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AREA PERSONALE
Il sogno
Se il sonno fosse (c'è chi dice) una
tregua, un puro riposo della mente,
perché, se ti si desta bruscamente,
senti che t'han rubato una fortuna?
Perché è triste levarsi presto? L'ora
ci deruba d'un dono inconcepibile,
intimo al punto da esser traducibile
solo in sopore, che la veglia dora
di sogni, forse pallidi riflessi
interrotti dei tesori dell'ombra,
d'un mondo intemporale, senza nome,
che il giorno deforma nei suoi specchi.
Chi sarai questa notte nell'oscuro
sonno, dall'altra parte del tuo muro?
JORGE LUIS BORGES
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Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell'altro,
e dirà: Siedi qui, Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io:
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d'amore,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti: E' festa: la tua vita è in tavola.
Di Derek Walcott Citato nel Film "La Febbre"
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Post n°141 pubblicato il 11 Maggio 2011 da nottelunas
"Il RICCIO" di Mona Achade (Francia, 2009)
Recensione di Rossella Valdrè "Risposi che le persone colte non leggono libri, Winnicott diceva che, per certe persone, "...e' fondamentale nascondersi, ma e' terribile non essere scoperti". Sembra proprio il cuore della vicenda di Renée, la portinaia protagonista de Il riccio, piccolo film francese dell'esordiente Mona Achade. L'autrice del romanzo da cui il film e' tratto, Muriel Barbery, pare si sia irritata perche' il film non resta fedele al libro: per fortuna, a mio parere. Questo e' uno di quei rari casi in cui un film ispirato ad un romanzo e' migliore del romanzo stesso (o comunque, e' un'altra cosa): piu' intenso, piu' vero, piu' dolente, piu' essenziale. Tolta la patina dell'eleganza, quello che resta e' il riccio, il nascondimento. Occupiamoci pertanto solo del film. Siamo a Parigi, nell'elegante palazzo dove risiedono cinque ricche famiglie dell'alta borghesia; all'ingresso, il piccolo appartamento di Renée, la storica portinaia, brutta e grassoccia, dai modi ispidi come un riccio, che fa il suo lavoro in modo diligente, lo sguardo cupo, vedova da tanti anni del marito portinaio, sola. A tutti occorre rivolgersi a lei, e' comunque una figura essenziale nella vita del piccolo esigente palazzo. Nessuno, in fondo, la conosce davvero. Nessuno la vede. Tutti la incrociano distrattamente, le rivolgono richieste, ma senza vederla, senza ascoltarla. Si interessa a lei, inaspettatamente, un nuovo inquilino, il triste e raffinato giapponese Ozu. Anche lui molto ricco, ma sobrio; anche lui vedovo e solo. Il signor Ozu e' curioso, intelligente, e si accorge da un dettaglio che la portinaia Renée coltiva un giardino segreto dentro di se': e' una donna colta. Renée si lascia scappare (e non casualmente, proprio con lui) il famoso incipit di Anna Karenina "tutte le famiglie felici si somigliano...", aprendo cosi' a Ozu, uomo colto a sua volta, uno spiraglio per farsi conoscere, per farsi intravvedere. Insieme a Paloma, infelice e intelligentissima dodicenne che vive in un altro appartamente dello stabile, si viene cosi' a comporre il triangolo essenziale dei personaggi che abitano il nostro elegante microcosmo. Tre solitudini, tre destini, tre menti raffinate e alla ricerca di un senso dell'esistere si incrociano, si toccano, la loro vita ne cambiera' per sempre.
