Creato da sciffo il 27/09/2005

noeasywayout

Quelli che sognano di giorno sono consapevoli di tante cose che sfuggono a quelli che sognano solo di notte. (Edgar A. Poe)

 

 

VIVO QUANDO IL TEMPO MUORE

Post n°691 pubblicato il 04 Novembre 2012 da sciffo


Home
Home again
I like to be here
When I can 


Di recente ho passato una giornata molto bella.
Il che non dovrebbe costituire un fatto poi così straordinario, ma lo è, e non credo solo per me.
Per meglio dire, non e' stata propriamente una "giornata", ma comunque una successione di piacevoli istanti molto vicini nel tempo. 

Il tempo.

In realtà, quei momenti così belli, così intensi e veri, sono risultati tali proprio perchè avulsi dal tempo stesso, nell'occasione ridotto a dimensione dimenticata.
Finestre aperte su un cielo limpido, in cui nessun impegno o appuntamento o preoccupazione bussava alle porte dell'anima.
Qualche volta succede.

In quei momenti, così rari da sembrare magici, mi sono sentito semplicemente vivo.
Non vivo, cioè, per assolvere a qualche compito. Vivo e basta.
E, più in generale, ho avvertito la Vita, quella del mondo, manifestarsi con il suo ronzìo tutto intorno.

Perchè la Vita è sempre lì, solo che noi quasi mai la guardiamo, anche se potremmo vederla; mica si nasconde, anzi. 

C'è, mi pare, un rapporto tra i momenti di consapevolezza - chiamiamoli così - e le età della nostra esistenza.
Se ripenso al passato, rivedo piuttosto distintamente alcuni di essi.
In particolare mi capitavano, per così dire, in un periodo che risale alla mia adolescenza.
 
Una domenica pomeriggio d'estate, in cui gli amici erano al mare ed io ero solo proprio come il personaggio di Azzurro.
Pedalavo con una vecchia bici da corsa di mio padre, appena fuori dalle Mura, senza meta e senza progetti, la città deserta e silenziosa.
Il cervello non era spento, solo sintonizzato su quel ronzìo di fondo, simile alla vibrazione di un diapason universale.
Ad esempio.

In quei momenti, tutte le tensioni, le volontà e le emozioni umane erano remote, inudibili. 
Ed anche del tutto insignificanti.
La civiltà e il tempo scorrevano veloci da qualche parte, ma inutili, e ben lontano da me. 

Poi, crescendo, con l'aumentare esponenziale degli impegni, questi momenti si sono rarefatti, fino a scomparire del tutto.
Probabilmente perchè mi ero tuffato nella corrente, come tutti o quasi, nuotando con forza, tanto che ogni energia era concentrata nel fendere le onde. 

Adesso, che non sono vecchio ma sto comunque iniziando ad invecchiare, giurerei che queste finestre di consapevolezza stanno progressivamente tornando. 
 
Qualche giorno fa, in una giornata radiosa, con la campagna letteralmente ribollente di vita vegetale per il precedente periodo di piogge, ho fatto una delle consuete passeggiate con Wally.
L'erba tagliata di fresco che si scaldava al sole, il fico enorme cresciuto tra le rovine di un fienile che sembrava sorridere sotto un cielo perfetto, il fumo leggero che si alzava lentamente dalle zolle arate.
Queste "cose", cioè la Vita, sono sempre lì, non c'erano solo in quegli istanti.
Ma di solito gli passiamo accanto di corsa, concentrati sulla finzione tragica dell'esistenza umana.

Sara' che, anche se un pò mi ruga ammetterlo, sto iniziando a rallentare.
Il fiume del tempo scorre già un pelo troppo veloce per me, non riesco più a nuotare con la necessaria foga.
Me ne accorgo da tante piccole cose, fatico ad apprezzare nuovi film, libri, musica. Quelli vecchi mi sembrano spesso migliori, ma so bene che non è così.
E' che sento la fatica di tutte quelle bracciate.
Guardo i miei figli, nativi digitali, e vedo che imparano a una velocità che non potrò mai uguagliare.
Non è solo una questione di disco fisso ormai saturo, anche il processore inizia a scivolare lentamente verso l'obsolescenza, per non parlare poi dei virus micidiali che si sono accumulati negli anni. 
 
