Creato da fittavolo il 03/12/2007
I MIEI RACCONTI, LE MIE FANTASIE, LE MIE ESPERIENZE.

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Post n°101 pubblicato il 26 Ottobre 2009 da fittavolo

Il campo di grano era immenso. Si estendeva da una collina all’altra a perdita d’occhio. Nell’entroterra, il tavoliere pugliese era un continuo susseguirsi di rilievi, non potevano essere definiti colline, troppo bassi, ma abbastanza alti da limitare il campo visivo. Avevamo lasciato l’auto ai margini di una vecchia strada vicinale e scendevamo di corsa verso l’unico albero che c’era in mezzo al campo. Era una vecchia quercia. Correre nel grano maturo era una cosa che da piccolo facevo tutti gli anni, quando mio nonno mi portava con sé in campagna, per la mietitura. A dire il vero le corse erano sempre state fatte di nascosto, mentre riposava nei pomeriggi soleggiati di Giugno, ed ogni volta erano puntualmente scoperte. Era impossibile non lasciare traccia nella immensa distesa di spighe. Poi la mietitura riportava la quiete e il terreno era come quanto uscivo dal barbiere dopo aver tagliato i capelli. Nella stoppia potevo fare di tutto, correre, rotolarmi, ma non era divertente, anzi il più delle volte i residui degli steli della spiga mi graffiavano le gambe. Erano passati tanti anni da quelle estati e correre con lei in un campo sconosciuto, sperando che il proprietario non si facesse vivo, mi dava gli stessi brividi di allora. Le spighe erano talmente alte da coprirla, ciò nonostante correva all’impazzata tenendomi testa. Arrivammo alla quercia senza fiato. Ricordo che aveva toccato il tronco gridando “ho vinto”, poi si era seduta appoggiandoci la schiena. Pochi secondi dopo mi sedetti al suo fianco. Sentivo il cuore battermi in gola, erano anni che non correvo così tanto. Sono bastati pochi istanti di riposo per ridarle carica, si era alzata e aveva cominciato a saltellare per vedere oltre le spighe. Il mare giallo mosso dalla lieve brezza, ondulava. Le spighe di grano chinate verso il basso, oscillavano mimando una danza d’altri tempi. Era un rito propiziatorio per esorcizzare il loro futuro. Il grano era maturo, e non era certo quel continuo dire no con il capo, che le avrebbe risparmiate dalla falce del contadino. Una cornacchia volava sopra le nostre teste emettendo di continuo versi. Forse sull’albero c’era il suo nido.
“Papà rispondimi sinceramente, il mondo da dove viene, chi è che l’ha fatto?” mi domandò.
Quante volte ho sperato di sentirle chiedermi questo, tante, ma non ora, non a questa età. Cosa potevo risponderle? Non ero preparato ad affrontare una simile questione e soprattutto mi pesava tanto quell’avverbio “sinceramente”. Perché sinceramente? Qualcun altro le aveva già parlato dell’argomento, e lei aveva intuito una balla madornale? Non potevo tirarmi indietro, ero suo padre e dal modo insistente che aveva nel fissarmi, si aspettava una risposta.
E subito!
Ma porca miseria non poteva chiedermi qualcosa di più facile, a cosa serve il grano, dove va il sole quando tramonta, a sette anni sono queste le domande che dovrebbero ronzarle nella testa. Non volevo assolutamente condizionarla con la mia scelta e allo stesso tempo non volevo raccontarle una cosa che non sentivo minimamente. Anche perché col tempo non l’avrebbe dimenticata e prima o poi, scoperto il mio vero pensiero, me l’avrebbe rinfacciata.
La cornacchia era insopportabile, aveva cominciato a volare basso e con il suo verso m’impediva di pensare. Mi venne in mente che forse non era così seccante, che poteva essere la mia ancora di salvezza. Infatti, attirò la sua attenzione e finalmente smise di fissarmi.
“Che vuole quest’uccello?” disse.
“E’ una cornacchia, forse su quest’albero c’è il suo nido” risposi.
Rimase qualche secondo ad osservarla svolazzare poi rivolse lo sguardo di nuovo verso la distesa gialla. Non so dalla sua altezza cosa riuscisse a vedere, ma ne era incantata.
“Allora?” chiese.
“Allora cosa?” dissi.
“Papà alla domanda di prima, non hai risposto, allora?” precisò.
Perché i figli insistono quando non c’è bisogno e sono evasivi quando serve? Forse è nella loro natura di figli o semplicemente hanno scoperto un punto debole e battono il ferro finché è caldo. Dopotutto è sempre qualcosa che può tornare utile in certi momenti, allorché cerchiamo con le nostre paternali di tenerli sulla giusta via. A questo punto ero con le spalle al muro e in verità non avevo una risposta “sincera” da darle, allora da buon Pilato le chiesi “secondo te?”.
Era quello che si aspettava, lo intuii dall’immediatezza della sua risposta, giunta non più tardi di un secondo.
“Gesù. Gesù ha fatto il mondo” rispose.
Stupito e un po’ dispiaciuto, in tutta franchezza non la penso così, la guardai alzando le sopraciglia in segno di meraviglia.
“Gesù ha creato il mondo – indicava quello che riusciva a vedere dalla sua altezza – anche gli uomini, gli animali. E gli uomini hanno fatto le cose, come le case, le auto, la pasta. Ce l’ha detto la maestra” disse sicura.
Grazie maestra per avermi salvato, un domani forse non la penserà più così, strapperà dalla sua testolina quest’idea che sembrava convincerla, ma questo non avrà più importanza perché sarà grande e, come me come tutti, avrà un proprio concetto sull’esistenza.
“Però, quello che non so è, chi è Gesù? E dove vive?” chiese.
Adesso mi era chiaro il perché della sua richiesta di sincerità. Le hanno detto chi è stato l’architetto del mondo, ma non avendo un riscontro della sua esistenza, la stessa affermazione ha perso di significato. I bambini son forti, non li si frega facilmente. Sinceramente le dissi “Chiedilo alla maestra”.
Mi sorrise.