Paloma, a cui e' affidato l'io narrante della storia, da brava pre-adolescente inquieta e' impegnata a tempo pieno a cercare di differenziarsi dai genitori, cosa non facile visto che ha un padre ministro della Repubblica e una madre eternamente nevrotica ed eternamente in analisi; decide allora di 'programmare' di suicidarsi entro il prossimo compleanno. Nei giorni che intercorrono, entro cui si snoda il racconto del film, riprendera' con una cinepresa i personaggi intorno a lei, il suo piccolo ma ricco mondo animato dai familiari e dagli altri abitanti del palazzo, seguendoli voyeristicamente con occhio ironico e disincantato, con quella saccenteria innocente ed insieme pedante tipica di alcuni adolescenti intelligenti. Abbiamo subito l'intuizione che il suo progetto mortifero non sia poi tanto serio, che poggi su una fascinazione della morte di marca, appunto, adolescenziale, colorata da un ben deciso tratto isterico; e tuttavia, l'impatto con la morte (improvvisa, non certo 'programmata') non e' esente dal film. Solo, non sara' la piccola Paloma a morire...... La vita sfugge al nostro controllo. Puo' accadere l'inaspettato (l'incontro tra Paloma e Ozu, tra Ozu e Renée), mentre l'apparente urgenza dei progetti puo' decadere all'improvviso, non piu' necessaria (l'intendimento suicida di Paloma). C'e' sempre una possibilita' di crescita. Paloma la coglie nel segreto di Renée: capisce che lei non e' una portinaia come tutte le altre, non e' una persona qualunque, intravvede nel piccolo appartamento una porta chiusa. Deliziosa metafora di una sorta di spazio privato del se' (e di area traumatica, ricordiamo il romanzo "La porta" di Magda Szabo', dove e' la porta a celare il segreto della vecchia Emerenc) la porta chiusa contiene libri, moltissimi libri stipati uno sull'altro. Solo alla fine, Renée la 'dimentichera'' aperta... Lo spazio segreto della goffa portinaia, il suo se' privato e custodito negli anni come un tesoro segreto, e' la conoscenza, quello straordinario universo transizionale che e' la cultura. E' in questo delicato spazio transizionale, appunto, che avviene la possibile trasformazione dei tre personaggi, il loro peculiare incontro. Paloma ha un'occasione di crescita, quella che non trovava in famiglia, Ozu e Renée godono alcuni attimi di una splendida affinita' elettiva, che sembra ripagarli di tanta solitudine, anche se non durera' a lungo... Il finale sembra tragico, ma in fondo non lo e': dal momento in cui viene finalmente vista e ascoltata, la vicenda umana di Renée si puo' concludere, con la stessa modalita' della sua eroina Anna Karenina. Investita. Travolta. C'e' una frase che ricorre, e' Paloma a ripeterla alla portinaia. Tu hai trovato il miglior nascondiglio. Che pronfonda necessita', per un'adolescente si sa, ma per tutti noi, possedere un nascondiglio. Dal quale poi essere ripescati, come scrive Winnicott, certo, nel quale essere talvolta sorpresi, ma che bisogno antico, profondo, quello di avere un angolo socchiuso allo sguardo esterno, riparato. In questa epoca di tutto fuori, tutto mostrato, sembra vigere l'imperativo opposto, tutti vogliono spasmodicamente parlare o far parlare di se'; l'esigenza di una porta chiusa dentro di noi, viene vista con sospetto. Persino i silenzi del paziente, talvolta, le sue chiusure, rischiamo di non tollerarli a sufficienza, di prenderli come attacchi alla nostra pretesa vicinanza, rischiamo di dimenticare quale linfa vitale possa costituire per il soggetto umano, la presenza di uno spazio segreto dentro di se', sostanzialmente inviolabile, essenzialmente privato. Il film, in questo senso, appare elegantemente ottocentesco, come i romanzi dell'amato Tolstoj: il piccolo intenso mondo del palazzo parigino tesse vicende, affetti, emozioni trattate con un pudore ed un garbo lontano dai toni della contemporaneita', sempre cosi' urlata, cosi' mostrata. L'amore nascente tra Ozu e Renée, profondissimo, non e' fatto che di sguardi e intuizioni. Timido, celato, attonito quasi. Scrive Masud Khan che "..una persona puo' nascondere se stessa dietro ai sintomi, ma puo' anche assentarsi in un segreto. In tal caso il segreto costituisce uno spazio potenziale in cui l'assenza prende la forma di una sorta di animazione sospesa. Come la rendenza antisociale in Winnicott, cosi' il segreto implica la speranza che un