Ma non è poi così male, se tirar fuori la testa dalla corrente mi consente di tornare a guardare ciò che ho attorno.
Non è male affatto, anzi, mi piace.

 
 
 

SIATE BUONI SE POTETE

Post n°690 pubblicato il 18 Ottobre 2012 da sciffo



E tramonta questo giorno in arancione
e si gonfia di ricordi che non sai
mi piace restar qui sullo stradone
impolverato, se vuoi andare, vai


Quando eravamo piccoli, e i nostri genitori o nonni temevano che il nostro istinto entropico potesse avere la meglio, la raccomandazione tipica era "stai buono/a, eh!?".

Anche a scuola, se la maestra usciva dall'aula per qualche minuto, il capoclasse era tenuto a scrivere sulla lavagna, opportunamente divisa in due opposte e identiche sezioni, i nomi dei "buoni" e dei "cattivi".

Poi, in qualche indefinito momento della teenage wasteland, ecco che il termine "buono" cadeva in totale disuso, sostituito da altri aggettivi qualitativi e qualificanti del comportamento sociale ottimale: "responsabile", "adulto", "furbo".

Secondo il comune buonsenso, insomma, fino allo spartiacque dell'adolescenza dobbiamo cercare di essere buoni, ma poi, una volta raggiunta la diga, dobbiamo cercare di essere "furbi".

In seguito, si presenta il secondo passaggio fondamentale in questa varianza valoriale, che coincide quasi sempre con l'ingresso nel mondo del lavoro, quando cioè nel tessuto sociale il "ragazzo-bruco" si trasforma finalmente in "adulto-farfalla".
Finalmente un cazzo, dico io, ma tant'è.

In coincidenza di questo nuovo step, ecco che il termine "buono" acquisisce un significato tutto nuovo, diventa cioè sinonimo di "coglione".

La farfalla non può mostrarsi buona, perchè nel farlo si renderebbe vulnerabile verso il mondo esterno, e le altre farfalle, sue concorrenti verso il traguardo della vita prospera e felice, le salterebbero addosso strappandole le ali senza alcuna pietà.
Ciò non significa che il giovane adulto non possa essere, di fatto, di animo buono, ma soltanto che questa sua bontà dovrà essere celata, rinnegata, ed infine dimenticata, meglio se per sempre.
Ne va della sua sopravvivenza, mors tua vita mea.

Solo molto più avanti nella vita, con la vecchaia, quando la gara per la vita sarà ormai conclusa, con l'ordine di arrivo convalidato dai giudici, si potrà - se le frustrazioni nel processo non ci avranno distrutto - tornare a dimostrarsi "buoni".
Ma forse, e ciò va ben considerato, sarà troppo tardi. 

Personalmente, non credo di rappresentare un'eccezione a queste regole sociali.
Anch'io sono stato educato, dall'adolescenza in poi, ad essere "furbo" (con scarsi risultati, direbbe qualcuno).
Anch'io, nella vita lavorativa e non solo, ho avuto davanti agli occhi esempi ed insegnamenti di "furbizia" vincente: coprirsi sempre il culo, essere forte coi deboli e debole coi forti, non fidarsi di nessuno, cercare di approfittare di ogni occasione, negare anche di fronte all'evidenza, ecc. ecc.
Chi possiede queste abilità è un "figo", no?

Anch'io, per un periodo più o meno lungo, ho creduto di essere (relativamente) "furbo" e "figo".
E questo a dispetto di una discreta bontà potenziale, un seme impiantato dai miei nonni nel terreno fertile della mia infanzia. 

Ho capito di essere in errore, cioè diverso dall'immagine che cercavo e pensavo di proiettare sullo schermo, una decina di anni fa, in un'occasione ben precisa, il capodanno del 2000, nel giardino di casa dei miei zii, a Dubai.
E cioè proprio nel momento della mia vita in cui crevedo di essere (relativamente) più furbo e figo che mai.