 
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QUESTA DONNA

Post n°100 pubblicato il 20 Ottobre 2009 da fittavolo

Questa donna l’ho scelta per tutta la vita. Questa donna che ho voluto è la mia complice. Pensieri speranze dolori. Un mare di situazioni che ci hanno visto sempre insieme, appiccicati l’uno all’altra.
Unico cervello, unico corpo, unica volontà.
Un movimento contemporaneo di quattro braccia quattro gambe, nella stessa direzione, mosse per lo stesso motivo.
Mani agitate.
In continuo movimento, alla ricerca perenne di conferme, senza mai stancarsi. Un pensiero non è mio se non è suo. Il sonno non mi dà riposo se non è il suo sonno.
I sogni i sogni i sogni.
Mi piace guardare il suo corpo. Mi piace guardarlo di nascosto. Quando dorme. Quando sogna. Quando le sue membra sono atoniche. Quando è indifesa.
La scorsa estate l’ho fatto, quando faceva caldo e dormiva sopra le lenzuola. L’avvolgibile era abbassato quel tanto per preservare l’intimità da occhi indiscreti. La luce dei lampioni sovrastava quella tenue della Luna. Era un flusso luminoso costante, riflesso dal soffitto sul suo corpo. La camicia da notte era tutta accartocciata sul suo ventre, sulla sua schiena. Una gamba era distesa, l’altra era piegata. Dormiva a pancia in giù. Aveva assunto la posizione come se stesse scalando una parete rocciosa e si era fermata immobilizzata, chissà per quale motivo. Seguivo con lo sguardo il suo profilo, ispezionavo ogni sua curva. Lo facevo stando seduto sulla poltrona posta davanti al letto vicino l’armadio, al suo lato, aveva una forma che ricordava epoche lontane, re e regine, e incoronava me come unico spettatore della sua bellezza.

 
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CIAO

Post n°99 pubblicato il 13 Ottobre 2009 da fittavolo


“Ciao”
Un saluto, una semplice parola sospirata, detta a labbra socchiuse, e con gli occhi che sorridono. Una vibrazione fugace che attraversa il metro che ci separa e si stampa nella testa. Sono appoggiato allo stipite della porta con le braccia intrecciate e mi godo il fresco della sera. E’ sempre così al lago nelle serate di Agosto, appena fa buio si alza una lieve brezza che porta via la calura del giorno. Arriva dal nord, dalle alpi, dai monti dove c’è neve anche d’estate. Le schiere di turisti sono giù in città, negli alberghi dove alloggiano, dopo aver popolato per un giorno questi luoghi. La sera vanno in discoteca, nei pub e restituiscono tranquillità alle rive del lago. Il lago ritorna ad essere mio.
“Ciao, che ci fai qui?”
Le passo davanti fissando l’incresparsi dell’acqua, ignorando il sorriso che ha sulla faccia e voltandole le spalle.
“E’ bello qui la sera”
E’ bello, lo so che è bello, è il mio posto. Non lo cambierei per nessun altro al mondo. Prendo un sasso e lo tiro nell’acqua. Il tonfo secco si stampa nel silenzio e una serie interminabile di anelli si propagano in superficie annullandosi nel buio. Anche lei prende un sasso e lo tira con forza. La pietra scelta con cura tra le tante, lambisce l’acqua in superficie in vari punti e dopo aver fatto quattro saltelli ben distanziati tra loro si tuffa in profondità.
“E' questo che volevi fare? Sono bravissima, anni di esperienza…”
E' strano come la semplice presenza di una persona possa rompere la magia di una serata. La mia magia la mia serata.
“Non volevo far saltare il sasso. Mi piace sentire il suono sordo dell’impatto”
Meravigliata mi fissa con la bocca semiaperta. La scorgo con la coda dell’occhio, non ho mai smesso di guardare l’infinita bellezza del lago.
“Perché?”
Volgo lo sguardo verso di lei, per la prima volta la fisso negli occhi. Luccicano al chiarore della Luna, non riesco a distinguere il loro colore, ma sono molto grandi, tondi.
“Allora?”
Piega la testa di lato e sorride, insegue il mio sguardo. M’intenerisce, lei non può sapere, lei non ha colpe.
“Perché sei qui stasera? Perché non sei tornata in città?”
Ho voglia di stare da solo, ma non riesco a non darle retta. Potrei ignorarla, scappare via, lasciarla da sola davanti allo specchio d’acqua, ma una strana forza me lo impedisce, mi paralizza. Questa donna ha qualcosa che non comprendo e come se, per la prima volta dopo tanto tempo, cominci a tollerare la compagnia di qualcuno. Non sono le sue parole, le sue domande e neppure la sua bellezza nascosta nella penombra.
“E’ un battito del cuore”
Prende un sasso, uno bello grosso e lo lancia a campana verso il lago.
Gglumm.
Un bel colpo forte, senza rimbalzi, secco preciso, il lago ha fatto sentire un suo battito. Ne butta un altro e poi un altro e un altro ancora. Gglumm gglumm gglumm.
“E' vero sembra il battito del cuore”
Ne è affascinata, stupefatta. Non smette di agitarsi, sembra che abbia scoperto qualcosa di fantastico.
“Il lago è vivo. Ascolta la sua voce”
Nel silenzio si ode il dondolio dell’acqua, è una ninna nanna, una dolce litania ripetuta all’infinito. Spero che vada oltre, che non si fermi a ciò che è evidente, che ascolti con il cuore. Alza lo sguardo verso la profondità del lago. Nonostante la Luna e il sereno è nero. Indica il buio con il dito e il braccio ben teso. Cerca di spiccare qualcosa senza riuscirci.
“Lamento…sento”
Le prendo la mano e gliela stringo forte. Ora so il perché di questa donna. Ora lei sa il mio segreto.