giorno si possa venirne fuori, che qualcuno ci trovera' e ci parlera', e cosi' potremo tornare a essere persone intere, che vivono insieme agli altri" (1990, I Se' nascosti) corsivi miei. Talvolta, prosegue sempre l'Autore, questi segreti, nati nel bambino come tentativo di crearsi uno spazio potenziale, sfiorano la reticenza, e l'analista e' tentato di interpretarli come resistenze, rischiando cosi' di violare uno spazio che forse sfugge al nostro accesso, ma vitale per la persona. Dunque, l'evocazione alla psicoanalisi, nel film, non e' certo quella stereotipata e caricaturale della madre di Paloma, nevrotica "in analisi da dieci anni secchi", ma essa sta nel richiamo all'importanza dell'ascolto (Ozu e' il primo, con Paloma, ad ascoltare veramente Renée dopo tanti anni), dello spazio segreto da preservare e insieme da dischiudere, della delicatezza della crescita sempre in bilico tra vita e morte, del vedere l'altro, finalmente, al di la' della maschera del quotidiano e dei ruoli sociali. Il sociale resta sullo sfondo, ma non e' assente. Renée non ha potuto studiare perche' era povera, al contrario Paloma e' schiacciata, come la sorella, dall'eccesso di opportunita' (per cui prende Renée a modello e da grande vorra' "fare la portinaia"). Le due figure sono l'una l'alter ego dell'altra: al proprio destino povero, Renée ha contrapposto la stanza chiusa della conoscenza, spazio privato che deve difendere anche perche' non venga squalificato, mentre ad un futuro che si preannuncia temibilmente prevedibile, infelice e nevrotico (la nevrosi qui appare come ottocentesca malattia della borghesia), Paloma contrappone una sperimentazione ed una curiosita' solitaria che la portano ad esplorare creativamente il mondo. Rispetto alla desolata solitudine di Renée a cui nessuno si interessa, Paloma soffre invece le attenzioni di genitori che non sanno come carpirne le confidenze, di una madre che si lamenta del fatto che "con lei non parla", barricata in cameretta come tute le ragazzine. L'una desidera inconsciamente essere scoperta, l'altra lotta per conquistarrsi, anche lei, un nascondiglio. A legare l'una all'altra e' la gentile e pensosa presenza del signor Ozu; attraverso lui e Renée, una sorta di genitori dell'anima, si snoda questa delicata e riuscita evoluzione. Mi viene in mente una favola britannica per bambini, "Raspberry Juice" (succo di lampone), dove si gioca, letteralmente, con il nascondersi e lo svelarsi (closure and disclosure), nell'eterna matafora del nascondino (hide and seek). Una coppia di animaletti, una giraffa e un leone, si mettono in viaggio per scoprire l'identita' di un animale misterioso, che non si affaccia mai dalla sua casa. Un animale che si nasconde. Le provano tutte per farlo uscire, lo chiamano con diversi nomignoli nascosti, a loro volta, dietro ai cespugli (ridicolo nascondimento, per una giraffa e un leone) ma niente da fare: l'animaletto scomapre appena sembra dar cenni di se'. Solo quando rinunciano, aspettano, smettono di controllare, l'animaletto rivela la sua essenza: e' un coniglietto, Raspberry Juice. Occorreva rispettare, e saper aspettare su pol.it
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Post n°139 pubblicato il 11 Maggio 2011 da nottelunas
"Gli incidenti dell'amore "ANOTHER YEAR" di Mike Leigh 2010, Gran Bretagna di Rossella Valdrè Le stagioni si succedono lente ma inesorabili, dolci ed amare, nel microcosmo londinese che ruota attorno alla casa e alla vita di Tom e Gerry, affiatatissima coppia di coniugi non più giovani, psicologa di un consultorio lei, geologo lui. Il regista Mike Leigh, originale protagonista, da sempre, del filone del realismo inglese inaugurato da Ken Loach, ci regala la sua opera più matura, profonda, intensa, stupendamente semplice e complessa, recitata così magistralmente da non sembrare recitata, ma semplicemente vissuta. Un film da non perdere. Di impianto teatrale, interamente scandito entro la sequenza temporale delle quattro stagioni e concentrato all'interno della scena spaziale della casa dei coniugi, con pochissimi esterni, film di parola, pressochè privo d'azione, Another year fa tornare alla mente echi di un certo Bergman (Scene da un matrimonio), o di un certo Allen (Interiors); ma soltanto echi, vaghe assonanze. Leigh, infatti, insieme al corpo vivente degli attori, riesce