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Un blog creato da otuvas il 29/11/2007

Joaquìn Maria Otuvas

Che cos'è la vita? "Che ne so...confusione...cose ...cose" E allora, qual è la qualità più importante per un uomo? "Lo stupore"

 
 

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Omologazione e diversità

Post n°20 pubblicato il 05 Marzo 2008 da otuvas

“Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. … Oggi (…) l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati….Il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli imposti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quelle del consumo”  (Corriere della Sera, 9 dicembre 1973)

 

“L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui “deve” obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza “ (Corriere della Sera, 11 luglio 1974)

 

“…C’è il modello che presiede a un certo edonismo, interclassista, il quale impone ai giovani che inconsciamente lo imitano, di adeguarsi nel comportamento, nel vestire, nelle scarpe, nel modo di pettinarsi o di sorridere, nell’agire o nel gestire a ciò che vedono nella pubblicità”  (Rinascita, 27 settembre 1974)

 

Così scriveva Pasolini più di 30 anni fa, interpretando e deprecando la rivoluzione antropologica che annullava le antiche culture contadine, sottoproletarie, operaie, assimilate nell’omologazione di un modello consumistico piccolo borghese, grazie all’influenza invasiva dei media.

Il processo si è definitivamente compiuto, forse oltre l’immaginazione dello scrittore: stessi abiti, stesso modo di divertirsi, stessi canoni estetici, stessi modelli sociali, stesse aspirazioni, stessi sogni …

Oggi la frontiera dell’omologazione si sta ulteriormente spostando, fino ad investire l’interiorità e a minacciare le caratteristiche sessuali specifiche. Con questo non mi riferisco all’abbigliamento unisex o alla parità lavorativa o alle abitudini di vita, ma alla perdita di identità maschili e femminili distinte.

Siamo forse in presenza di una mutazione? Qualcuno sostiene di sì. A questo proposito Umberto Veronesi ha parlato di “evoluzione della specie” ovvero di un processo evolutivo di tipo anche biologico verso un modello di umanità sempre meno differenziata sessualmente.

Io parlerei piuttosto di “caos della specie”: perdita di confini e di ruoli, maternità e paternità incerte, figure genitoriali confuse, difficoltà di assumere e rifiuto di scegliere un’identità sessuale specifica. Sono in aumento gli uomini e le donne incerti sulla propria sessualità, maschi femminilizzati  e femmine androgine.

Anche senza avventurarci in scenari fantascientifici futuribili, siamo comunque di fronte a trasformazioni destinate ad avere una profonda incidenza culturale, e non solo: a cambiare la percezione di sé, il modo di sentire e vivere le emozioni.

Per ora possiamo già dire che la coppia omosessuale, cui la legge vieta il matrimonio, diventa in realtà l’archetipo della nuova coppia anche per gli etero.

 
 
 

Spunti di riflessione

Post n°19 pubblicato il 27 Febbraio 2008 da otuvas

“Giunge un momento in cui l’uomo non ha più libertà di scelta, non perché ha già scelto, ma perché non l’ha fatto. (…)  Perché gli altri hanno scelto per lui (…).

La nostra personalità già prima di scegliere è interessata alla scelta; e quando la scelta si rimanda, la personalità decide in modo incosciente e le forze oscure decidono in essa”.

Kierkegaard

 

Un paziente psichiatrico non usciva di casa da 20 anni. Diceva: “Uscirei, se avessi un giubbotto di pelle, caldo e confortevole; ma come faccio a comprarlo se, senza, non posso uscire?”

Joaquìn Maria Otuvas

 

 

“Una volta si veniva in Italia per Giotto e Mantegna, adesso per fare shopping e trovare scarpe”

Oliviero Toscani

 

Lo sciocco (ignorante) dice quello che sa, il sapiente sa quello che dice

Joaquìn Maria Otuvas

 
 
 

L’economia della salute

Post n°18 pubblicato il 21 Febbraio 2008 da otuvas

Il fine di ogni attività non è più la produzione e la fruizione di beni, di cui si cura la qualità, siano essi scarpe o libri, automobili o tappeti, gioielli o biscotti…. Oggi il fine unico è il denaro: il prodotto è diventato un oggetto simbolico, volatile.

Alcuni settori sono stati occupati totalmente dal business: gli editori puri sono scomparsi, al loro posto ci sono finanzieri che diversificano i loro investimenti: dai motori ai giornali, dall’edilizia alle televisioni….

Questo processo ha finito per investire anche aree in precedenza appena sfiorate o che per definizione avrebbero dovuto esserne esenti: quelle della salute.