C'è un antefatto, che non conta, ma che portò mia cugina, che mi conosce bene, a dirmi una frase confidenziale che terminava con: "...perchè tu sei BUONO, forse troppo". 

La storia non prosegue con una professione di apostolato, come se fossi stato fulminato sulla via di Damasco (anche se, per coincidenza, allora ero geograficamente molto vicino).
Ma solo con una progressiva presa di coscenza: nonostante tutti i condizionamenti e la merda che è piovuta e mi pioverà addosso, io sono "buono".

Mi si creda, si sta meglio ad essere buoni che ad essere furbi, e non significa automaticamente essere coglioni.
Non è che io non me ne accorga quando qualcuno sta cercando di fottermi, è solo che scelgo, a volte, quando non ne vale davvero la pena, di lasciar perdere.
Magari facendo capire che io so che lui sa... e poi perdonando.

Ecco, forse è proprio il perdono, il tessuto della bontà.
Un perdono laico, non dogmatico ma sincero, beninteso.
Io non sono un permaloso, e non ho la memoria di un elefante.
Mi ritengo invece un uomo molto fortunato, proprio perchè ho una predisposizione al perdono, cosa che per altri vedo essere molto difficoltosa.

E per questo, un giorno, spero di essere ricordato dai miei figli come un uomo nè furbo nè coglione, ma buono. 

Non è così male, e non è una cosa da baciapile come sembra, perchè quasi mai mi costa fatica.
Val la pena tentare.

 
 
 

I COLLI SOPRA CESENA

Post n°689 pubblicato il 08 Ottobre 2012 da sciffo

And you run and you run
To catch up for the sky
But it's sinking 

Lo scorso weekend, dopo averlo già rimandato diverse volte, doveva essere quello buono per il giro annuale in moto con i ragazzi.

Ma non lo è stato, perchè ancora una volta ci siamo fatti prendere la mano dai tanti piccoli grandi impegni della nostra scomoda condizione di quasi cinquantenni. 
Che mi fa schifo anche scriverlo o leggerlo, ma è vero. 

Anch'io, lo ammetto, quando ho saputo che qualcuno era impegnato, e che il giro sarebbe saltato di nuovo, ho provato nel retrocervello un minimo di sollievo, cosa che, a posteriori, considero un tipico sintomo prodromico di testacazzite/alzheimer.
Altrimenti, se fossimo partiti, avrei dovuto organizzarmi, coinvolgere nonni, annullare importantissimi (!) impegni...

Così me la sono messa via, e fanculo. 

Poi è successo che ieri, con socio e relative families, siamo andati a fare un pranzetto in collina, appena fuori da Cesena.

La giornata era fantastica (così come quella di sabato), con un sole ottobrino che dipingeva i colli di un verde che nessun pittore sarà mai in grado di eguagliare, nè poeta di descrivere.

Percorrendo una strada asfaltata men che secondaria, in mezzo a vigneti ed ulivi, siamo arrivati, abbagliati da tanto splendore, in questo minuscolo paesino, sormontato da una torre medievale da cui lo sguardo può spaziare per tutta la valle del Savio.

Una strada perfetta per un giro in moto con gli amici.

Per qualche ora, dopo, ho pensato che, in effetti, abbiamo quasi cinquantanni, e non so quanti altri weekend in moto ci potremo permettere di sprecare.

E' il caso di rifletterci, amici miei.

 
 
 

IRONDELTA 2012

Post n°688 pubblicato il 25 Settembre 2012 da sciffo

Partiamo dal bilancio a consuntivo: un week end bello e parecchio impegnativo.

La nostra società di triathlon organizza ogni anno - e secondo me anche molto bene - il cosidetto Irondelta, un pacchetto di gare racchiuso in un fine settimana e che trova il suo culmine la domenica in una prova su distanza olimpica.