a fare della narrazione una sintesi originale e personalissima, dove non manca mai il dialogo vivace della commedia intessuto all'amarezza della storia, la fissità dell'immagine calata però nel dinamismo interno dei personaggi, lo sfondo sociale di un mondo anglosassone pesantemente colpito dalla crisi, che è tuttavia solo accennato, lasciando sempre il primo piano alla parola. Film di parola, abbiamo detto. Tuttavia, uno di quei rari film dove il parlato non scivola nella parola vuota, nel vezzo intellettualistico, nella seduzione dei monologhi; la parola, vera protagonista del film, è qui incarnazione del sentimento, degli affetti, tentativo incessante di comunicare all'altro l'emozione da cui si è oppressi, il bisogno da cui si è abitati. E' la famiglia, la coppia, il tema dominante. La scena si apre sul volto sofferente di una paziente al consultorio, afflitta da un matrimonio "che non potrà mai cambiare", e si chiude sempre su un volto, quello di Mary (magnifica Lesley Manville), che progressivamente smette di ascoltare i rumori del mondo...Totale assoggettamento alla rinuncia, all'inizio; forse il barlume di speranza di una possibile amicizia con Ronny, alla fine. La casa di Tom e Gerry, come detto, è il luogo fisico e simbolico intorno a cui non solo ruotano i personaggi e le stagioni della vita, ma pare una specie di calamita che, con la sua solidità affettiva, attira le anime derelitte e sole, gli amici meno fortunati, quelli che hanno subito abbandoni, fatto errori, quelli che hanno inciampato e non si sono più ripresi. Mary prima fra tutti (forse il personaggio centrale), segretaria di mezza età al consultorio, separata, disperatamente in cerca di amore tanto da arrivare quasi a corteggiare Joe, figlio trentenne di Tom e Gerry, ma nel contempo anche ossessionata dal tentativo di autonomizzarsi, tentativo che ha come sbocco l'infelice acquisto di una piccola auto, che Mary, però, non sa condurre. E poi Ken, sfatto dal cibo e dall'alcool, prossimo ad un pensionamento che lo terrorizza, solo, tutti gli amici che stanno morendo; e infine Ronny, fratello sfortunato e meno 'buono' di Tom, che entra nella scena in inverno, portando il freddo lutto della moglie, lasciando intuire un pesante passato di conflitti che il figlio, col suo perenne odio, testimonia... Famiglie unite, calorose, persino a tratti stucchevolmente simbiotiche, come quella che fa da perno centrale alla piece (tanto l'impianto è teatrale, che vien da chiamarla così), e famiglie unite dall'odio e dal rancore, come è il caso di Ronny, o andate in disfacimento come quelle di Ken e Mary, così, senza una chiara ragione, matrimoni troppo affrettati, scelte troppo inconsapevoli. E su tutto, il tempo che passa. L'altro tema di fondo, le stagioni della vita. Solo il cinema inglese riesce, in questi tempi, a sottrarre gli attori alla tirannia della giovinezza e della bellezza a tutti i costi; volti rugosi, corpi ingrassati e imbruttiti dall'età e dalla fatica, logorati dagli eventi del vivere, dal bere, dalla solitudine. Persone reali, che invecchiano, soffrono, sperano, cercano, si ammalano, muoiono. Torniamo alla coppia-perno, la coppia Tom e Gerry. Per un regista profondo come Leigh, non può essere casuale la sin eccessiva stigmatizzazione tra bene e male, tra coppia felice e infelice, tra coppia e single: sembra che tutto il bene stia nella coppia, nell'essere-due, quasi simbiotici, e tutto il male e la sofferenza stiano nell'esser soli, reietti. Ad una più attenta visione, non è unicamente così. Il microcosmo simbiotico di Tom e Gerry è sì accogliente, ma non tollera la debolezza di Mary nel corteggiare, pateticamente, il giovane Joe: "è la nostra famiglia", le dirà Gerry dopo averla respinta per diversi mesi. O con noi o contro di noi, o dentro o fuori, è la legge della famiglia simbiotica, retta da codici invalicabili, inviolabili. E' la coppia che si nutre, come spesso accade, di compiaciuta auto-narrazione di sè, pronta ad accudire il debole, ma relativamente indifferente al dolore a all'invidia suscitata dall'esposizione di tanto bene, di tanta vita felice (la splendida sequenza finale). Che posto resta alla sofferenza inquieta, fragile, di Mary? Chi potrà mai accoglierla davvero? Coppia, gruppo, individuo. La complessità della vita, il suo progressivo decadere. Le tematiche umane di sempre sono qui recuperate e illuminate da uno sguardo attento, ricco di pietas, mai banale, affidato unicamente alla parola e all'emozione. "Sono capace di passare a guado il dolore -
