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L’INGREDIENTE

Post n°149 pubblicato il 15 Dicembre 2008 da JayVincent


Perché secondo molti la Pepsi Cola, o le mille altre marche similari, non sono paragonabili alla Coca-Cola?
Perché un vero colosso mondiale come Pepsi non riesce, nonostante genialate di marketing, testimonial strapagati, grandiose operazioni di appeal, a raggiungere il posizionamento della lattina biancorossa?
Un pò perché sono semplicemente arrivati secondi.
E quell’impercettibile differenza tra l’averlo fatto per primi e tutto il resto, nasconde in sé il senso della vita.
Ma anche perché, da decenni, si narra dell’ingrediente misterioso, in assenza del quale ogni alchimia di addizionanti, coloranti, edulcoranti è totalmente inutile.
L’ingrediente segreto della Coca-Cola è la leggenda metropolitana, o la verità nascosta, su cui si è costruito un gap incolmabile in termini di percezione.

Questa Olimpia versione 08/09 un ingrediente segreto ce l’ha, eccome.
Che la rende infinitamente migliore delle recenti versioni passate, indipendentemente da talento, individualità, atletismo.
Non è qualcosa che si misura in centimetri, non si pesa in chilogrammi, non si legge nelle statistiche. È l’anima.
Questa è una squadra con un’anima forte, vera, un gruppo che in pochi mesi ha già dimostrato di essere capace di affrontare e reagire a ogni colpo basso.
Sferrato sul campo da avversari più forti, oppure dalla sorte, da quel destino che si è accanito come la più classica nuvoletta da impiegati di fantozziana memoria.
“That which does not kill us makes us stronger”.
Ciò che non ti uccide, ti rende più forte. Troppe volte negli anni passati abbiamo visto gruppi che hanno dimostrato di non possedere anima, di non avere la moralità e, passatemi il termine un pò forzato, la rettitudine per rimanere coeso nei momenti peggiori.
Si sono visti mangiapane a tradimento, mercenari menefreghisti, delatori, macchinatori.
Spettacoli osceni avallati da una Società che ha fatto della grettitudine una bandiera.
Quello che oggi più mi fa brillare gli occhi è questo aspetto.
Guardare un gruppo che ce l’ha fatta. A sopravvivere, che non ha voluto mollare, che non ha tirato i remi in barca.
La faccia di Mike Hall, che attaccato alle sue debolezze e a indiscutibili limiti si è issato oltre le invettive di giornalisti insipienti.
La faccia di Mason Rocca, incapace di ingranare le sue marce, frenato da un fisico limitato.
Quella di Jobey Thomas, finito in un frullatore difficile da affrontare dopo una carriera lontana dai riflettori.
La faccia di Piero Bucchi, che senza segare panchine, senza arruffianarsi tifosi né autoproclamarsi uomo della provvidenza sta portando risultati concreti.
E che, insieme al suo gruppo di ragazzi, ci dimostra come dal basso si può risalire, facendo conto su sé stessi, mettendo il lavoro al primo posto e puntando due fiche sulla propria forza d’animo.
Perché non sempre si vince grazie a fortuna, talento, illuminazione divina.
Per capirlo è sufficiente, per una volta, guardare in casa d’altri.
Nei due palazzetti di Bologna, o alla periferia di Roma, zona Eur.
Dove il talento sta di casa.
Ma in quella casa lì, forse, ci sono un pò troppi specchi in cui rimirarsi e pochi asciugamani per tamponare il sudore.

 
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