Creato da paoloalbert il 20/12/2009

CHIMICA sperimentale

Esperienze in home-lab: considerazioni di chimica sperimentale e altro

 

Messaggi di Ottobre 2011

Occhi magici

Post n°139 pubblicato il 30 Ottobre 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

No, purtroppo le femmine non c'entrano con il discorso che andrò a fare.
Tante di loro hanno gli occhi magici, ma nel mio caso si tratta di occhi ben più prosaici: solo rozze valvole termoioniche. Intendiamoci... rozze solo in paragone alle ragazze!

In realtà le valvole hanno una loro intrinseca finezza, eleganza e fascino che le rende dispositivi "femmine" a tutti gli effetti.
Quindi l'accostamento lo ritengo accettabilmente corretto e lo tengo senza remore.

Spesso mi riaggancio ai post precedenti, e lo faccio anche stavolta, tornando a quel vecchio piaccametro (che dico vecchio... allora era nuovo!) che si trovava nel lab di chimica-fisica della mia scuola.
Dicevo che quello strumento aveva come indicatore non un milliamperometro ma un "occhio magico", costituito da una vecchia valvola radio, la 6E5.
Ora non ho più idea del funzionamento di quello specifico strumento della Beckman, ma ricordo che si doveva regolare una manopola al fine di ottenere la massima chiusura dell'"l'occhio verde".

Ma finalmente cos'è un occhio magico?

E' una particolare valvola termoionica, detta più propriamente "indicatrice di sintonia", usata nelle radio a valvole degli anni d'oro per facilitare la sintonizzazione corretta delle emittenti.
La valvola presenta alla sommità (o di lato) una placchetta di varie forme rivestita di sostanze (in genere solfuro di zinco attivato con Cu, Ag) che emettono una bella luminescenza verde se colpite da elettroni; a loro volta gli elettroni possono essere deviati più o meno da un campo elettrico in modo da colpire la placchetta in tutto o in parte.

Se la placchetta è colpita tutta si illumina completamente, altrimenti rimangono delle zone d'ombra più scure.
Siccome le prime indicatrici di sintonia avevano la placchetta di forma circolare con al centro un bottoncino scuro (il catodo emettitore di elettroni ed un elettrodo di comando) il tutto assomigliava ad un occhio, con l'iride verde e la pupilla nera.
Ecco perchè queste valvole si son sempre dette occhi magici.
L'aggettivo magico è facilmente spiegato perchè a quei tempi (siamo negli anni '30), tutto il funzionamento di una radio era quasi magia (per tanti lo è ancora anche negli anni duemila...).

Una immagine vale come al solito più di tante parole:

 

6E5  6E5 occhio

 

ecco come si presenta la valvola 6E5 e a fianco la vista della sommità illuminata, con ancora un settore d'ombra che si potrebbe restringere o allargare.

Appropriato il nome "occhio", vero?

Lo zoccolo della valvola è di tipo vecchio (anni '30) a 6 piedini, ma ne esiste anche una versione più moderna (anni '40) a otto piedini (in questo caso è detto "octal").

- pin 1: non collegato
- pin 2: un capo del filamento riscaldatore
- pin 3: la placca del triodo amplificatore e l'elettrodo di controllo
- pin 4: non collegato
- pin 5: la griglia del triodo amplificatore
- pin 6: la placca luminescente al solfuro di zinco
- pin 7: l'altro capo del filamento riscaldatore
- pin 8: il catodo emettitore di elettroni

Come funziona, in due parole, la 6E5?