 
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ANCORA SECONDO

Post n°98 pubblicato il 08 Ottobre 2009 da fittavolo

Perché c’è sempre qualcuno che arriva prima di me?
Forse perché sono nato troppo tardi o forse troppo tardi ho cominciato ad usare le parole scritte per esprimere un pensiero. E già direte voi e vi starete chiedendo cosa usassi prima. Parlare è diverso che scrivere. Questo è un fatto incontestabile. E’ molto più facile parlare. Gli strafalcioni detti si dimenticano subito, fanno parte della coreografia del discorso, anzi se non ci fossero bisognerebbe aggiungerli apposta. Altrimenti sarebbe come leggere un libro o un discorso preconfezionato, e tutto diventerebbe sterile. La vocale sbagliata per l’emozione o il verbo coniugato con tempi diversi nello stesso periodo, sono molto simpatici. Esprimersi così è più sano più genuino, spontaneo. Scrivere è più riflessivo. Allora ricerco parole metafore paragoni originali, che facciano un effetto dirompente su chi legge, che esprimano al meglio i sentimenti e il pensiero. Fermo restando ciò che disse una mia Amica “le parole sono dei filtri”, cerco comunque quelle più adatte per attutire questa azione. Mi accorgo, però, che la maggior parte delle combinazioni vincenti è già stata giocata. Messe in campo da personaggi molto, ma molto più in gamba di me. Oppure da personaggi al mio stesso livello di cultura, solo che, bontà loro, ci sono arrivati prima.

Cercavo una frase che mi permettesse di esprimere al meglio e con poche parole cos’è la vita, e da lì partire per scrivere qualcosa. Avevo la radio che faceva da sottofondo, con un volume bassissimo, ma riuscii lo stesso a captare perfettamente la frase che avrei voluto che uscisse dalla mia testa “Perché la vita è un brivido che vola via, e tutto un equilibrio sopra la follia”, era esattamente quello che volevo dire! Disarmante! E poi ancora “per vivere davvero ogni momento, con ogni suo turbamento, e come se fosse l’ultimo” le dita erano paralizzate sulla tastiera. Nulla d’aggiungere né da togliere. Poche parole con un effetto dirompente. Il mio effetto.

Come esprimere l’indifferenza nei confronti degli altri, soprattutto dei più sfortunati. Tanto è stato detto, poco è stato fatto. Allora la ricerca di un pensiero era diventato un mio cruccio. A volte mi perdo in cose del genere e passo giorni (nel tempo libero) a pensare a pensare. Faccio passeggiate interminabili fatte di solitudine, spese a cercare nella natura la risposta giusta. Poi, quasi per caso mi raggiunse dal lettore mp3 del mio vicino di viaggio in metropolitana, tenuto ad un volume decisamente alto, parole del tipo “Dimentica…c’è chi dimentica, distrattamente un fiore una Domenica, e poooi…silenzi, e pooooi…silenzi…silenzi”. La chiave della mia ricerca era già stata forgiata e aveva la forma dei “silenzi”. Quale parola poteva essere più esplicita. E poi ancora “siamo noi gli inabili che pur avendo a volte non diamo” parole taglienti e molto esplicite.

Sarò un eterno secondo, ma non demordo. Il fatto è che bisogna avere una grande sensibilità per poter esprimere al meglio un pensiero o un’emozione. Averla vissuta.