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Post n°138 pubblicato il 11 Maggio 2011 da nottelunas
Habemus papam di Nanni Moretti
Nanni Moretti e la psichiatria di Alberto Sibilla
L'ultimo film di Nanni Moretti può prestarsi a molte letture. La trama è focalizzata sul rapporto tra potere e responsabilità e il finale è una accettazione e per certi versi un elogio della fragilità e dei limiti dell'individuo. Il racconto è coerente e si collega al soggetto del Caimano; anche in quel film il protagonista, Silvio Orlando, non riusciva a dare un significato ai cambiamenti nella sua vita privata provocati dalle “novità” culturali nel campo della famiglia, del lavoro e della politica. In Habemus Papam sono accentuate le incertezze del protagonista che nel finale trova la forza per il rifiuto. La rinuncia del potere viene attuata in un'istituzione, la chiesa, descritta come la più radicata e stabile o forse che tende a dare di sé, mediaticamente, una immagine monolitica. Questa descrizione, sostenuta da una folla plaudente e dall'interesse delle televisioni contrasta con numerosi precedenti storici e non parlo solo di quelli Danteschi. Non sono passati molti anni dai dubbi laceranti che hanno accompagnato il pontificato di Paolo VI e della morte di Papa Luciani, schiacciato dal mandato pontificio. Il potere religioso saldo e senza dubbi sembra una costruzione e una rappresentazione mediatica e la crisi del papa neoeletto rende i fedeli sconcertati e lascia ammutoliti i giornalisti che vogliono risposte immediate e non riescono a dare un senso a un avvenimento inaspettato. Assistendo alla beatificazione di Wojtyla è lecito chiedersi cosa sia diventata la chiesa televisiva; la rappresentazione mediatica ottiene grandi ascolti, ma dubito che spinga alla fede, ma trascina a un rapporto superficiale con la trascendenza. Fuori dal Vaticano le cose non vanno meglio e il neo eletto Melville vaga spaesato per Roma. Incontra casualmente una compagnia che prepara un testo di Cechov, “il gabbiano”, la rappresentazione dell'irraggiungibilità dei desideri e dell'impossibilità a dare un valore alla vita. Non a caso Melville lo conosce a memoria. La recita sulla fragilità e sulla infelicità sembra dare pace al neo papa. La narrazione è terapeutica, come ben sappiamo.
TUTTO CAMBIA
I processi e le cose di Giuseppe Riefolo Habemus Papam di Nanni Moretti, 2011 “E’ per il vento...! ‘sto maledetto vento 1. Sparigliare... “E ciò che è cambiato ieri http://www.pol-it.org/ital/habemuspapam.htm
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Post n°137 pubblicato il 11 Maggio 2011 da nottelunas
"SORELLE MAI" di Marco Bellocchio (Italia, 2011) Working Through... di Rossella Valdrè " La realtà non si forma che nella memoria..." Molto difficile scrivere qualcosa su questo film. Tentazione affascinante, allo stesso tempo, quella di entrare in questo laboratorio aperto, in questo interessantissimo work in progress che Marco Bellocchio ha costruito per la sua ultima, intensa e poeticissima opera. Bobbio, provincia di Piacenza. Casa natale del regista, dove visse fino alla giovane età e già teatro dell'ormai primo film-cult, I pugni in tasca (di cui appaiono qua e là fugaci immagini), e tuttora casa delle vacanze estive dellla famiglia. Questo il set, il luogo in cui la scena si dipana attraverso sei episodi, sei tranches de vie in cui i vari personaggi si incontrano, si separano, fanno le loro scelte, nella calura immobile delle estati di provincia. Ma perchè parlo di working throught, o potremmo dire anche con una dizione meno psicoanalitica, work in progress? Perchè il film è frutto di un lavoro collettivo, di un laboratorio svoltosi nel tempo, dal 1999 al 2008, con gli allievi della scuola "Fare cinema" che il regista tiene a Bobbio, sede appunto della casa di famiglia e pertanto divenuto oggi luogo della memoria, della sua personale recherche, di un'originale rivisitazione che qui non si accontenta del semplice ricordare o ri-narrare i fatti, quanto piuttosto li mescola all'inventato, alla fantasia, a quella soggettiva e privatissima elaborazione che rende ogni memoria, ogni esistenza unica, speciale.
