Creato da sciffo il 27/09/2005

noeasywayout

Quelli che sognano di giorno sono consapevoli di tante cose che sfuggono a quelli che sognano solo di notte. (Edgar A. Poe)

 

 

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VENTIDUE ANNI (2.a parte)

Post n°696 pubblicato il 16 Luglio 2013 da sciffo


Blood brothers in a stormy night

With a vow to defend

No retreat, baby, no surrender

 

(...)

 

Nel frattempo le ore passano, le maglie bianche stanno debordando per tutta la piazza.

Non è possibile trattenere il sorriso nel trovarsi di fronte, magari senza preavviso, alcune grinte a dir poco spettacolari, sembrano i componenti invecchiati della banda della Magliana in un documentario su History Channel, altri degli evasi da un manicomio - forse lo sono.
Un poco di pazzia, d’altronde, era necessaria per giocare, per mettere a rischio ginocchia e vertebre per pura passione, per stare con gli amici, per il gusto primordiale di assestare qualche bella cannonata. Playing for pizza, così ha definito il nostro football nientemeno che uno stupito John Ghisham: una definizione che però mi permetto di confutare dato che, almeno nel nostro caso, spesso la pizza ce la dovevamo pagare da soli.

Qua e là, spunta anche qualche viso da bravo “ragazzo”, un po’ in soggezione davanti alla  torma di cinghiali. Hanno la stessa espressione esterrefatta di quando si presentarono al loro primo allenamento. Per dirla tutta, vedo la jersey anche addosso a qualcuno che so bene non essere mai sceso in campo, neppure in panchina: qualcuno di loro è visibilmente a disagio, altri meno, ma tutti sono fuori contesto, come degli imbucati ad un compleanno dove non conoscono il festeggiato.
La cosa che mi colpisce di più, comunque, non sono tanto i cornerback di un tempo letteralmente raddoppiati, tanto che oggi potrebbero giocare offensive tackle, e nemmeno i linemen fuori controllo, che stazzano ormai come dei cacciatorpedinieri atlantici, quanto piuttosto gli ex-grassi che sono notevolemente dimagriti. Addirittura alcuni, pochi, sembrano molto più in forma fisica – e psichica – rispetto a quando giocavano…

 

Ma proprio mentre sto per addentare un provvidenziale panino, arriva il momento della foto di gruppo, e devo così abbandonare ogni speranza di mettere nello stomaco qualcosa che contrasti i montanti effetti dell’alcool.
Paltro e il Biondo, policeman dentro, a prezzo di enormi sforzi e con l’aiuto di un fischietto, cercano di radunare l’immensa mandria sullo scalone dell’Acquedotto.
Siamo, credo, quasi trecento, ammassati da due ore sotto il sole di luglio, fasciati dalle maglie in tessuto sintetico, già semipieni di birra, e l’odore di ascella impropria è notevole. Persino questo, però, apporta una dose di ricordi,: spalliere rancide mai lavate, caschi di quarta mano oleosi per l’infame mix di sudori, i temibili spogliatoi del Motovelodromo, quasi impraticabili dopo un allenamento nel fango, con il Lanzo (dov’è oggi ‘sto somaro?) che tira sogghignando bicchierate di piscio a quelli che stanno facendo la doccia.

E soprattutto di quelle mischie terrificanti che si creavano ad ogni placcaggio sulla linea di scrimmage, in quel nostro football old style, dove risalivi il backfield solo per trovarti disperatamente sepolto sotto un cumulo di triceratopi sprigionanti eau da toilette ”Chanel 4° quarto”.
La foto alla fine (per fortuna) viene scattata, e sarà bellissima, un ricordo da mostrare ai figli e per qualcuno anche ai nipoti, sicuramente unico: è bello esserci stati.
Parenti, amici e passanti sorridono, anche loro un pò commossi nel vedere questi  ex ragazzi, ingrigiti, ma anche sorridenti e orgogliosi, mentre intonano l’ennesimo coro, forse l’ultimo.

Dopodichè, con fatica organizzativa notevole, veniamo inquadrati in file di sei, rigorosamente (o quasi) in ordine per numero di maglia.
A destra mi ritrovo Caba, leggo la sua espressione sorniona, e vengo fulminato da un dubbio improvviso: il maledetto avrà compensato i costi per la produzione delle maglie rivendendo il database con i dati dei partecipanti alla divisione marketing del Betlem?

A sinistra invece mi compare all’improvviso Donato il Giaguaro, che non avevo ancora incontrato, e mi tornano in mente alcune serate selvagge che iniziavano a casa sua, con una grigliata a base di salsicce semicarbonizzate e pasteggiando con oscene vodke alla pesca, i cui nefasti effetti sul fegato sono avvertibili ancora oggi.
Tra urla e risate, la colonna si avvia infine verso lo stadio, distante poche centinaia di metri, e sarà una passeggiata magica. Siamo tutti insieme, un fiume di maglie e cappellini bianchi, ma anche di sorrisi finalmente senza se e senza ma, di sguardi velati di meraviglia e consapevolezza che sta stiamo vivendo, assieme, un momento unico, emozionante oltre ogni aspettativa.