 

 
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ODORE ANTICO

Post n°97 pubblicato il 05 Ottobre 2009 da fittavolo

L’odore della legna bruciata aveva invaso la strada. Non era acre ma dolciastro. La resina intrappolata nelle venature del legname rendeva piacevole quella esalazione. Era un odore antico che suscitava vecchi ricordi, storie di un tempo passato, perse negli angoli bui di una fanciullezza finita anni fa. M’immaginavo la fiamma consumare pian piano il ceppo, avvolgerlo e divorarlo. Forse in qualche stufa moderna, in una delle tante case lì vicino, o forse lontano in qualche camino rustico ed era giunto trasportato dalla lieve brezza del pomeriggio. Guardai i tetti delle case, i loro camini tacevano. Allora pensai ad un posto lontano, dove c’era un fuoco acceso ed un vecchio signore che lo curava. Aveva le dita ingiallite dalla nicotina, depositata dalle tante sigarette che aveva fumato. Le faceva lui, cartina tabacco e tanta esperienza. Mi raccontò che aveva cominciato a fumare a sedici anni. A quell’epoca non aveva soldi in tasca e le prime sigarette le aveva fatte raccattando i mozziconi per strada e avvolgendo il tabacco ricavato con un pezzo di carta qualsiasi – avevano il gusto della carta, il tabacco si sentiva poco. Ce n’era poco. Ma tu queste cose non le devi fare, non devi fumare – era il consiglio di un fumatore accanito. Avevo otto anni quando mi parlava di queste cose, ed eravamo in piena campagna, al suo podere. Borgo San Giusto stava seguendo le sorti di tanti altri centri agricoli nati nel dopo guerra, si stava svuotando. I giovani, figli dei contadini che con tanto sacrificio avevano riscattato i propri poderi, di zappare la terra non ne volevano sapere. L’ente riforma aveva tolto la terra ai grandi latifondisti e l’aveva data ai braccianti, trasformandoli in piccoli proprietari terrieri. Tutto ha funzionato finché, stanchi dalla fatica di tanti anni di duro lavoro, i vecchi lasciarono il posto ai loro figli. Ma i figli erano già andati via in città, in cerca di una vita più agiata, delle comodità che la moderna società in forte ascesa prometteva. Così i campi spesso rimanevano incolti o erano affittati ai pochi che restavano. Nei suoi occhi c’era tutto il rammarico di non vedere continuare la propria tradizione, mentre fumava e mi guardava e mi diceva parole per dissuadermi dal fumare. Eravamo seduti su due tufi, accanto ad un fusto pieno di bottiglie di passata di pomodoro. Le stava sterilizzando tramite la bollitura. Il fuoco curato con molta attenzione serviva a scaldare l’acqua – deve raggiungere la bollitura lentamente, altrimenti si può rompere qualche bottiglia. Poi bisogna lasciarle bollire per almeno mezzo ora – mi insegnava un’operazione apparentemente semplice, ma che richiedeva molta attenzione. Intorno a noi la sua terra era coltivata solo un pezzetto. Era quello che riusciva fare senza stancarsi eccessivamente, il resto era terra brulla. La casa colonica era al centro dell’appezzamento e tutto era recintato con la rete metallica. Un cancello malandato era il punto d’accesso. Nell’ampio porticato mia madre con le sorelle e sua madre ultimavano le pulizie, dopo aver passato quattro quintali di pomodori e aver riempito decine di bottiglie. Solo dopo si poteva mangiare. Pomodoro fresco con pasta e rucola selvatica, era il menù di un giorno particolare. La rucola l’aveva raccolta nella mattinata, nei campi incolti o lungo le cunette della strada, era stata lavata e aspettava di essere cotta. L’odore che regnava incontrastato era quello della legna che ardeva. Non il fumo, che fuggiva via verso l’alto, ma l’aroma delicato che lasciava il ramo di eucalipto bruciando. – Adesso sta bollendo, vedi le bolle d’aria che vengono su – mi fece notare togliendo il pezzo di latta sul fusto. Poi tolse la legna che alimentava il fuoco, lasciando solo la brace – questa è sufficiente per farla bollire per mezz’ora. Spense i rami ancora accesi coprendoli di terra. Poco dopo la voce di mia madre giunse chiara e inequivocabile, era pronto il pranzo.
– Nonno andiamo, è pronto da mangiare – avevo fame.

 