A- il filamento si arroventa quando alimentato con una tensione di 6,3 volt
B- il catodo a contatto del filamento si riscalda ed emette elettroni
C- gli elettroni sono attirati dalla placca luminescente (pin n.6) perchè è tenuta a forte potenziale positivo
D- il segnale da visualizzare entra sulla griglia (pin n.5)
E- il segnale è amplificato e produce una variazione di tensione sulla placca (pin n.3), anch'essa positiva
F- questa variazione di tensione comanda la placchetta deviatrice di elettroni (ancora pin n.3)
G- se gli elettroni sono poco deviati dalla placchetta deviatrice l'occhio si chiude, se sono molto deviati l'occhio si apre


Quindi:
- segnale intenso (oppure buona sintonia della radio) --> occhio chiuso, tutto verde
- segnale debole (o cattiva sintonia della radio) --> occhio aperto (ombra larga)

Sono stato il più sintetico possibile perchè l'intendimento era di essere comprensibile soprattutto ai non addetti ai lavori; spero di esserci riuscito.

Queste valvole indicatrici sono nate negli anni '30 e sono state usate fino agli anni '60, con molte sigle e forme diverse (EM1, 6G5, WE18, EM34, UM80, EM84, DM71, ecc.) e con impieghi non solo strettamente radiofonici ma anche nel campo audio (e perfino chimico!), prima dell'avvento dei semiconduttori e della tecnologia attuale a LED.

Ancora oggi sopravvivono e si trovano facilmente su e-bay, sull'onda di una moda (e quando è solo moda è molto spesso insulsa) che vede nelle belle valvole accese, calde e luminose, quel tocco di esoterismo che i freddi (ma molto più efficienti) transistors non possono dare.

 
 
 

Cu2HgI4: celletta per conducibilitą

Post n°138 pubblicato il 27 Ottobre 2011 da paoloalbert

Nella discussione dedicata al termocromatismo del tetraiodomercurato rameoso Cu2HgI4 mi ero riproposto di allestire un setup adeguato alla misura delle variazioni della conducibilità elettrica relativa di questo interessante sale al variare della temperatura.
Naturalmente non è pensabile eseguire tale misura semplicemente immergendo nella polvere i puntali di un tester perchè in tal modo non si misura niente, essendo la resistenza elevatissima.
Nessuna polvere risulta conduttiva in tal modo, nemmeno una metallica; quello che io chiamo effetto "coherer"; provare con della semplice limatura metallica appena prodotta: resistenza quasi infinita!
(Ci saranno dei buoni esperimenti da fare su questo punto...).

Pertanto occorre pensare e assemblare un dispositivo che possa permettere una notevole compressione meccanica della sostanza in esame e contemporaneamente stabilire i relativi contatti elettrici senza incertezze.
Il lavoro è fattibile, anche se non immediato, e presuppone di avere a disposizione almeno una piccola ma adeguata attrezzatura meccanica.

 

Celletta 1

 

Le immagini e il disegno in sezione spiegano la costruzione di questa celletta dedicata al Cu2HgI4.

 

Celletta 2

Celletta 3

 

Gli elettrodi sono ricavati da due profilati in alluminio a L, serrati assieme da quattro viti di tiraggio, isolate da una parte per mezzo di boccoline in nylon (quelle usate per l'isolamento dei transistor in TO3) in modo che le viti non costituiscano contatto elettrico tra le due piastrine.
La polvere di Cu2HgI4 in esame è contenuta in un corto cilindretto di plastica, a contatto da una parte con una piastra e dall'altra con una rondellina di rame, premuta fortemente da una vite che si appoggia con un controdado sull'altro elettrodo; in questo modo si realizzano i due contatti elettrici e si può comprimere fortemente la sostanza così da renderne la conducibilità misurabile.
(Naturalmente se la sostanza in esame possiede di suo una certa conducibilità, altrimenti si può comprimere fin che si vuole!).
In ogni caso non aspettiamoci in queste condizioni conducibilità "da metalli": essa sarà sempre bassissima, con resistenza dell'ordine dei megaohm o frazioni, ma comunque leggibile.

Il test è stato eseguito alimentando il dispositivo con 12 V e misurando la corrente di passaggio sia a freddo che a caldo, a circa 80°, quindi oltre la temperatura di transizione del sale.
La corrente risente moltissimo, come è ovvio, delle condizioni istantanee di lavoro (pressione meccanica, dilatazioni, ecc.) ma il range di variazioni si assesta su valori abbastanza definiti: come ordine di grandezza circa 10 microA a freddo (1,2 Mohm) e circa 200 microA a caldo (60 Kohm), evdenziando un aumento conducibilità di una ventina di volte.