Quest'anno erano previsti anche una gara sprint, il sabato, e una serie di competizioni per bimbi e ragazzi la domenica mattina.
Insomma, c'era parecchio da fare, tant'è vero che anche noi "atleti" siamo stati precettati per dare una mano all'organizzazione, alternandoci tra gare ed assistenza nei due giorni.


Chi mi conosce sa che, dopo due anni lontano da competizioni ed allenamenti nella triplice, avevo deciso qualche mese fa di fare una piccola rentrèe partecipando all'olimpico.
Il sabato, dunque, ero di servizio motorizzato con il fido Mòster (cioè Monster acquistato a Lugo) per seguire la frazione ciclistica e per la gestione della zona cambio. 

Mi sono divertito!
Innanzitutto la giornata era bellissima: sole, fresco, mare piattissimo e brillante.
Poi sono stato in compagnia di quei ciuciabecche dei miei compagni di squadra, con tutta la giornata a disposizione per insultarne qualcuno, e per fare il tifo per gli altri, e me la sono passata.
Last but not least ha esordito il mio compare Ignazio, che qualche mese fa ho portato subdolamente on the road to perdition, ed ho potuto seguire quello che combinava e dargli qualche consiglio sbagliato.
La sera, tornato a casa, ero stanco come se avessi gareggiato.

Domenica, race day, il meteo era meno gradevole, con una pesante coltre di nuvole di merda e il tradizionale vento di borino.
Parto da casa in solitaria e con calma - lo start è previsto alle 13.20 - dopo una meticolosa preparazione di tutto il materiale, a cui non ero più abituato.
All'arrivo saluto qualcuno, guardo un pò le gare dei bimbi (davvero bellissimi) ed è già tempo di prepararsi.
All'ingresso in zona cambio ritrovo diverse persone che conosco e la Magda che mi pennarella il numero su braccio e gamba - con tanto di doppio cuore di buon augurio! 

Prima della partenza, sulla spiaggia, sono con gli altri moschettieri classe 1966 del club: spariamo un bel pò di cagate, e intanto il cielo sembra aprirsi ad un timido sole.

Nei miei piani c'è una frazione a nuoto a tutta, dato che in Sardegna mi sono allenato tutti i giorni e, con aggiunta di muta, non faccio un cazzo di fatica.
I piani però saltano subito: è una tonnara di quelle incazzate, per almeno 3-400 metri è lotta greco-romana, in più c'è una corrente fottuta e devo continuamente correggere la linea.
Mentre prendo un coppino che quasi mi fa volar via gli occhialini, sento la solita vocina "ma chi cazzo te lo fa fare? ma vai a casa, stronzo!"; la conosco bene, è quasi una vecchia amica, e come al solito non la cago.
Il percorso di nuoto è una vera merda: visibilità subacquea zero assoluto, gente che se ne va a zonzo a zig zag e la ciliegina finale degli ultimi 150 metri con profondità di 60 cm che ci costringono a correre con l'acqua alle cosce.
Anzi, la vera ciliegina sono gli altri 300 metri per arrivare alla bici, ma almeno questo già lo sapevo.
Non so quanto ci ho messo, come da tradizione ho dimenticato di far partire il cronometro, ma di sicuro non è andata come speravo.

In bici riesco a riunire quasi subito un gruppetto, che potrebbe diventare un rilassante gruppone e portarci tutti in carrozza a 40 all'ora fino alla fine.
Senonchè, come noto, i triathleti in bicicletta proprio non ci sanno andare.
Cambi sbagliati, coglionazzi che strappano come dannati per poi trovarsi da soli a guardare indietro (ma poi mica che la capiscano, eh...), altri che perdono contatto con quello davanti senza motivo e poi non ricuciono.
In pratica, mi trovo almeno in tre-quattro gruppi diversi, costretto spesso a tirare o a cucire, e per 30 km faccio una fatica schifosa.
Ad un certo punto, addirittura, proprio mentre sto buttando giù una bustina di gel, l'idiota davanti senza motivo rallenta e perde la ruota, costringendomi a ingollare in un istante l'immonda poltiglia ai frutti rossi (a me pareva però succo di alluci), ustionandomi orrendamente le papille, mentre sbanfo come un mulo da miniera per ribeccare quelli davanti.
Solo negli ultimi 10 km ci assestiamo e riusciamo a finire senza forzare.
 
