The King is gone
but he's not forgotten
...
Hey, hey, my my
La notte del 22 giugno, nel catino del Circo Massimo, dopo duemila anni dalle corse delle bighe, è tornata a passare la storia, ma quella del rock, e noi c'eravamo.
Lo scenario era a dir poco maestoso, con la luce calda del tramonto romano che arrossava le maestose rovine dei Fori, e più in là la statua del Vittoriale, più alta di tutto e tutti, che ci dava le spalle, divertita dagli strani riti degli uomini.
E’ stata una prova impegnativa, accompagnato da tutta la famiglia, il sole ed il caldo, la lunghissima attesa che sembrava non potesse mai finire.
Sei ore sulla sponda di prato in forte pendenza, la stessa un tempo calpestata dai sandali di patrizi e plebei che assistevano alle corse, e noi puoi non ripensare al ghigno triste di Charlton Heston/Ben Hur.
Il tempo che non passa mai, specie quando i tuoi figli ti chiedono che ore sono ogni tre minuti.
E intanto il palco è là davanti, immoto e nero come un astronave misteriosa, davanti ad una folla che si ingrossa ogni minuto. Mi chiedo come possono resistere là sotto nel catino, tutti col culo per terra sulla ghiaia, sotto un sole implacabile. Ma è sofferenza cercata, con uno scopo e comune a tutti, e avvicina gli spiriti.
Alle otto in punto il sollievo infine arriva. Sale sul palco John Meyer e noi, finalmente, possiamo gioire per la meta ormai vicina, e sgranchire ballucchiando le gambe anchilosate. Il ragazzo del Connecticut è un guitar hero, un talento che seguo non da ieri, ed ora le lancette si muovono più rapide.
Ma sulle ripe erbose, dopo qualche pezzo, la plebe torna a sedersi.
Le teste continuano ad ondeggiare a ritmo, ma si chiacchiera, si sbadiglia, si fotografa coi telefonini. John produce musica di grande qualità, ma stasera stranamente suona a vuoto, poco più di un sottofondo da ascensore.
Perchè onore agli eroi, sempre, ma dentro il Circo tutti sanno che questa notte appartiene solo agli antichi dèi.
Quante generazioni stanno là nell’anello imperiale: vedo padri, figli, nipoti.
Di anzianotti ce ne sono, ma nemmeno tanti, in un raggio di dieci metri forse il più vecchio sono io. E mentre fingo di dormire ascolto compiaciuto un gruppo di ventenni dissertare di musica, e non dicono mica cazzate. Ne sanno e ne capiscono, ciò che siamo verrà tramandato.
Davvero qui nessuno può definirsi vecchio, non stanotte.
E' l'esercito del rock and roll, fanteria di veterani segnati dalla vita e novellini ansiosi di conquistarsi cicatrici di battaglia; non ci conosciamo, ma combattiamo ogni giorno la stessa guerra.
Mentre ascolto sorridendo sotto i baffi quei ragazzi, mi chiedo quale imprinting può restare nella mente e nell'anima dei miei figli, nel vedere un simile spettacolo.
John finisce, saluta e ringrazia come da rituale, e si spengono le luci.
La folla freme, adesso nessuno riesce più a rimanere seduto, vedo sorrisi estatici ovunque, come fossimo a Fatima. l’attesa che è a fusione nucleare.
E poi the Bigger Bang, o Band, arriva.
Ho quasi cinquant’anni, porca puttana, qualche concerto l'ho visto, un pò di musica l'ho ascoltata, ma non avevo mai visto gli Stones, e loro sono di un'altra.
Come il Boss. Forse gli U2. Nessun altro, tra quelli ancora in attività.
Inizia lo show e tutti impazziscono.
Jumpin’ Jack Flash a 120.000 watt, mica pugnette.
Cosa può passare nella testa di gente come Mick, Ronnie, Keith e Charlie. Beh, in quella di Charlie niente, probabilmente.
Li osservo, cerco di capirne la magia.
Jagger live che intona Simpathy for the Devil, vestito di rosso fiammante, e capisci subito che la vecchia liaison tra lui e Lucifero non è un luogo comune, è tutto vero, cazzo.
Wood sorride sempre e suona come un ragazzino, godendosi apparentemente ogni singola nota, in fondo è un miracolato. Sembra il più simpatico dei quattro ed è magro come un chiodo, lo sono tutti del resto.
Richards con la perenne paglia sulle labbra, come il suo antesignano portoghese Yanez de Gomera. Suona tenendo la chitarra quasi verticale, sembra a tratti un pò distante, per poi esaltarsi nei suoi assoli privati, quelli che verranno tramandati, anche loro, nei secoli a venire. Lo guardi e non puoi non pensare a quanti palchi - e paglie, e bottiglie, e supergnocche - ci sono stati nella sua vita.
Watts è uno spettacolo: una vecchia tartaruga impassibile, l'espressione marmorea di un ex pugile assillato dal Parkinson. Eppure, questo vecchietto più simile ad un pensionato del catasto che ad una rockstar, tiene ancora su la ritmica del più grande gruppo del mondo. E quindi possiamo tutti fargli solo delle seghe, e a due mani possibilmente.
Ma, più di tutto, sto pensando a quanto adoro quei loro pezzi nei quali echeggiano più evidenti gli accordi immortali tramandati nel loro Dna da Chuck Berry e Buddy Holly, quelli che hanno partorito la musica degli Stones come Kronos e Rea partorirono Zeus.
Rivedo per un attimo quei ragazzini inglesi in una soffitta umida, ascoltare fino a consumarlo un 45 giri dai solchi gracchianti, in trance davanti al suono proveniente dalla vulva della musica, quella linea umida e fertile tra Chicago e New Orleans, là dove è nato più o meno tutto quello che ascoltiamo ancora oggi. Salvo Gigi D'Alessio, magari.
E ripensi al viaggio infinito di quei ragazzini troppo magri, figli della guerra, che li ha portati oltre le generazioni, i confini delle nazioni, le tendenze, persino oltre la musica. Gli Stones sono la nostra memoria, lo spirito di un secolo maledetto ma nostro, il ventesimo. Sono la dimostrazione che con tutte le nostre cazzate da occidentali viziati, viziosi e corrotti, senza più Dio né vera legge, oltre a tutta quella merda e quel sangue, qualcosa di buono l’abbiamo pure fatto, cazzo, e lo possiamo fare ancora.
E si, saranno pure il passato.
Le ultime vestigia di un’Era leggendaria, così come le rovine romane che ci accolgono stanotte.
Ma anche un radiofaro che ci segnala la rotta da seguire nel futuro. Perché la memoria è per sua natura selettiva, e lungimirante. E la nostra, se per un attimo taci e ascolti attentamente, ha il suono di una Les Paul Supreme, le cui corde sudate piangono piano, in un honky tonk sul Mississipi.
E capisci infine che gli Stones sono un viaggio che non si ripeterà mai più, sublimazione di quello di tutti noi, e che tu, almeno per una volta, prima che sia troppo tardi, hai cantato Gimme Shelter sotto la loro stessa Luna.
E' stato bello, anzi bellissimo.
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il 10/08/2018 alle 11:01
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il 10/08/2018 alle 11:00
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