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Quelli che sognano di giorno sono consapevoli di tante cose che sfuggono a quelli che sognano solo di notte. (Edgar A. Poe)

 

 

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CLARKSDALE, MIS

Post n°697 pubblicato il 06 Ottobre 2013 da sciffo


Every day, every day I have the blues
When you see me worried, baby, because it's you I hate to lose 


Esistono luoghi che si imprimono a fuoco nella nostra anima.

Fascinazioni eterne, che scaturiscono in genere da immagini di abbacinante bellezza scansionate dagli occhi, ma poi filtrate da un'emozione, un momento irripetibile, un singolare stato dello spirito.

Il Sasslongher in un limpido mattino di settembre, ad esempio.
La lingua di sabbia che porta all'Isola dei Gabbiani vista dalla collina, con Spargi e Budelli arrossate dal tramonto, e il mare che sembra diamante liquido.

Uno sguardo e ogni nube della mente svanisce, improvvisamente ti è tutto chiaro, ma proprio tutto. Ed è fatta: ti sei innamorato di quel luogo, e sarà per tutta la vita. E forse anche oltre, chissà.

Ma ci sono anche posti che, da vedere, non hanno niente di speciale.
Magari ci passi solo una volta nella vita.
E senza aspettarti niente di grandioso.
Ma poi succede qualcosa, qualcosa che non puoi vedere, e la fascinazione nasce direttamente nel nocciolo del tuo essere. 

'Cause what you see is not always what you get, bro.

Siamo arrivati a Clarksdale aspettandoci di trovare la solita cittadina americana, sperduta in mezzo ai campi senza fine del Mississippi, un brufolo schiacciato di civiltà ai bordi della solita highway di cemento dritto e grigio, con il serbatoio dell'acquedotto scrostato e la gente che vive in roulotte o baracche di lamiera.

E c'era tutto, cazzo.
Anche il serbatoio degli anni 40 e le tipiche catapecchie del Sud rurale, con il rottame di un'automobile appoggiata sui mattoni nel cortile. 

Non c'è nessuno, in giro, eppure il pittoresco motel consigliato dalla guida risulta al completo, e le telefonate di ricerca del gentilissimo gestore, che vanta antenati piemontesi, non hanno esito positivo.
Troviamo posto solo in un marcio Rodeway Inn da camionisti, senza neanche la solita piscinetta di 5 metri quadri per far rinfrescare i bimbi. Moquette marrone, copriletti marrone, la ragazza nera alla reception che tiene gli occhi bassi, molto bassi, e chiama mia moglie 'Madam', come se avesse appena finito di raccogliere tabacco nella nostra piantagione.

Gli unici ospiti sembriamo essere noi quattro, una coppia di sessantenni rivestiti in pelle con le loro Harley, e una famiglia di messicani con duecento valigie.

Prendiamo la Charger e torniamo verso il paese, col V8 che borbotta, implorandomi inutilmente di schiacciare a tavoletta.
Lentamente, perchè qui è tutto lento, e la lentezza, piano piano, si fa strada nelle sinapsi come una malattia. O come una medicina.
All'unico semaforo, quasi ci perdiamo il minuscolo 'monumento' delle Crossroads (highway 49 e 61), dove Robert Johnson vendette la sua anima al diavolo in cambio di una soprannaturale abilità con la chitarra. A vedere 'sto posto, nel lurido parcheggio di un'area di servizio, ti vien da credere che sia tutto vero. Perchè il diavolo, da queste parti, ci è passato di sicuro, e magari ogni tanto ci ritorna pure.

I binari del treno preannunciano il quartiere dei neri, con le casette dai colori ormai morti da tempo, i bambini bellissimi e gli adulti seduti sui marciapiedi ad aspettare il prossimo assegno di sussidio.
Sono solo pochi blocks, tutti fottutamente uguali, eppure qui sono nati Sam Cooke, John Lee Hooker e Ike Turner. Solo per citarne alcuni. 

Poi c'è la zona dei bianchi, con i prati più curati ma le case ormai perlopiù marcescenti, i pickup d'ordinanza e i cappellini da baseball con il logo Jack Daniel's.
It's The South, come non l'ho trovato da nessun altra parte. 

O forse i nativi li ho solo immaginati, perchè c'era il caldo terrificante del primo pomeriggio, e per la strada solo un nero con la camicia di flanella a scacchi, chiaramente il matto del paese. Sui marciapiedi roventi solo noi e lui, e dopo che ci siamo incrociati almeno tre volte, mi ha fermato e mi ha cantato due pezzi blues in cambio di un dollaro.