Al cambio comunque mi sento bene.
Inizio a correre i quattro (!) giri e vedo la family che fa il tifo, scattandomi delle foto come se stessi vincendo. Bello, però.
Visto che il percorso va avanti e indietro, in due corsie appaiate, incontro tutti i ragazzi della squadra e vari conoscenti, e ci scambiamo saluti e baci con la lingua.
Tutto sommato non ho cali, vado per la mia strada e concludo senza particolari problemi.
L'unica cosa di cui sono cosciente è di essere stato sotto le 2h e 30' (sarà poi 2h e 23'), e mi va benissimo così.
Adesso voglio solo una birra media, e il più presto possibile.

Analizzando a freddo come sono arrivato all'Irondelta, credo ci siano degli spunti interessanti. 
Innanzi tutto, dopo due anni senza allenarmi in nessuna delle tre specialità, ho iniziato la preparazione solo il primo luglio scorso.
Aggiungo che non ho mai effettuato dei "lunghi", anzi, limitando le distanze max a 2 km a nuoto, 50 in bici e 10 di corsa.
Le ore di allenamento settimanali sono state tra le 5 e le 8, mai di più.
Non ho mai svolto una sola seduta quantitativa o di scarico, ma sempre lavori (moderatamente) qualitativi, anche in bici. 
Sono arrivato in gara fresco e riposato, e questo ha fatto un bel pò di differenza.
Un'ulteriore prova che la preparazione è stata corretta, è che dopo la gara (oggi è martedì) non ho avuto nessun dolore da fatica alle gambe. Credo che questo sia merito delle corse collinari che ho fatto durante i dieci giorni in Sardegna.
Unico appunto negativo, ho pagato nel nuoto la disabitudine alla tonnara, come ho già detto, ma quella si può allenare solo gareggiando.
 
E adesso?
Adesso letargo!
Ho già ricominciato il mio corso in palestra per ragazzi ed i miei allenamenti di judo, dato che nel 2013 avrò tutti i requisiti richiesti e farò il corso federale per cinture nere.
Ieri mi ha chiamato MV per convocarmi ad una gare di sprint a squadre, ma spero quella domenica di essere in giro in moto con i ragazzi.

Comunque del triathlon sono sempre innamorato, e non credo che finirà qui... 

 
 
 

UNA PICCOLA PERFECT SEASON

Post n°687 pubblicato il 19 Settembre 2012 da sciffo

As the battle raged higher
In the fear and alarm
You did not desert me
My brothers in arms 

Nel giugno 1983, l'estate dei miei diciassette anni, un giorno io e il compare P incontrammo in centro alcuni amici, reduci dalla stagione appena conclusa con le Aquile della serie A di football.

In quell'ambito, per inciso, avevo ancora una grossa ferita aperta.
Alcuni mesi prima, alle soglie del campionato, dopo due anni di giovanile ed un intero inverno di allenamenti nel gelo e nella nebbia con la prima squadra, ero stato 'tagliato' dal roster di quest'ultima per mano dell'allenatore Schneider.
Ancora oggi ho stampato nella memoria quella sera al Motovelodromo, quando l'enorme sergente maggiore dei marines, il cui cranio pelato occultava malamente le ferite riportate in Vietnam, sembrò accorgersi per la prima volta della mia presenza, mi chiamò in disparte, e lì mi congedò con poche stentate parole, senza nemmeno darmi una vera spiegazione.
Probabilmente i miei 70 kg scarsi di allora erano troppo pochi, e poi, lo ammetto, non facevo ancora presagire alcun particolare talento. 

Comunque sia, gli amici che incontrai stavano cercando di organizzare una squadra giovanile che avrebbe partecipato, in autunno, al primissimo campionato italiano under 20.
Naturalmente ero invitato a prendere parte agli allenamenti.

