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Quelli che sognano di giorno sono consapevoli di tante cose che sfuggono a quelli che sognano solo di notte. (Edgar A. Poe)

 

 

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VENTIDUE ANNI (1.a parte)

Post n°695 pubblicato il 15 Luglio 2013 da sciffo

 

 

 

Well, now young faces grow sad an'old

And hearts of fire grow cold

We swore blood brothers against the wind

Now I'm ready to grow young again

 

Ventidue anni.

 

Faccio il conto del maledetto tempo che passa, sempre più subdolo e bastardo, mentre guido verso l’appuntamento fissato ai giardini dell’Acquedotto. Ebbene si, sono già passati ventidue anni da quando sono uscito dal giro della squadra.  Sono tanti, cazzo.

Sono pochi minuti di auto, ma il tempo si fa adesso relativo, mentre  con la mente ripercorro con precisione il roster della “mia” squadra, quella di metà anni ’80, ruolo per ruolo.
Saranno anche passati i ventidue fottuti anni, ma ricordo benissimo tutti, dal quarterback al punter, ricordo nomi, cognomi, posizioni, numeri di maglia, altezza, peso.
Di alcuni persino il tempo sulle 40 e il massimale alla panca. Può suonare incredibile, lo so: sarà la mia vocazione da coach, o forse da Rain Man, ma è assolutamente vero.
Mentre i volti mi passano uno dopo l’altro sullo schermo della mente, sorridenti e giovani come nelle foto di uno yearbook ideale, mi chiedo chi di loro troverò all’appuntamento, e soprattutto che sensazioni proverò nell’incontrarli.
Mi accorgo che sto sudando, anche nell’abitacolo climatizzato: è l’effetto di una vaga inquietudine, la paura che niente sia come allora, che ricordi per me importanti si disintegrino, cadendo rovinosamente nel fossato scavato da quei ventidue anni.
Preoccupazioni stupide da uomo di mezz’età, forse, ma anche l’eco di delusioni che, in altri contesti, ho già vissuto sulla mia pelle.

 

Comunque sia, ormai ci sono: troppo tardi per ogni ripensamento, se mai ce n’è stato davvero uno.
Scendo dalla macchina, in questo pomeriggio d’estate luminoso e bollente, e dopo pochi metri scorgo da lontano tre strani personaggi, che vestono una jersey bianca da gioco e un cappellino dello stesso colore.
Vengono verso di me, leggo i numeri sulle maglie e li distinguo ben prima di poterli vedere in volto. Nessun sorriso a doppio fondo, ridono veramente, come raramente capita ad un cinquantenne, in mano una birra che, in questa afa, sembra un miraggio.
Appena mi vedono mi riconoscono, ci scambiamo un abbraccio e qualche reciproca presa per il culo. Non c’è traccia di freddezza, non c’è alcuna distanza. In un attimo, tra noi è tutto come ventidue anni fa, e ogni mia preoccupazione è scomparsa, sostituita da un’inconsueta anticipazione positiva, una sensazione che non provo da tempo.
Voglio ritirare anch’io la maglia, buttarmi nella festa e incontrarli tutti, anzi, abbracciarli come fratelli che vivono lontani.
E voglio anch’io una birra, la nostra vecchia bevanda magica.
Mi avvicino allo stand della squadra, dove un eroico Paltro , con gli occhi vetrizzati per il caldo e lo stress, sta cercando di tenere a bada decine di vecchi animali da tiro, da soma e da caccia. Tutti reclamano urlacchiando la propria jersey, forse un po’ imbolsiti ma vivaci (quasi) come un tempo. Dappertutto vedo sguardi allegri, forse un po’ commossi, di sicuro stupiti che una cosa bella come questa ci stia succedendo davvero.
Mentre attendo il mio turno, fioccano pacche sulle spalle, abbracci e bonari calci nel culo.  Come in un gigantesco Bar Sport, tutt’attorno si offrono bicchieri di birra e soprattutto commenti sarcastici su ventri prominenti (“pettorali discesi”), teste pelate come ginocchia o capigliature più sale che pepe, barbe e baffi a dir poco improbabili.
All’improvviso mi trovo di fronte Guio e lo abbraccio con affetto, lo stesso che lui mi dimostrò quando ero l’ultimo dei rookie e lui il QB titolare e nazionale, e che non ho mai dimenticato.
Adesso le maglie bianche in giro sono ormai centinaia, e ci sono quasi tutti, quelli della mia generazione: ne abbiamo passate tante assieme, e nei nostri anni migliori; non potrebbero mancare, come non posso mancare io.