Perchè c'è un dettaglio di cui non ho ancora parlato, ed è importante: il blues è nato qui, proprio qui, in mezzo a questo umido nulla.

Infatti la Lonely Planet diceva di visitare il museo del Delta Blues, e noi l'abbiamo fatto, religiosamente. Non so se avete presente un museo di provincia, in Mississippi. Due stanze con la chitarra di Muddy Waters, uno spartito sgualcito e le sue mutande, usate. Un pò di tee-shirt commemorative a $ 9,99. Un custode con il berrettino di Ole Miss e i denti marci come un pontile dimenticato in un'ansa dimenticata lungo il big river.
Qui dicono che Billy Gibbons ha finanziato un ampliamento del museo, c'è pure una sua foto, ma con ogni probabilità in quel momento era ubriaco fradicio.

All'uscita, sono le quattro del pomeriggio, ci aspettano in agguato i maledetti quaranta gradi all'ombra, e ci guardiamo pensando "che cazzo ci stiamo facendo, qui?".
Non è facile trovare una risposta sensata.

Ci avventuriamo per le quattro strade incrociate che dovrebbero disegnare la griglia di downtown.
Negozi chiusi, sbarrati da anni con assi di legno, casette a due piani di mattoni, molte evidentemente abbandonate, un murales gigantesco di Clint Eastwood con il poncho che sembra sibilare "fate molto male a ridere..."

Improvvisamente, mi trovo davanti al cinema, o meglio, a quello che ne resta.
Ho già visto questa immagine in uno dei miei film preferiti,
L'ultimo spettacolo. Lì era il Texas, qui è il Mississippi, ma che cazzo cambia? 
E' sempre un cinema, che ti immagini affollato di ragazzi degli anni 50, che strillano nel vedere sullo schermo formiche giganti o un maniaco che accoltella una bionda sotto la doccia, con le Buick e le Oldsmobile di papà parcheggiate fuori, i popcorn e uno shake al malto, dolce come l'abbraccio di ogni veniale peccato. 
E adesso è vuoto, sbarrato, con le lettere adesive che penzolano come impiccati dall'insegna. 
E' il simbolo di un'America, di un'epoca, che non esistono più, e che non torneranno mai.
Quel cinema mi smuove qualcosa, nel cuore.
Forse comincio a capire che cazzo ci sto facendo, qui. 

Camminiamo ancora un pò e passiamo davanti ad una bottega di barbiere. Dentro un vecchio bianco allampanato con il grembiule, due vetuste poltrone di cuoio rosso e, ovviamente, nessun cliente.
Un impulso improvviso. Entro, e gli chiedo se può tagliarmi i capelli. "Sure, Sir!"
Parliamo del più e del meno, mentre lavora, mi racconta che è un maratoneta (avrà quasi ottant'anni!), tira un fuori un sacco da raccoglitore di cotone per i bimbi e intrattiene pure mia moglie, spiegandole il significato di
redneck, cioè di grezzo contadino del Sud. 
Ma le sue parole non potrebbero descrivere il concetto meglio del suo amico che entra nel negozio. Sulla sessantina, conciato come se avesse appena finito di smontare un trattore impantanato in una palude. Berretto da baseball e una mano priva di quattro dita, con la quale si presenta in allegria, insistendo per stringere anche quelle un pò schifate di Balboa e Barney.
Si siede sulla poltrona libera, ci da la sua versione sul tema
redneck, e dopo dieci secondi parliamo con la confidenza di vecchi amici e mi chiede se la mia signora non ha per caso una sorella. Rispondo di no, e che però, volendo, ha un fratello. Grasse risate e pacche sulle spalle. Potrebbe succedere anche in Italia? Mmhhh... credo proprio di no. 
It's the South: l'ospitalità di questa gente non è solo una leggenda.