 
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UN ALTRO AMORE

Post n°96 pubblicato il 17 Settembre 2009 da fittavolo

Giaceva sul letto, aveva la testa appoggiata sul pugno destro, il gomito le affondava nel cuscino per il peso. I suoi occhi chiudevano lo sguardo su di me. Io ero seduto a cavalcioni su una sedia e poggiavo le braccia sulla spalliera. Ogni tanto le tiravo su e annegavo la testa tra mani, tenendomi sui gomiti. La guardavo mentre mi fissava, cercavo un fondamento d’intesa che mi desse il coraggio di parlarle. Mi piaceva guardarla così. Allora pensai a quanto sarebbe stato bello fare l’amore. Amarla era un mio grande desiderio. Ascoltai le sue parole, ma avrei voluto chiuderle la bocca e mordere le sue labbra. Azzittirla col morso più dolce e farle provare quanto ardore ho dentro.
Markò sedeva dall’altra parte del letto, giocava a carte con Mirko. Spesso si voltava, ascoltava le nostre parole e muoveva il capo con dissenso. Avrei dovuto avere più coraggio, confermare con fermezza ciò che provavo, dare evidenzia dei miei sentimenti, forse così Markò non si sarebbe mosso.
Il lenzuolo era stato sollevato e aveva lasciato scoperto il suo corpo. Indossava una T-shirt, tutta accartocciata sui seni, non aveva l’intimo. Markò le sollevò una gamba e si incuneò.
Mi guardava con sfida, definendo il limite delle mie azioni. Annalisa gemeva e io non capivo. Nessuna parola, nessuna carezza, solo un lungo gemito animalesco, il suo orgasmo. Assistetti all’amplesso senza muovere un muscolo, pietrificato e incredulo.
“A te” disse Markò, invitando Mirko.
Mirko era assente e senza sollevare lo sguardo dal gioco di carte rispose “Adesso non mi va”.
“Vuoi anche tu?” mi chiese Annalisa.
“ Io ti amo “ le risposi.
Prese il lenzuolo e si coprì. Mise le mani dietro la testa e fissò il soffitto.
“Tu mi ami? Ma sai cos’è l’amore?” ribattè.
“Penso di sì” le risposi con titubanza.
“L’amore è qualcosa di fuggitivo, un frutto colto e mangiato che lascia in bocca un sapore dolceamaro” disse.
Ci fu un silenzio che stordiva, le sue parole erano disarmanti. Poi, allungò la mano verso Markò e accarezzò il suo corpo.
“Lui mi ama. A modo suo mi ama. E io amo lui, e amo anche Mirko – disse, poi voltandosi bruscamente verso di me continuò – tu dici di amarmi, ma a cosa pensavi prima che Markò si concedesse? Non desideravi prendermi?”
“Lo desideravo, ma perché sono innamorato di te” precisai.
Markò e Mirko si voltarono a guardarmi come se avessi detto una sciocchezza.
“Sei innamorato! – ripeté Annalisa – e vuoi fare l’amore con me, ma tu non sai che io sono di tutti e di nessuno. L’unico amore che conosco è quello fatto di pochi attimi. Quelle intense emozioni che provo nell’essere posseduta da un uomo, nel sentirlo dentro, nel averlo in mio potere per il piacere che lui trae dal mio corpo”
“Ed è per questo che ti fai sbattere da entrambi?” dissi sconvolto.
Markò fece un cenno con la mano, come per dire “ma che vuoi?” e mi fissò aggrottando la fronte. Annalisa gli disse di non badare alle mie parole, poi gli si avvicinò e gli diede un bacio. Mi alzai, volevo andare via, avevo capito che Annalisa non sarebbe mai stata mia. Ma lei si staccò da Markò e si avvicinò. Mi bloccò la testa e mi baciò. Fu un bacio intenso dato con molta passione. Rimasi immobile ad assaporare passivamente le sue labbra.
“Non hai detto di amarmi?” chiese, notando la mia distanza.
“L’ho detto” risposi con tono triste.
Lei accennò un sorriso e mi spinse verso il letto. C’eravamo seduti e mi teneva le mani.
“Devi imparare a dividermi con gli altri” sentenziò.
“Chi?...Loro?” dissi indicando Markò e Mirko con un cenno del capo.
“Loro, e tutti quelli che attraverseranno la mia strada e vorranno condividerla” rispose decisa.
Aspettavano la mia risposta, la mia decisione. Dovevo rinunciare ad Annalisa, o averne solo un pezzetto. Il nostro rapporto sarebbe stato fatto di pochi attimi consumati in un letto, dove avrei potuto sussurrarle in un orecchio, che era la cosa che più desiderassi al mondo. Tutti quegli attimi raccolti lentamente nel cestino del tempo, sarebbero stati, la mia vita. Lei era diventata il centro della mia esistenza da subito. Il punto che si scorge a malapena all’infinito, e fa parte della stessa retta sulla quale scorre la propria vita. Forse fu così anche per Markò e per Mirko, seppure il loro modo d’amare era diverso dal mio, ma non meno intenso e importante. Noi tre chiudevamo il cerchio dell’amore, occupando ognuno il proprio settore senza mai sconfinare. Passione, perversione e indifferenza, i tre vertici degli angoli che formavano il cerchio su cui girava l’amore di Annalisa.
Furono mesi intensi quelli che seguirono. Conobbi un modo diverso d’amare, fatto di condivisioni ed esperienze comuni. Imparai a dosare i miei sentimenti, a scavarne il contenuto, per tirare fuori la loro vera essenza e, la confrontai con quella degli altri. Allora compresi, con mio grande stupore, che eravamo simili, avevamo la stessa radice: la felicità.
Nessun altro attraversò la corta strada di Annalisa, all’improvviso s’interruppe lasciandoci soli. 

 

 

 
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NON PREVISTO

Post n°95 pubblicato il 03 Settembre 2009 da fittavolo
 

Arrivai a Carpino che erano le cinque del pomeriggio. Il paese dell’olio mi accolse con indifferenza, c’era una sagra paesana e l’attenzione della gente era tutta per essa. Mi fermai il tempo necessario per bere un caffè e fare qualche foto. Poi ripresi il viaggio verso Monte Sant’Angelo.

Tra Carpino e Monte Sant’Angelo ci sono pochi chilometri, ma la particolare posizione di entrambi allunga di parecchio il tempo necessario per percorrerli. Carpino si trova sul fianco nord del Gargano, da lì, si può ammirare la bellezza del lago di Varano, mentre Monte Sant’Angelo è sulla cima del fianco sud, e da lì, si vede il golfo di Manfredonia, con la zona industriale. Purtroppo. La strada che lega i due paesi, da Carpino striscia lungo il fianco interno per raggiungere la profonda vallata nel cuore del Gargano, per poi risalire verso Monte Sant’Angelo. Sulla cartina stradale è rappresentata solo con qualche curva, in realtà la strada è una curva unica, con tornanti molti stretti, alcuni da fare a passo d’uomo, soprattutto sul fianco di Carpino.