E non mi riferisco al privato, ma all’ente pubblico, che sta assumendo i caratteri del privato peggiore, con un passaggio dalla produzione di salute all’economia della salute.

A questo proposito ecco l’esperienza di un amico che si occupa di un settore delicato, quello del disturbo psichico.

Alcuni suoi pazienti, dopo un iter terapeutico lungo e accidentato, hanno raggiunto un relativo benessere  grazie ad un intervento integrato che unisce residenza in comunità terapeutica, cura farmacologica e programmi riabilitativi.

Dall’incontro con i rappresentanti dell’ASL di appartenenza dei pazienti il mio amico si aspettava un’ attenta valutazione comune dei diversi casi, ai fini della progettazione futura e, magari, il riconoscimento del lavoro svolto e dei risultati ottenuti.

L’unica domanda che si è sentito rivolgere è invece stata relativa alla previsione dei tempi di dimissione dei pazienti e di conseguente sospensione dell’erogazione di denaro per l’assistenza. Come se quella mentale non fosse una malattia cronica, che richiede pertanto assistenza continuata nel tempo.

Assistiamo invece al prevalere di un’ottica economica, in cui è di fatto l’amministratore che decide quanto tempo è concesso alla cura, che prescrive al terapeuta le modalità dell’intervento.

Certo non si può ignorare l’aspetto economico, ma c’è da chiedersi quale sia il modello di sanità, se l’obiettivo non è più fare salute, ma spendere meno. 

 
 
 

La distanza affettiva

Post n°17 pubblicato il 14 Febbraio 2008 da otuvas

Mi è capitato di leggere un’interessante interpretazione della tragedia di Otello. L’autore è Middleton Murry .

Contro la consueta lettura di un Otello archetipo del persecutore, l’opera shakespeariana sarebbe la tragedia dell’amore che vuole una “completa fusione d’identità”.

Yago, lungi dall’essere il diabolico tessitore d’inganno, diverrebbe così il personaggio destinato a rendere visibile il fallimento di un simile rapporto, che pretende il sacrificio dell’identità personale a favore di una identità di coppia.

Yago materializza la fatale crisi della relazione ideale perseguita da Otello. L’esito non può essere che la morte.

Morte reale dell’infelice, inconsapevole Desdemona nella tragedia di Shakespeare, morte metaforica come esito obbligato

delle grandi passioni che inseguono il sogno di una fusione reciproca in cui perdersi.

L’inganno dell’amore mortifero non uccide solo gli amanti, ma anche i figli, stretti nelle spire della simbiosi materna, che non delimita i corpi, che impedisce uno sviluppo autonomo.

Un rapporto sano deve lasciare respiro, vitale all’individualità, deve saper giocare la distanza con sapienti aggiustamenti, ora restringendo ora allargando lo spazio interposto, in un reticolo di relazioni che permettano sia la vicinanza emotiva che la salvaguardia dell’integrità personale.

E’ quello che ci dice Schopenhauer  con questo piccolo apologo.

“ Una compagnia di porcospini , in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripetè quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali, finchè non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.”

 
 
 

Il rifiuto dell’azione

Post n°16 pubblicato il 06 Febbraio 2008 da otuvas

“In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno  che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.”

 

“Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto tra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera  o di cannella; il nostro appetito meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana.  Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto.”

 

“I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine  sia anche,  se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?”

(G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo)

 

 Con queste parole il principe di Salina si rivolge a  Chevalley, emissario del governo piemontese.

L’inerzia, il rifiuto dell’azione è propria di esseri che si vivono come semidei perfetti e che quindi rifuggono da qualsiasi cambiamento. Del resto anche Aristotele identificava la divinità come motore immobile.

Parafrasando Sciascia, che sosteneva che la mafia siciliana  si fosse mondializzata, si potrebbe dire che la disposizione  a non fare, la rinuncia all’azione della Sicilia abbia contagiato l’Italia tutta.

Il dinamismo investe oggi solo l’area scientifica, mentre nell’ambito della gestione politica, al di là dell’agitazione apparente, prevale l’immobilità: discorsi in cui non si dice, parole vuote, movimenti frenetici senza spostamento.

Ma la malattia è comune: fare obbliga a trasformarsi, scegliere significa scartare alcune alternative, non essere più quello di prima, e molti si rifiutano a questo passo, preferiscono rimanere in un limbo adolescenziale che lasci aperti tutti gli esiti possibili senza realizzarne nessuno.

 
 
 
 

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