 

Celletta 4  Celletta 5

 

 

 

 

 

 

 

Mi aspettavo uno scalino di transizione molto più netto intorno ai 70°, mentre ho notato che le variazioni sono macroscopiche ma progressive.

Sottolineo fortemente che tutte queste misure sono RELATIVE, in funzione stretta delle condizioni di lavoro alle quali io ho operato, ma che comunque rendono bene l'idea che mi ero proposto, cioè di evidenziare "le variazioni" e non i valori assoluti, che in questo caso non sono di alcun interesse.

Per curiosità ho testato anche il comportamento in media frequenza (fino a 100 KHz) di questa sostanza, senza alcun risultato significativo in semiconduttività: solo pura resistenza ohmica.

Per la spiegazione del fenomeno rimando a quanto detto nel post precedente, trovando facilmente in rete ragione del fatto che ad un certo punto con l'aumento della temperatura gli ioni rame si mettono a saltellare di qua e di là nel reticolo cristallino in cerca di "buche", e così facendo (ricordo che --> cariche elettriche che si spostano = corrente!) rendono questa sostanza conduttiva con queste caratteristiche.

 
 
 

L'olio d'oliva del barone Arthur von Hubl

Post n°137 pubblicato il 22 Ottobre 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Il Carnevale della chimica di fine ottobre, ospitato dal blog di Popinga, ci porta in tavola un argomento sfizioso: "La chimica in cucina", lasciando come il solito ai partecipanti una trattazione del tema molto discrezionale.
Per questa decima occasione carnevalesca mi sono permessso di scomodare nientemeno che...

...sua eccellenza imperiale (k.k., kaiserlich-koniglich) der Baron von Hubl!

Chi è costui? No, non è per niente un anonimo Carneade come può sembrare, perchè questo signore è passato alla storia come autore di un saggio importantissimo nella chimica merceologica: la determinazione del cosiddetto "Numero di iodio" per le sostanze grasse.
Cosa sia il numero di iodio lo vedremo fra un attimo.

Il nostro Barone era nato nel 1853 a Grosswardein, allora territorio austriaco ed ora importante città romena col nome di Oradea. 
Figlio di ufficiale dell'esercito austro-ungarico, divenne egli stesso capitano, e gli capitò di frequentare negli anni 1879-1881 il dipartimento chimico dell'Università Tecnica di Vienna.

Si interessò a diversi campi della materia, principalmente di fotochimica; assieme a Giuseppe Pizzighelli (un altro ufficile austro-ungarico, di chiare origini) sviluppò nuovi metodi per le applicazioni fotografiche allora in uso.
Divenne in seguito, durante la prima Guerra mondiale, addirittura capo dell'Istituto Geografico Militare per la sua esperienza in campo fotografico applicato alla cartogafia.
Fu comunque nel periodo universitario viennese che Hubl sviluppò il suo metodo per la determinazione del numero di iodio, per il quale è tutt'ora ricordato.

Si impone a questo punto la chiarificazione riguardo questo indice: il numero di iodio è un metodo per conoscere il grado di insaturazione (presenza di doppi legami) di una sostanza grassa, principalmente di un olio, e rappresenta la quantità di iodio che può essere fissata da 100 g di acidi grassi, sia in forma libera che combinata.

In determinate condizioni il doppio legame viene saturato ponendovi a destra e a sinistra, diciamo così, un atomo di alogeno; dalla quantità di iodio che viene fissato, si capisce facilmente che si può risalire al grado di insaturazione.
E dal grado di insaturazione si possono poi riconoscere il tipo di olio, eventuali adulterazioni e sofisticazioni, ecc.

E' quindi un indice importante, tutt'ora usato per caratterizzare un olio alimentare.