Lasciato Carpino, incontrai il primo cartello con l’indicazione SP50. Strada provinciale 50 “da tenere bene a mente in caso di necessità” pensai. La strada curvò quasi subito, e dopo una curva, un’altra e poi ancora un’altra. Un’infinità di curve. La velocità media era di 30 Km l’ora, ma in compenso il paesaggio che si ammirava, era incantevole. La larghezza della carreggiata era appena sufficiente ad ospitare due auto e in alcuni tratti stringeva leggermente. Le condizioni del manto stradale erano molto variabili: si alternavano tratti in buono stato a tratti dissestati, con buche che mi costringevano ad invadere l’altro senso di marcia. Non c’era la riga di mezzeria, ma solo le due che delimitavano la carreggiata, la larghezza del senso di marcia era affidata al buon senso e alla praticabilità dello stesso. Su questo nastro asfaltato mi piombavo giù verso la vallata. Dopo dieci chilometri mi fermai. Era troppo bello il paesaggio per non scattare qualche foto. Posteggiai la macchina in quella che sembrava essere una piazzola d’emergenza, invasa dalla sterpaglia e feci qualche scatto. L’aria era veramente pura, sentivo l’odore dell’erba che calpestavo. Odori selvatici, di piante che non conoscevano lo smog e che, per tutto il giorno, guardavano un cielo limpido e azzurro. Quel azzurro intenso tipico dei cieli meridionali, dove si riesce ancora a vedere il punto il in cui la volta celeste bacia la terra. E sembrava un punto vicino, invece era molto lontano. La chiarezza dell’atmosfera avvicinava le distanze e ingannava quelli come me, abituati alle limitazioni dell’aria inquinata. La profondità di veduta mi stordiva e mi dava un senso d’infinito. Mi ero seduto su un grosso sasso e ammirai quel paesaggio per circa mezz’ora. Qualche centinaio di metri in basso, alla mia destra, avevo notato un gregge di pecore che pascolava tranquillo nella macchia. Non vidi il pastore, ma sicuramente c’era, forse era all’ombra di qualche albero. A circa cinquecento metri dal gregge, notai una casa, dal camino usciva del fumo. La casa aveva le mura dipinte di bianco e al suo lato c’era un’area recintata. Era una piccola fattoria, riuscivo a distinguere nettamente, le galline che razzolavano libere. Immerso in quella solitudine avevo paura e, allo stesso tempo, sentivo una tranquillità interiore notevole. Un senso di pace che mi convinceva a non muovermi. Da Carpino avevo incrociata solo un vecchia FIAT 127, che con sofferenza risaliva la strada, e da quando mi ero fermato, non era passato nessuno. La paura aveva le sue radici proprio nel sentirmi lontano da chiunque, nel pensiero che potesse accadermi qualcosa e non potessi ricevere aiuto. In questi ultimi anni ho sempre vissuto a pochi passi da un meccanico, a qualche centinaia di metri dal centro commerciale più vicino e non ho mai visto la via dove abito deserta; anche quando tornavo di notte, dopo aver passato qualche ora con gli amici, incrociavo sempre qualcuno. Avevo la testa sgombra dai pensieri e una strana sensazione di leggerezza. Era piacevole restare seduti a guardare e ad ascoltare la natura, mentre il tempo passava senza far rumore. Quando decisi di riprendere il viaggio erano quasi le 18.30. Seguivo la strada e pensavo a come sarebbe stato bello vivere in quei posti, lontano da tutti e da tutto. Isolati da quella modernità che mi proponeva quotidianamente modelli di vita legati a oggetti la cui utilità era discutibile. Mi venne in mente il cellulare. Un oggetto che mi portavo dietro da anni. E da anni avrei dovuto cambiarlo con un modello più recente, o perlomeno cambiargli la batteria, perché mi permetteva una telefonata di pochi minuti, poi crollava interrompendo bruscamente la comunicazione. Ma mi sono sempre opposto dato l’uso esiguo che ne facevo, limitato a casi d’emergenza, e quel poco di autonomia è sempre stata più che sufficiente. Continuavo a lasciarmi dietro le curve, procedendo a passo d’uomo, mentre si alternavano tratti ombrati, da sembrare notte, a tratti illuminati da qual poco sole che si affacciava a fatica dal lato ovest del Gargano. Avevo percorso circa cinque chilometri, quando ero stato costretto a fermarmi. Un gregge di pecore stava attraversando la strada, in un tratto dove era rettilinea e pianeggiante. Spensi il motore e scesi dall’auto. Era un gregge di circa cento capi e ci mise un po’ a liberare la strada. Questo mi permise di scattare qualche foto e d’indagare dove era diretto. Seguiva un tratturo, verso la piccola fattoria che avevo visto prima. In coda c’era il pastore, un uomo magro, dal