Dopo il taglio di capelli usciamo di nuovo nella calura, ma ben presto ci rifugiamo in uno dei pochissimi negozi ancora aperti, dove una ragazzina bionda tenta di vendere, non si sa bene a chi, la sua collezione di abitini ed un pò di chincaglieria assortita.
Quando le diciamo che siamo italiani, quasi cade per terra: "Wow! Non ho mai visto un italiano in vita mia!".
Poi ci tempesta di domande con gli occhi di un bambino al circo, vuole sapere se è vero che in Europa le persone sono tutte magre come noi, se per andare da un posto all'altro di solito si cammina, se in Italia esiste veramente una città sull'acqua chiamata Venice come la spiaggia di LA.
Con sguardo e cuore candido da cucciolo ci racconta che il suo sogno sarebbe viaggiare e vedere il Vecchio Continente e tutte le sue stranezze, ma sa bene che l'attende un futuro ben diverso. Tra pochi mesi si sposerà con un ragazzo del posto, e si intristisce di colpo spiegandoci che il fidanzato già ogni sera torna dal lavoro e passa tutta la serata a bere birra sul divano.
"I'm just a country girl", i sogni spezzati sono il rosso seme del blues. 

Poi è la volta di un gallerista che ci invita a conoscere i suoi gatti. Nel vedere che nel negozio ci sono gli strumenti pronti per un concerto, gli chiediamo quale juke joint ci suggerisce per la serata. 
Pare che nel quartiere nero ce ne sia uno veramente grintoso, forse troppo dato che con noi ci sono i bimbi, e ci invita a provare invece il
Ground Zero Blues Club, il cui proprietario sarebbe nientemeno che Morgan Freeman. Mah... sembra sempre più di essere in un vecchio episodio di Twilight Zone...

Ci incamminiamo verso il locale, che dista si e no duecento metri come tutto il perimetro della città e, dopo una sosta in un incredibile negozio di chitarre, dove Balboa può strimpellare un pò su una Gibson stupenda, ci troviamo in una strada di magazzini abbandonati. In mezzo ad un parcheggio di cemento quasi totalmente sgretolato e deserto, fatto salvo una rugginosa Limo degli anni 80, si erge una sorta di fienile-saloon con un insegna al neon ed un divano scassato sul portico.
Un divano che mi resterà dentro per sempre.

Il Ground Zero, dentro, sembra anch'esso uscito da un film: i biliardi, il bancone enorme con le spine per la birra, i tavoli di legno, il palco per i concerti. Manca solo la rete dia pollaio a protezione dei musicisti.
Prenotiamo un tavolo per la serata, durante la quale, lo dico subito, ascolterò e ballerò con i miei figli il miglior blues che abbia mai sentito (Brandon Santini Band), mangiando pollo fritto e bevendo birra assieme a sconosciuti
redneck di mezza età.

Ma il nocciolo della questione, in fondo, è quel famoso divano.
Perchè è stato stando seduto lì, su quei cuscini sfondati, con la brezza calda del Sud che mi carezzava le gambe, che ho sentito Clarksdale, Mississippi, segnare una tacca profonda ed indelebile nella mia anima. 
Quel piccolo paese in sostanziale rovina, null'altro che disperazione con qualche granello di zucchero, colorato e neppure troppo dolce, come quello di una torta vinta al tirassegno del Luna Park. Eppure, quel luogo e la magia della sua musica, che è lì anche quando non la senti, mi hanno regalato qualche minuto di percezione del tutto, o perlomeno qualcosa che sembrava somigliarvi.
La consapevolezza limpida, eppur calda, di non essere altro che un granello infinitesimale, perso da qualche parte in un Universo senza limite conoscibile. 
Che il vero ed unico segreto è che non c'è nessun cazzo di segreto.
Che siamo noi e il nulla, e dobbiamo salvarci a soli, anche se sappiamo che in fondo è impossibile e che comunque non servirà a niente.

Ma anche che su quel divano, con la tua famiglia attorno, ci sei tu a
sentire che se davvero fossimo polvere, come potremmo provare tutto questo amore per loro, ed assieme il dolore di esser niente?

E questo è il blues, bellezza.
E' di questo che parla.

Se è nato qui, un motivo c'è, puoi scommetterci.

La mattina dopo, la possente prua della Dodge che fa rotta verso il Bayou, la pancia piena di uova e bacon, sintonizzo per caso la radio su una stazione locale che trasmette, senza pubblicità, alcuni pezzi che non ho mai sentito, ma che mi scavano dentro.
Non ho mai ascoltato, giuro, una selezione pià bella e struggente in vita mia.
E' Clarksdale che ci saluta, e infatti, dopo trenta miglia, il segnale si fa sempre più debole, e per quanto provi a cercarlo, si dissolve per sempre sulla striscia di asfalto nello specchietto retrovisore.
 

 
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