Insieme agli allievi del corso di cinema e a pochi attori professionisti, a recitare sono gli stessi membri della famiglia di Bellocchio, i personaggi reali della sua biografia: il figlio Piergiorgio, la figlia minore Elena, il fratello nella piccola parte del preside, e soprattutto le due anziane sorelle, Letizia e Maria Luisa, a cui si deve il titolo, con cognome inventato, di Sorelle Mai. E tuttavia, nonostante queste personalissime presenze, il film sfugge ogni pericolo di semplice autobiografismo, non cede alla tentazione narcisistica del parlare-di-sè nè al documentarismo vero e proprio, e neppure è un'opera di pura fantasia poichè, come ne I pugni in tasca, il luogo, le persone, gli affetti, taluni accadimenti fanno parte della storia reale del regista. Persone o personaggi, dunque? Realtà o finzione? Passato o presente? Ricordare, ripetere, rielaborare. Sorelle Mai è un film aperto, un dispositivo insaturo che, come qualcuno ha scritto, richiede la complicità dello spettatore, la sua disponibilità a lasciarsi andare contribuendo con la propria immaginazione a riempire i buchi della storia, i non detti, i pensieri non pensati o non ancora avvenuti, senza preoccuparsi troppo di dare un senso, una linearità ad una vicenda che è sì vicenda storica, ma soprattutto interiore, una recherche riattualizzata dove i giochi possono essere ancora aperti, dinamici, in movimento. Working through. Frequentatore intimo, seppur con un suo percorso personale, della psicoanalisi, l'Autore si muove tra realtà e sogno, tra rimembranza (i flash de I pugni in tasca) e qui-ed-ora con molta maestria, direi con naturalezza; così che perde d'importanza, se riusciamo a lasciarci andare a questo gioco, cosa è reale e cosa no, cosa è avvenuto e cosa no, se abbiamo di fronte un personaggio, d'invenzione, o una persona. Estati che si susseguono nel corso di alcuni anni, abbiamo detto. A scandire il passare del tempo, le figure ai poli opposti delle età della vita: la piccola Elena, che da bimba paffutella diventa pre-adolescente e si fa portavoce di chi pone le domande, di chi interroga la realtà; e all'altro polo le due inseparabili Sorelle Mai, anziane e mai maritate perchè "a volte si nasce nella famiglia sbagliata", chuse nel mondo protetto della loro propietà e dei loro riti (la tavola, il solitario), del tutto silenziosa e forse un pò autistica una, che così affida all'altra il rapporto col mondo. Tra questi due poli che abitano la casa di Bobbio, tornano nelle estati i due figli, entrambi desiderosi di diventare attori, ma abitati da diverse inquietudini: lui più irrisolto e tormentato, lei più capace di scelte autonome, sempre meditate e sofferte. Amico fedele e consigliere sempre a fianco delle zie, il fidato ragioniere Gianni, che nella sua dolce solitudine vive a fianco delle sorelle e della nipotina come figura quasi irrinunciabile nella grande casa; non c'è decisione importante, non c'è scena che comporti uno snodo emotivo che non lo veda presente. Apparentemente a latere, è tuttavia a questa malinconica e affettuosa figuria di "ospite" che il regista affida il finale inatteso, bellissimo: un suicidio che definerei poetico, in un impianto scenico vagamente felliniano.....Ed ancora la breve apparizione di personaggi estemporanei, come le insegnanti nello scrutinio di fine scuola, tutti portatori di una loro singolarità, soggettività non banale e nel contempo non troppo definita.... Sul contenuto della storia, piuttosto esile e irrilevante in sè, non abbiamo molto da aggiungere. Solo il senso della morte sembra percorrere tutto il film, fino alla sua rappresentazione finale, attraverso il parlare ripetuto e quasi ossessivo delle Sorelle: la cappella mortuaria che tanto le preoccupa, il racconto dei bambini bocciati suicidi, i fatti sanguinari di cronaca... Ma è una morte parlata che non sembra avere alcun senso del tragico, del drammatico; è anzi un pò ironica, qualcosa che deve arrivare e che richiede una dimora (la cappella), o anche frutto improvviso di una libera scelta (il suicidio), di un'ulteriore libertà del soggetto e dei suoi mascheramenti (il frac).