Per la determinazione del numero di iodio si usa il reattivo di Wijs, che è una soluzione in acido acetico/cicloesano di cloruro di iodio ICl, una sostanza molto reattiva, capace di alogenare facilmente i doppi legami.
Si titola poi con tiosolfato/amido l'eccesso di iodio non reagito e quindi si risale per differenza a quello assorbito dalle insaturazioni.
All'inizio Hubl, prima del miglioramento introdotto da Wijs, usava una soluzione alcolica di cloruro di mercurio e iodio sui grassi sciolti in cloroformio, comparando con una prova in bianco il colore risultante dopo la reazione.

Ho voluto riproporre tale metodo, naturalmente meno accurato di quello standard di Wijs, ma fedele al periodo storico... più o meno come tutte le mie sintesi e le mie prove, fatte prevalentemente in maniera "old style" o "vintage", come meglio preferiamo dire.

La reazione che avviene tra iodio e cloruro di mercurio è la seguente:

HgCl2 + I2 --> HgICl + ICl

dove si viene a formare proprio il cloruro di iodio, buon reattivo per i doppi legami, che vengono saturati da entrambi gli alogeni.

Ho proceduto in tal modo:

- Sciogliere 3 g di HgCl2 in 25 ml di etanolo ed altrettanto fare con 2,7 g di iodio, mescolare le soluzioni e portare a 100 ml.
Questo è il reattivo di Hubl originale, che contiene in un ml 0,0172 g di ICl.
Porre in una capsulina bianca 10 ml di cloroformio, 5 gocce di reattivo e tenere per la prova di confronto.
In un'altra capsula porre 1 ml di olio e 10 ml di cloroformio, mescolando fino a soluzione.
Titolare ora lentamente con il reattivo, mescolando ogni volta, fino a che la soluzione abbia lo stesso colore giallastro della prova in bianco.
Si nota che ad ogni aggiunta, aspettando un poco, avviene la decolorazione del reattivo, indice dell'avvenuto legame degli alogeni (si lega sia lo iodio che il cloro) al doppio legame dell'acido oleico e di eventuai alri insaturi.
L'acido oleico è infatti un acido insaturo e ha un doppio legame in questa posizione

CH3-(CH2)7-CH=CH-(CH2)7-COOH; alogenando si viene a formare CH3-(CH2)7-CHI-CHCl-(CH2)7-COOH

Allo stesso modo avviene per l'acido linoleico, doppiamente insaturo, presente anch'esso in discreta quantità nell'olio di oliva.
La decolorazione avviene all'inizio lentamente, poi in maniera veloce e ritorna più lenta verso la fine; attendere quindi qualche minuto prima di procedere con le ulteriori ultime aggiunte.
Nella mia prova sono stati consumati 26 ml di reattivo e la foto mostra il colore delle due capsule alla fine della reazione, quando ho considerato finita la titolazione.

Per non appesantire il discorso ometto i calcoli per risalire al numero di iodio del mio olio, che comunque mi ha dato un valore di 88, in linea con i valori dell'olio di oliva, che possono variare a seconda del tipo e della provenienza tra 80 e 88.

(Nel mio caso si trattava di un olio della riviera gardesana, che detto per inciso è un'eccellenza...).

Come dicevo in altra occasione, le analisi dell'olio sono tantissime; il mio valore 88 per il N.I. vuole comunque essere puramente indicativo e non ne scommetterei l'esattezza se comparato con quello ottenuto con i moderni metodi strumentali (probabilmente è sbagliato di qualche punto per eccesso).

Ho fatto questo test con il solito spirito: sembra impossibile ai più, ma la chimica per qualcuno è, oltre che una soddisfazione culturale, anche e soprattutto divertimento!