Quel che seguì, per me, fu un periodo favoloso.
In luglio fui mandato a Malta per una vacanza studio, con l'amico di mille avventure Bonz, e ne combinammo di tutti i colori.
In agosto, con uno sfiancante lavoro al corpo, riuscii a convincere i miei a lasciami da solo a casa per tutto il mese mentre loro erano al mare, e penso di non essere mai andato a dormire prima delle tre di mattina, spesso addirittura all'alba, ed era tutta roba nuova per me.
Nel frattempo, in questa sorta di lunghissimo spring break, erano pure iniziati gli allenamenti della nascente under 20.

Fu come vivere in una versione italiana ed anni 80 di Happy Days.
Di giorno (e di notte) stavamo in giro o di fronte al bar a sparare cazzate, e poi, 3-4 pomeriggi a settimana, buona parte del gruppo di Piazzetta Corelli si spostava al Motovelodromo, dove avrebbe costituito l'ossatura principale della squadra dei Duchi, ma sempre continuando a ridere ed a sparar cazzate.

E mentre quell'estate indimenticabile, sulle note di I like ChopinTropicana, scivolava dolcemente verso l'autunno (del mio ultimo e meraviglioso anno di liceo, peraltro), noi continuavamo bellamente a pestarci a vicenda sul campo, ad orchestrare scherzi pesantissimi negli spogliatoi, per poi andare a sbronzarci di birra e panini con la salsa di funghi da qualche parte.
Eccetto per il fatto che eravamo vivi - e parecchio, direi - il tutto somigliava molto ad un incruento (beh, quasi) Valhalla per diciottenni.

Finchè, in ottobre, venne il giorno della prima partita.  
Redskins Verona, in casa, al Velodromo. 
Ricordo che, poche ore prima del primo vero kickoff della mia vita, eravamo sul campo con Goro, il coach della difesa, che scriveva su un cartello la lista dei titolari.
Sotto la posizione di OLB sinistro fu segnato il mio cognome, cosa di cui fino ad allora non ero affatto certo, e mi sembrò di salire un gradino verso il Paradiso. 

Della partita ricordo poco o niente, in realtà, se non la meraviglia di scoprire che, oltre a sputarci a vicenda nei caschi, un pò sapevamo anche giocare.
E addirittura a vincere, e chi se l'aspettava?

Seconda partita: Rams a Milano e in notturna, o perlomeno la ricordo nel buio.
Era una squadra famosa per il gioco duro, le risse e gli insulti, e ce l'avevano in particolare con noi perchè, un paio d'anni prima, una partita tra le rispettive squadre maggiori era addirittura stata sospesa e poi annullata per una scazzottata totale, roba alla Bud Spencer.
Il copione infatti venne rispettato, più che football fu mud wrestling, ma alla fine vincemmo per 8 a 6, e feci pure il primo intercetto della carriera.

Il ritorno della prima trasferta ufficiale dei Duchi, in pullman, per i nostri dirigenti ed accompagnatori adulti dev'essere stato un film del terrore.
Uno di quelli che fanno paura davvero.
E penso lo sia stato anche per i poveri dipendenti e clienti di un paio di Autogrill.
Là dietro, nelle ultime file di sedili, facevamo girare di tutto, e se qualche rookie veniva convocato presso il nostro cosidetto "tribunale", le condanne non erano mai troppo lievi, diciamo così. 

Del prosieguo del campionato mi resta in mente poco, qualche altra partita su campi fangosi o duri  e abrasivi come il cemento, con gioco aereo quasi inesistente e tante mischie gigantesche, pochissima erba e il gesso delle linee gettato a manate sulla terra nuda.

Forse l'unico ricordo nitido è nella partita di ritorno con i Rams, a Ferrara: un tight end magrissimo che a gioco fermo mi scarica sulle braccia una raffica di pugnetti, solo per poi venire reso inoffensivo con un harai goshi da manuale, e pure penalizzato di 15 yards dall'arbitro.