Laboratorio che potrebbe ancora evolvere, modificarsi. Nulla è dato per sempre. Il mosaico della vita rivede, riposiziona, ricolloca, come se attraverso differenti après-coup il regista rimettesse mano, con lo spettatore, alla propria storia, la rimaneggiasse continuamente. L'oggi non è allora, e tuttavia oggi è anche l'allora, ma dove possiamo sempre inserire un cambiamento, un coup de téatre... "Il campo - scrive Antonino Ferro (1999) - coincide con la narrazione che ne viene fatta, che è già superata nel momento stesso in cui viene portata a compimento, perchè nuovi personaggi e forze emotive sono continuamente 'in cerca di autore'...." (corsivo mio). Sottolinenando, come è noto, l'importanza dell'insaturità che deve mantenere l'intepretazione psicoanalitica perchè il campo condiviso tra analista e paziente non risulti troppo ingorgato da ciò che l'analista rischia di mettervi dentro, Ferro, sulla scia di Bion e con molti altri AA, suggerisce una chiave molto vicina all'anima di questo film. Insaturo, unfinished, eppure a suo modo compatto, coeso. Ma come potremmo evocare l'insaturità, al di fuori della seduta psicoanalitica? Mi sorgono due immagini, le due Pietà di Michelangelo, la Vaticana e la Rondanini: sono entrambe sublimi, ma l'una possiede una bellezza finita, completa, alla quale il nostro sguardo non può aggiungere più nulla, mentre l'altra, lavorata per nove lunghi anni fino alla morte dell'artista, ci consente di immaginare, sognare, partecipare, come se sui tratti mancanti potessimo anche noi contruibuire con la nostra creatività. L'insaturo, pur apprentemente meno perfetto e talora sconcertante, ci offre l'opportunità di partecipare alla costruzione del campo, soggetti attivi o, per dirla con le parole del critico, ci richiede complicità. Sempre Ferro (ib, p 9), citando gli studi narratologici di Umberto Eco, ricorda come le interpretazioni possibili, seppure all'interno di un'ampio ventaglio, non sono tuttavia infinite: esiste pur sempre l'intenzione del testo. Il testo, vale a dire, ha qualcosa da dirci, possiede una sua spinta interna che nelle pur mille congetture possibili, urge per essere letto, possiede davvero una sua intenzione. L'intenzione di questo film, di questo testo scritto nel tempo (nel tempo storico e nel tempo interno) a me è parsa quella di giocare winnicottianamente con la memoria e con la realtà, di fornire così un canovaccio simile al sogno, che segua regole 'altre', di una realtà 'altra', per darci la benefica illusione di maneggiare lo scorrere del tempo, e rappresentarci la morte come un'uscita di scena teatrale, personale, la cui messa in scena ciascuno, alla fine, può esser libero di inventare da sè. http://www.pol-it.org/ital/sorellemai.htm
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Post n°136 pubblicato il 11 Maggio 2011 da nottelunas
L'ultimo film di Clint Eastwood ha diviso. Per alcuni un capolavoro, per altri una delusione. Io dico che è un gran bel film. Clint è Dio. Ed essendo Dio, può parlare di aldilà. Lo conosce. Ci sono, in ogni inquadratura di Clint, un candore e un'urgenza che non hanno eguali. E' tutto, sempre, così meravigliosamente preciso e delicato. Anche quando affronta il dramma più annichilente o quando occupa i primi minuti con effetti speciali per lui inusuali. Andrea Scanzi, La Stampa 19 gennaio 2011
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Non dire che hai abbandonato il sogno.
Non c'è altro per noi a cui aggrapparci, se non questo.
Non dire che hai abbandonato il sogno.
Non c'è per noi altra strada se non questa.
Asakusa Kid, Takeshi Kitano
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