volto stanco e con la barba di qualche giorno. Aveva in mano un lungo bastone e continuava a batterlo per terra. Attraversando la strada, senza scomporsi, mi fece un cenno con la mano. Risposi a quel saluto e ritornai in auto. Cercai di metterla in moto, ma non ci riuscii. Insistetti un po’, senza successo. Il motore era sordo al mio richiamo, continuava a singhiozzare senza dare segui di vita. Scesi ed aprii il cofano. Sapevo che non sarebbe servito a niente, non ero un meccanico, ma in cuor mio speravo di trovare qualche filo staccato. Decisi di chiamare aiuto, presi il cellulare e composi il numero di pronto intervento della mia assicurazione. Dopo il secondo squillo rispose una voce di donna, riuscii a riconoscere un accento nordico nel “pronto” detto con tanta energia, prima del silenzio assoluto. La batteria aveva deciso di abbandonarmi, proprio nel momento di maggiore bisogno. Ero solo e la sera era alle porte. Le ombre lunghe degli alberi, pian piano, stavano invadendo quella piccola oasi di luce. Mi ricordai del pastore, era l’unica persona che avevo incontrato, forse poteva aiutarmi, forse aveva un telefono nella sua fattoria. Mi affacciai sul tratturo e lo vidi lontano, era quasi arrivato alla fattoria. Risalii la strada sterrata con passo veloce e lo raggiunsi che stava chiudendo l’ovile.
“Salve, mi chiamo Franco. Ho l’auto in panne, per cortesia mi lascia fare una telefonata?” chiesi.
“Tieni l’auto con i panni? Sei un mercante?” rispose chiedendomi con un accento molto spiccato del luogo.
“No…no…niente panni…la mia auto si è rotta, non parte più, ho bisogno di fare una telefonata” dissi.
“Tieni l’auto rotta e che c’entrano i panni? – disse guardandomi con una faccia meravigliata poi concluse – non teniamo il telefono”.
Uscì dalla casa una ragazza giovane e si diresse verso di noi. Aveva in mano uno straccio con cui si asciugava le mani, poi si deterse anche la fronte, grondante di sudore.
“Ho finito di preparare la pasta, posso mettere l’acqua a bollire?” gli chiese, mentre incuriosita mi scrutava.
“Sì,sì” le rispose l’uomo.
“Buona sera, mi chiamo Franco” le dissi allungando la mano.
“Io sono Lina” mi rispose afferrandomi la mano e stringendola forte da farmi male.
“Le ho fatto male?... Mi scusi. Sono abituata ad usarle con durezza e mi risulta difficile dosarne la forza in occasioni come questa. Come mai è qui?” chiese.
“Sono rimasto bloccato con l’auto sulla provinciale, avrei bisogno di fare una telefonata” dissi.
“Purtroppo non abbiamo il telefono, qui siamo completamente isolati dal mondo” confermò le parole dell’uomo.
“Non avete neppure un cellulare?” chiesi.
“Cellulare? Qui abbiamo un mulo, le pecore, le capre e le galline. Il cellulare e il telefono, no. Abbiamo un vecchio televisore, ma funziona solo quando c’è benzina per il gruppo elettrogetico – sgranai gli occhi, non comprendevo – quello che fa corrente” disse.
“Ah…gruppo elettrogeno!” precisai.
“Sì…sì…proprio quello” rispose.
“Non avete corrente in casa?” chiesi meravigliato.
“Solo se c’è benzina, altrimenti le candele” disse con durezza scandendo le parole, come se volesse lanciare un messaggio preciso a qualcuno.
L’uomo aggrottò la fronte, il suo viso era scuro e mostrava meno disponibilità. La ragazza notò il cambiamento e con grazia disse “però stiamo bene e non ci manca nulla. Papà… come possiamo aiutare questo signore?”
“Sta quasi scurando, qui a valle viene scuro presto e all’improvviso e stiamo molto distanti dal più vicino paese. Possiamo trainare la sua auto sino qui e ospitarlo. Se gli sta bene…altrimenti può risalire la strada verso Carpino e sperare di trovare un meccanico” rispose senza guardare nessuno.
Pensai alla strada percorsa da Carpino, forse erano dieci, quindici chilometri, troppi da fare a piedi con la notte che si avvicinava. E poi quel uomo aveva ragione, trovare un meccanico disposto a intervenire a quell’ora e fuori paese, sarebbe stato molto difficile. Non avevo alternativa, ero costretto ad accettare l’invito. Guardai la valle, pareva una grande pentola che stava per essere chiusa, l’oscurità avanzava velocemente, mi girai verso di loro e dissi “Va bene, sarò vostro ospite. Grazie”.
La ragazza sorrise. L’uomo fece un cenno con il capo e andò verso la piccola stalla e tirò fuori il mulo.
“Dobbiamo sbrigarci, lo scuro viene presto. Lina metti l’acqua a bollire tra mezz’ora” disse e si avviò verso la provinciale senza aspettarmi. Un po’ preso alla sprovvista dalla fulminea azione dell’uomo, rimasi per qualche attimo imbambolato, poi salutai la ragazza e lo raggiunsi.