 
 
 

Termocromatismo del Tetraiodomercurato rameoso

Post n°136 pubblicato il 18 Ottobre 2011 da paoloalbert

Alcune sostanze si comportano in modo strano a seconda delle condizioni a cui sono sottoposte: c'è chi mostra fluorescenza, chi fosforescenza, chi piezoelettricità, chi piezoluminescenza, chi termoconduttività... ecc.... e c'è chi mostra il fenomeno del termocromatismo (o termocromismo), cioè il colore mostrato dalla sostanza è funzione della temperatura.

Vedere una sostanza colorata che cambia completamente aspetto scaldandola è suggestivo.
L'esempio più classico e semplice è dato dall'ossido di zinco, che è bianchissimo a freddo e giallo limone se scaldato a qualche centinaio di gradi.
Ma c'è un composto particolare e poco comune che cambia nettamente colore a una temperatura molto più bassa e gestibile, circa 70 gradi, ed è il tetraiodomercurato rameoso Cu2HgI4.

Questo composto è di un bel rosso vermiglione a freddo e diventa marrone scuro, quasi nero, alla temperatura di transizione.
Il motivo del cambiamento di colore risiede nella struttura cristallina, che è variabile a seconda della temperatura e permette migrazione di ioni da una parte all'altra del cristallo tetraedrico.
Come vedremo questa migrazione produce anche una notevole variazione nella conduttività elettrica tra lo stato a freddo e a caldo.
Non è questo il luogo adatto ad approfondimenti teorici, che si possono reperire facilmente in rete, e passiamo quindi subito alla fase sperimentale pratica con questa interessante sostanza.

Innnzitutto occorre produrlo, il Cu2HgI4!
Vi sono un paio di metodi, che essenzialmente combinano lo ioduro di mercurio con lo ioduro di rame in ambiente riducente.
Il metodo migliore parte da HgCl2, che addizionato di ioduro di potassio in eccesso forma lo iodomercurato di potassio, K2HgI4 solubile; si aggiunge poi solfato di rame CuSO4 e nella soluzione è fatta passare una corrente di anidride solforosa SO2 finchè tutto lo iodomercurato rameoso rosso è precipitato.
Questo metodo presuppone però l'impiego di SO2 gas, che è molto scomodo.
Un metodo alternativo più semplice, quello che ho seguito, è il seguente:

- in una beuta da 50 ml sciogliere 1,25 g di CuSO4 in 10 ml di acqua leggermente acidulata con acido acetico; aggiungendo a questa una soluzione di 2 g di KI in 10 ml di acqua si formerà un precipitato bianco di ioduro rameoso CuI. Aggiungere alla miscela 0,4 g di sodio solfito Na2SO3 disciolti in una ventina di ml di acqua, mescolare bene e filtrare il precipitato su buchner, lavando una volta.
Sciogliere in un becker da 150 ml 0,81 g di nitrato di mercurio Hg(NO3)2 in 50 ml di acqua e aggiungervi 1 g di KI sciolti in 50 ml di acqua; si formerà un precipitato rosso di ioduro di mercurio HgI2.
Aggiungere a questa sospensione lo ioduro rameoso prima preparato e portare a leggera ebollizione per un quarto d'ora.
Filtrare a caldo il precipitato rossastro, lavando bene, e lasciar essicare.

Scaldare in capsula a bagno maria bollente il prodotto, mescolandolo con una spatolina per qualche minuto, fino a sicura essicazione; durante il riscaldamento si nota il primo cambiamento di colore a circa 70° e da questo momento in poi il termocromatismo è perfettamente reversibile, un bel rosso a freddo e marrone molto scuro a caldo.
Con un sistema simile a quello usato per determinare il punto di fusione di una sostanza, si può verificare l'esatta temperatura di transizione, che dovrebbe essere tra i 67° e i 71°.

Ecco le foto di una piccola quantità di Cu2HgI4 nelle due situazioni freddo-caldo: la variazione di colore, pur con un punto di transizione così basso, è veramente marcata!

