e mi appariva come una madonna, orlata da una luce accecante che m’imbambolava. La sua voce aveva un suono familiare, acceso. Pronunziava un italiano con un’inflessione dialettale gradevole, per nulla fastidioso, mi risultò subito accettabile. Ero già cotto, senza accorgermene stavo approdando ad un’altra spiaggia con un'altra donna. Quando uscimmo dall’acqua e ci stendemmo al sole per asciugarci avevo la gola secca, come se avessi parlato per ore. Le parole rimanevano impantanate nella gola, non riuscivano ad uscirne. Il terremoto Luisa quel giorno mi vibrò dentro e scombussolò la mia esistenza.

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

LETTURE

Post n°83 pubblicato il 17 Aprile 2009 da fittavolo

Questo è il libro che sto leggendo adesso:
"Il paese delle spose infelici" di Mario desiati.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

SENZA TITOLO

Post n°82 pubblicato il 15 Aprile 2009 da fittavolo
 

La persona è l’insieme di tutti gli attimi della sua vita. Questa semplice definizione, tanto banale quanto complessa, è la sintesi più esatta di quello che siamo.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963