Quel che conta, comunque, è che quel nostro mucchio selvaggio di allegri coglioncelli continuava a vincere sempre, e nel giro di un paio di mesi, in una fredda domenica di inizio inverno, venne il momento di giocarsi la finale, e, cazzo, eravamo proprio imbattuti.

Si giocò nel nostro Motovelodromo, contro i Cobra di Torino.
Sugli spalti c'erano i nostri genitori, le morose, i giocatori di prima squadra, i compagni di scuola, gli amici e gli amici degli amici, e siccome noi eravamo quasi cinquanta, era davvero un sacco di gente.
Venimmo presentati al pubblico uno per uno, e fu solo allora, forse, che ci rendemmo conto che non era solo un altro dei nostri scherzi, che eravamo davvero una squadra di football e, finalmente, ci emozionammo un pò.

Esiste una registrazione video di quella partita, sia pure di qualità pessima, di cui molti di noi hanno una copia.
Ebbene, sono sicuro di non essere l'unico a provare sensazioni ancora non del tutto sepolte, rivedendo la presentazione dei giocatori in quel vecchio VHS.

L'inizio della partita fu difficile.
I Cobra erano una selezione dei migliori under 20 di tutte le squadre di Torino, una grande città dove era possibile scegliere tra molti ragazzi fisicamente prestanti, e infatti erano tutti monumentali. 
Una differenza di kg e cm che nel video, per quanto rovinato dal tempo e ripreso da lontano, si vede chiaramente.

Come ho detto, per la prima volta ci eravamo emozionati, e nel loro primo drive offensivo, tutto basato su corse di potenza, i piemontesi sembravano inarrestabili.
Dopo aver percorso lentamente ma inesorabilmente tutto il campo, come un rullo compressore, segnarono.
Per qualche minuto sembrava che la favola fosse finita.

Ma invece, quando fu il turno del nostro attacco, i giganti dei Cobra non si dimostrarono così indistruttibili, e dopo un pò toccò a loro subire un touchdown.
Eravamo ancora in corsa, la partita non era persa, e iniziammo anche in difesa a tirar fuori i maroni sul serio. 

Nella mia testa bacata, a questo punto, mi immagino di aver vissuto una scena come quella di Remember the Titans, in cui il coach della difesa - in questo caso ovviamente con la faccia di Goro - chiama un timeout e ci fa il discorsetto (rigorosamente in inglese): "Okay, I don't want them to gain another yard! You blitz ALL night! If they cross the line of scrimmage I will take you all out! MAKE SURE THEY'LL REMEMBER FOREVER THE NIGHT THEY PLAYED THE TITANS! (vabbè, i Duchi)".
Ok, sarò un idiota, ma sono così, prendere o lasciare. 

Comunque sia andata, porca troia, questo è proprio quello che poi è successo: di recente sono tornato in contatto tramite con alcuni ex dei Cobra, e posso assicurare che il giorno in cui incontrarono i Duchi se lo ricordano ancora molto bene, eccome.

Il famoso video nel secondo tempo diventa scuro e opaco, perchè sul campo calarono il buio e la tipica nebbia ferrarese, e francamente anche i miei ricordi di gioco diventano sfocati, solo un mucchio di botte, di fango e di fatica.
Una battaglia di fanteria, una di quelle dove vince chi più vuole vincere, non chi è più forte.

E quando l'arbitro fischiò la fine, i Cobra li avevamo privati del veleno e rimessi buoni buoni nel loro cesto a dormire.
20 a 13, e quello fu vero old-style-playing-for-pizza football, se capisci cosa intendo. 

In fondo loro erano sì grandi e grossi, e pure bravi, ma era solo una selezione di giocatori presi da squadre diverse, dove (forse) sotto sotto si celavano rivalità, piccole invidie, qualche ruggine. 
E questo fece la differenza.
Perchè noi, invece, eravamo una squadra vera. 

Cazzo, lo siamo ancora oggi che son passati quasi 30 anni.
I ragazzi sanno di cosa parlo.

 
 
 

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