Nei dieci, frizzantissimi, minuti di attesa davanti ai cancelli, in attesa del segnale per entrare in campo, si avvera anche il mio ultimo desiderio per questa serata: compare, proprio sul filo di lana, Lorenzo Greghi, uno dei compagni di merende con cui, ai bei tempi, mi sentivo più in sintonia. Secondo me, è stato uno dei più forti giocatori italiani di sempre, e sono almeno quindici anni che non lo vedo ma, a parte i capelli grigi, per fortuna è sempre lo stesso.
Finalmente arriva l’ora del nostro ingresso sul terreno di gioco, ed è trionfale oltre ogni aspettativa: la musica esce rombando dagli altoparlanti, un “povero” rookie, là davanti, corre per il campo sventolando un’enorme bandiera con l’effigie dell’Aquila.
Siamo tutti commossi, forse anche un po’ impreparati alla solennità del momento, i cuori gonfi che premono verso la gola. Le voci si smorzano, qualche occhietto di fa lucido, e ci sta tutto.
Sono sicuro che, non solo per noi ma anche per molti tra il pubblico, questo si rivelerà il momento più emozionante della serata, anche più della partita.

Ci schieriamo allineati in formazione dog’s dick sul centro del campo, e vengono posate sul prato, perfettamente tirato, le maglie dei giocatori e dei dirigenti che non sono più tra noi. Sono undici, maledizione, mica pochi.
Per un attimo, mi passano davanti le immagini di alcuni di loro in tenuta di gioco, il casco in mano, che corrono verso la sideline lato tribuna, la nostra, del Motovelodromo.
Tutto lo stadio azzittisce per un minuto di raccoglimento nel loro ricordo, poi parte un applauso che, di sicuro, arriva fino al cielo estivo che inizia a imbrunire.
Peraltro, appena ricomincia la musica, vedo partire alcuni notevoli coppini, e due o tre calci nel culo a quelli in prima fila. Sono sicuro che avranno fatto sorridere anche quelli lassù.
Poi è il momento degli inni nazionali, statunitense ed italiano, e quindi per un saluto ai giocatori delle due squadre finaliste. Scorgo il fisico possente di Bellora, un giocatore dei Seamen, uno dei miei tempi ma che ancora calca il campo, incredibile!
Avrà giocato duemila partite, eppure scommetterei che si ricorda ancora benissimo di quell’altro masofante in bianco davanti a me, quello con una schiena simile alla poppa di una petroliera denominata “NOCE”, e che gli fece vedere un bel po’ di sorci verdi durante un match a Busto Arsizio.

Ma è quasi ora di kickoff.
Sloggiamo dal campo per prendere posto su una sezione di tribuna dedicata. Mi ritrovo tra Maci e Poldo, e mi sembra di stare tra gli ZZ Top: li vedrei benissimo su un Harley con manubrio ape hanger, elmetto della Wehrmacht e smanicato con effigie porcina degli Aldamar’s Angels.
Guardo qualche play della partita e, sinceramente, mi annoio in fretta.

E’ un tipo di football molto diverso dal nostro,  molto più spettacolare, per carità, ma anche molto meno fisico, e il ritmo delle segnature è talmente elevato che sembra di assistere ad una partita di basket. Ma la verità è anche che non me ne frega assolutamente niente, stasera sono qui per vedere gli amici, il resto è puro contorno.

E così, un minuto dopo sono al bar con Lorenzo, e in un walzer di birre a stomaco vuoto, ricostruiamo il vuoto di informazioni su quel che abbiamo combinato negli ultimi vent’anni.
Incrociamo Ale Magri, che sfoggia un insolito pizzetto e sento qualcuno che commenta “Maial Bongo at pari un di Kraftwerk!”: ora, credo che il gruppo tedesco sia stato in classifica non oltre il 1980… a momenti mi affogo dal ridere.
Passiamo da un bar dello stadio all’altro, in questa calda sera d’estate, parlando di figli, football, lavoro, football, birra e ancora football. Passano due ore, forse tre, bevendo con gli  amici che si fermano per una media fresca, come Bob, Zano e tanti altri, disseppellendo con ciascuno qualche specifico ricordo.

Il tempo vola letteralmente e la partita dev’essere finita, perché con gli occhi ormai velati vedo apparire sullo schermo gigante il presidentissimo Giulio Felloni, sempre impeccabile, che premia i vincitori con un trofeo intitolato al povero Angelo Spalluto.
Incontro anche Paltro e mi complimento doverosamente per come è stato organizzato l’evento, soprattutto per aver regalato a noi vecchiardi una serata che difficilmente potrà essere replicata. E’ stanco, e lo aspetta anche la fatica delle sistemazioni post-partita, ma ha quel suo sorriso sornione e soddisfatto, lo stesso di quando segnava un touchdown.
Torno con Lorenzo allo stand delle Aquile nei giardini dell’Acquedotto, dove se ricordiamo bene, c’è un’altra, e già ben rodata, spina di birra fresca. Molti in maglia bianca li troviamo ancora qui, a scambiarsi cazzate e fette di salame alte un dito.
Francamente, a questo punto, dopo almeno una quindicina di bicchieri, i ricordi cominciano a sfumare, ed anche gli sguardi che vedo in giro sono, comprensibilmente, piuttosto appannati.


D’altronde, a ben pensarci, non riuscivo a tenere il ritmo alcoolico di “Ule” nemmeno ventidue anni fa: a ben vedere, in fondo, non è mica cambiato niente d’importante...


Grazie a tutti

Zuck #35

 
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