 

 
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MAGARI

Post n°94 pubblicato il 27 Agosto 2009 da fittavolo

La vide da lontano, quando ancora le sue forme erano indefinite. Sapeva che era l’ora giusta e non si sbagliò. La fermata dell’autobus era deserta, era mattino presto. Pensò ad una circostanza curiosa: era lo stesso periodo dello scorso anno. Un incontro annuale, una volta l’anno, come la fioritura delle piante in primavera. Ed era un bel incontro, atteso e sperato. Lentamente si avvicinava, il suo passo era deciso. Aveva una borsa nella mano destra che con un leggero dondolio seguiva la sua camminata. Le scarpe bianche col tacco si accostavano delicatamente alla gonna di jeans dello stesso colore. La canotta le lasciava scoperte le spalle e metteva in risalto il seno che si mostrava timido lasciando intravedere appena l’attaccatura. Aveva lo sguardo fisso verso la fermata, come se cercasse qualcuno. Lui invece guardava davanti a sé le poche macchine passare. Avrebbe voluto incollarle gli occhi addosso, ma non voleva scoprirsi troppo, si limitò a qualche sguardo fugace, all’apparenza distratto. Arrivata alla fermata le si mise a fianco e lo guardò.
“Ciao”
“Ciao, come stai?”
“Bene, è passato un anno”
“Sì, è passato un anno”
Era passato un anno dal loro ultimo incontro, dall’ultima volta che le aveva parlato, dall’ultima volta che la aveva guardato negli occhi. Erano tante le cose da chiederle, ma in quel momento l’unica cosa che riusciva a fare era guardarla. Aveva i capelli più corti e i raggi del sole ne falsavano il colore. Immaginava le sue dita perdersi tra quei fili luminosi, in infinite carezze. Era emozionato e non cercò di nasconderlo, voleva che capisse, quanto era felice di rivederla.
“Quando sei tornata?”
“Ieri, mi fermo due giorni”
Solo due giorni, come l’anno scorso. Il suo volto si scurì e inghiottì la gioia dell’incontro. Rimase in silenzio, quelle parole l’avevano svuotato. Continuava a ripeterle dentro di sé, per annullarne l’effetto. Ma così non fu, ad ogni passaggio ne sentiva sempre di più il peso. Un peso enorme che faceva fatica a sopportare.
“Hai fatto quello che ti ho consigliato lo scorso anno?”
Lui smise di guardarla, abbassò la testa e strinse gli occhi. Lei capì che nulla era cambiato: le sue parole di un anno fa erano rimaste lì dove le aveva pronunciate, stese al suolo, inascoltate. Era ancora innamorato.
“Non sono riuscito”
“Non hai neppure provato a farlo”
“Non ho provato”
Adesso sapeva e in cuor suo sperava. Le prese la mano, gliela strinse, lì c’era tutta la sua vita. Accarezzò il suo viso e lei si abbandonò nella sua mano. La melodia del giorno appena nato mostrava tutto il suo splendore. Il suono penetrava ovunque, solleticava gli animi, inteneriva i cuori, sollecitava le molecole dei corpi. E i corpi rispondevano, nel modo in cui la natura aveva loro insegnato. Presero a girare l’uno rispetto all’altro, in un vortice sempre più intenso, profondo. Dove le leggi fisiche perdono di significato e i sentimenti si fondono, dissipando ogni dubbio e abbracciano la certezza di essere nel giusto. E’ giusto che accada. Un bacio, un leggero sfioro di labbra, un’emozione talmente intensa da lasciare senza fiato. E un unico desiderio: volerne ancora.
Uno stridio di freni. Uno sbuffo d’aria. La porta a soffietto si aprì e sbatté sulla fiancata. Il borbottio del motore dell’autobus metteva fretta.
“Mi ami?”
“Magari”
Aveva il palmo della mano schiacciato contro la porta chiusa, come se avesse voluto stamparlo nel vetro il suo saluto, mentre l’autobus copriva con una nuvola di fumo nero l’altra mano rimasta a terra e spalancata nel vuoto.

 
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ACCETTARE

Post n°93 pubblicato il 07 Agosto 2009 da fittavolo

“Niente è definitivo” questo gli venne in mente. Parole pescate in un ricordo lontano, dette da chissà chi, ma che facevano un effetto strano.
“Ogni decisione ha fondamenta solide sino a quando soddisfa la sete di felicità”, come schegge impazzite i pensieri colpivano le pareti, scalfivano le solide mura e allora si ricordò di una amica, delle sue parole e pensò “sarà il suo verbo a trarmi in salvo, ciò che il suo fiato ha modellato saranno gli strumenti della mia salvezza”. Ed ella gli aveva detto “Il vestito che indossi, che ti stringe tanto da soffocarti, l’hai scelto pensando che fosse della tua misura. Ora ti lamenti perché non riesci a muoverti. Liberatene senza timore”. Lui ricordò il ghigno che fece e la leggerezza con cui considerò il consiglio. “Non posso fare e disfare continuamente la mia vita, ho deciso, e vado avanti nella mia scelta” erano le parole cascate dalla sua bocca e arrotolate attorno al suo corpo. Ella rimase immobile a guardarlo, a guardare come poneva il primo mattone per proteggersi.
“Costruire un muro non serve a niente, la tua scelta la devi vivere in libertà, misurarla continuamente, seguirne i cambiamenti, adattarti ad essi” ella disse indicando il mondo. “Ho un amore, l’ho voluto, l’ho scelto” le disse alzando la voce.
“Io non so l’amore vero che sorriso ha, le scelte vanno e vengono e niente è definitivo” disse ella e andò via.

 

 
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CERCARE

Post n°92 pubblicato il 06 Agosto 2009 da fittavolo

Cercò a lungo una possibile via d’uscita. Una porta, una finestra, che gli permettesse d’evadere. Ma quella stanza non aveva porte, non aveva finestre, era fatta solo di mura, solide mura.

 
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