Essendo l’invito esteso a trentatre anni di giocatori, ci sono anche quelli delle generazioni successive. Alcuni li conosco altrettanto bene per averli allenati, altri invece, più giovani, non li ho mai incontrati prima, ma quella maglia ci accomuna tutti, e provo un’empatia per me insolita anche per i volti che non conosco.


Volontariamente, non cedo alla tentazione di radunare un gruppetto con gli amici più stretti, quelli che, anche se di rado, ho continuato a vedere anche nei miei anni senza football.
Al contrario, voglio vedere tutto, tutti, perdere il meno possibile di questi momenti così unici.
E mi rendo conto di essere particolarmente fortunato, perché tra prima squadra, giovanile, anni da giocatore e poi da allenatore, ho incrociato il mio cammino con quello di molti dei presenti.
Certo, quando incontro lo sguardo di quelli con cui condiviso la trincea, avverto un qualcosa di particolarmente profondo.
Perché se è vero che l’essenza del football, come della vita, è la lotta per pochi maledetti centimetri, proprio come nel famoso speech di Al Pacino/Tony D’Amato, è anche vero che l’essenza dell’amicizia sta in quell’huddle difensivo, dieci secondi prima di giocarsi un quarto e goal, nel guardare gli occhi dei compagni con cui hai giù condiviso tante battaglie, e sapere che nessuno di loro tirerà indietro il casco.

E nel fondo di quegli stessi sguardi, potranno passare anche cent’anni, ma saranno conservati per sempre quei momenti, e la stilla di quella fiducia. Perché anche nel vivo della battaglia, le debolezze di ciascuno messe inesorabilmente a nudo, abbiamo continuato a combattere insieme, fidandoci e sostenendoci l’un l’altro. A volte abbiamo vinto, altre perso, ma senza mai nascondersi: non c’era alcun posto dove farlo, sul gridiron.

Sono stati anni passati ad alternare allenamenti in campo a pomeriggi in palestra, sempre assieme, a litigarsi i dischi di ghisa da 20 kg per gli stacchi, le estati sul campo d’atletica, le sbronze, le partite a touch football spaccandosi le ossa, cose che non si possono dimenticare.
Ciascuno di noi porta per sempre nel cuore le persone con cui ha diviso quelle esperienze.

E infatti lo stesso affetto provo per i compagni dell’attacco, ci si menava come fabbri in allenamento, ma con il sorriso dietro la mascherina, e sapevamo bene che, al momento giusto, avrebbero dato tutto per segnare, anche perché nessuno li avrebbe mai picchiati forte quanto noi, e viceversa.

Li guardo e, come già mi è successo, mi chiedo se il nostro ruolo in campo, attaccante o difensore, non si  sia riflessa poi anche nelle scelte di vita successive di ciascuno di noi.
E mi rendo conto che, della vita attuale di molti di questi vecchi compagni d’arme, non so in fondo nulla. Di alcuni non conosco nemmeno l’occupazione, né lo stato di famiglia.
Non si tratta di vecchi compagni di scuola, o di un semplici amici di cui si sono perdute per anni le tracce. Non provo alcun interesse nel sapere se Tizio o Caio hanno avuto o meno successo, se sono diventati milionari o se faticano a sbarcare il lunario.
Ed il motivo è semplice: là, sul campo, eravamo tutti uguali. Ricchi o poveri, patrizi o plebei, a nessuno fregava un cazzo. Si era valutati solo per il coraggio, la grinta e la voglia di sacrificarsi. Un imprinting di questo tipo non cambia nel tempo, perlomeno non nel rapporto con quelle stesse persone.

Partono i primi cori di “aldamar!” alla volta, credo, come al solito, del mitico Caba, trent’anni di oscuro lavoro dietro le quinte per far quadrare i conti della società, un compito credo assai arduo, di sicuro fonte inesauribile di prese per il culo a suo (bonario) danno. Ma tutti sappiamo che se non ci fosse stato lui, l’ultima sentinella contabile, oggi non saremmo qui a festeggiare.
I canti e le risate mi lanciano, in un attimo, indietro nel tempo, a bordo di una corriera nel buio su qualche autostrada, a bordo cinquanta postadolescenti scatenati e pieni di birra, pronti al saccheggio di un autogrill o a praticare una poco dignitosa cerimonia di iniziazione per un malcapitato rookie.
Sento la forza del gruppo, del branco, dell’esercito in marcia. Smorzata dall’età, ma da qualche parte c’è ancora.

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Commenti al Post:
zanorams
zanorams il 17/07/13 alle 22:02 via WEB
Zuk ho paura che siano 32!
 
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