 

Tetraiodomercurato rameoso  Tetraiodomercurato rameoso 1

 

 

 

 

 

 

Le caratteristiche di questo interessante composto iodo-cupro-mercurico non finiscono qui: come dicevo all'inizio, esso al variare della temperatura mostra anche una notevole variazione di conduttività elettrica, che ho voluto investigare quantitativamente nei limiti dei miei mezzi, costruendo un piccolo dispositivo espressamente dedicato a questa prova.


E' quanto vedremo nella seconda parte di questo lavoro.

 
 
 

Sintesi dell'Acetato di metile

Post n°135 pubblicato il 14 Ottobre 2011 da paoloalbert

Come dico spesso, ogni tanto arriva inevitabile la sintesi di un estere.
Purtroppo gli esteri degli acidi grassi inferiori e di primi alcoli non sono moltissimi, e quindi ogni tanto ne faccio uno con il metodo Fischer, distanziandoli opportunamente perchè me li tengo razionati, non voglio finirli tutti troppo rapidamente!
Mi piace particolarmente fare gli esteri e sentirne poi il profumo.

Il secondo estere a partire dall'inizio mi mancava (il primo è il formiato di metile, ma questo credo che non lo farò perchè troppo volatile, 31,5°) e quindi oggi è toccato all'acetato di metile.

Andiamo quindi ad apparecchiare la cucina: lo chef richiede oggi poca roba, è un piattino estivo molto semplice e fresco, di sicuro risultato e di buon gradimento... olfattivo.
Ci serve naturalmente dell'acido acetico, dell' alcol metilico ed un pochino di acido solforico come catalizzatore acido/disidratante.
Le pentole saranno un refrigerante Allhin e uno Liebig, oltre ad un palloncino ed una beuta di raccolta.
Tutte cose che in qualsiasi cucina chimica certo non possono mancare.

Allora, in barba a quei "chimici teorici" che non volendo sporcarsi le mani paragonano i chimici sperimentali a dei cuochi, mi dichiaro apposta cuoco chimico ruspante e così procedo:

 

Metile acetato

 

-In un pallone da 250 ml porre 100 ml di acido acetico, 20 ml di metanolo e 4 ml di H2SO4 concentrato. Dati i vicini punti di ebollizione del metanolo (64,7°) e del metilacetato (57°) ho usato un grande eccesso di acido rispetto all'alcool (più di 3:1) in modo da spostare l'equilibrio a destra il più possibile verso una esterificazione abbastanza completa ed aver meno problemi nella separazione finale.
Mettere a riflusso per almeno quattro ore.
Il metilacetato è solubile anche in acqua e pertanto non è possibile una separazione e lavaggio preliminari, quindi si procede subito alla distillazione, raccogliendo poco meno di 30 ml di prodotto (insistendo passa acqua e acido acetico).
Aggiungere al liquido una punta di spatola di NaHCO3 solido per elminare l'acidità residua della prima distillazione e quindi ridistillare per l'ulteriore purificazione, raccogliendo fin verso i 60°.
Seccare l'estere lasciandolo a contatto una mezz'ora con un un disidratante adatto (in questa occasione ho usato il solfato di rame anidro).
La resa è stata di 23 ml (21 g), circa il 55%, d. 0,93 e p.e. 57°
La bassa resa conferma che l'acetilazione dei due primi alcoli C1 e C2 è abbastanza difficile, poichè anche il classico acetato di etile non è semplice a farsi con alta resa.
L'acetato di metile si presenta come un liquido limpido volatile, di odore molto piacevole, somigliante all'omologo estere etilico, ma più brusco e un po' più "acetoso".

Stavolta non ho messo fotografie della sintesi, perchè si assomigliano tutte e hanno poco significato; in ogni caso... la saga degli esteri continua!

 
 
 

Cannelli ferruminatori in azione!

Post n°134 pubblicato il 11 Ottobre 2011 da paoloalbert

In occasione del post sui ricordi di scuola ho accennato all'impiego del cannello ferruminatorio; naturalmente si parla a proposito di quegli studenti di chimica che, come me, frequentavano qualche anno fa laboratori dove ancora nessun "apparecchio con la spina" aveva preso piede.
A dir il vero non è proprio corretto, perchè qualcosa con la spina c'era: nel laboratorio di chimica-fisica ricordo due inavvicinabili, orgogliosi e "modernissimi" piaccametri elettronici della Beckmann... a valvole naturalmente!
E poi, siamo sinceri, anche la centrifuga non aveva forse la spina per il suo bravo motore elettrico?

I piaccametri li ricordo benissimo perchè, per me che ero stralunato anche nei riguardi dell'elettronica, avevano come indicatore la valvola 6E5GT, uno di quegli "occhi magici" delle antiche radio, con un iride luminescente verde che si apriva e chiudeva secondo l'intensità del segnale, nel caso specifico secondo le indicazioni della sonda al calomelano.
Bella valvola la 6E5, poi sostituita dalla EM81 "a sipario" e ancora dopo dalla EM84 "a doppia striscia" e dalla DM71 "a punto esclamativo" nei registratori Geloso...
Ma dove sono andato a finire? Mi sono messo a divagare sugli occhi magici, torniamo ai cannelli!

L'amico Simone mi ha chiesto come si usavano: ecco come.

Le riduzioni sul carbone al cannello ferruminatorio facevano parte dei cosiddetti "saggi preliminari" di una analisi inorganica. Ognuno di noi aveva a disposizione (comprandolo, è chiaro!) un bel blocchetto di carbone di legno di tiglio, una specie di mattoncino resistente lungo un palmo.
Si praticava in un punto una fossetta nella quale si mescolava una piccola quantità della sostanza da analizzare assieme al doppio di soda anidra (Na2CO3) e con l'ausilio del bunsen e del cannello si scaldava nella fiamma riducente luminosa.

Il cannello ferruminatorio non era altro che un tubicino di ottone lungo una trentina di centimetri, rastremato in più sezioni e con la punta piegata a L; soffiando nella parte di maggior diametro, si poteva dirigere il dardo concentrato dove si voleva.
[Se mai riuscirò a ritrovare il mio, metto una foto a tutto blog!]

Essendo il carbone poroso, le sostanze facilmente fusibili come gli alcali sono assorbite, e le altre trasformate prima in carbonati, poi in ossidi e per ulteriore riduzione in metallo.
Così per esempio il Cu, Pb, Fe, Ni, Co, Sn... originano un globuletto o laminette metalliche visibili con un po' di attenzione.

Metalli volatili come Zn, Cd, As, si ossidano comunque e danno un'aureola caratteristica nella direzione opposta a cui si soffia: gialla a caldo e bianca a freddo per lo zinco, marrone per il cadmio, bianca e volatile per l'arsenico (oltre all'odore agliaceo).
Piombo, bismuto e stagno, danno sia il globuletto sia l'aureola.
I metalli alcalino terrosi danno ossidi bianchi fortemente splendenti alla fiamma ossidante ad alta temperatura, mentre borati e fosfati formano una massa vetrosa.

Si possono riconoscere al carbone anche alcuni sali, per esempio i nitriti, nitrati, clorati, che riscaldati producono microscopiche "deflagrazioni" e certi altri (NaCl per es.) che producono "crepitazione".
Tutto a discrezione della bravura dell'operatore, che spaziava naturalmente da chi "vedeva sempre tutto" a chi "non vedeva mai un c..."

Naturalmente dopo un po' di tempo il mattoncino di tiglio era tutto bruciacchiato e pieno di aloni e residui di ogni tipo e andava cambiato... ma nel frattempo l'anno scolastico volgeva al terzo trimestre e si passava magari a qualcosa di più "tecnologico", magari andando nel divertentissimo (almeno per me!) Laboratorio di Chimica Organica, al quale ancora oggi assegno con onore le iniziali maiuscole.

Tutto molto empirico vero? Certo, molto empirico se vogliamo, ma anche molto divertente!
Poteva essere un lunedì mattina? Due ore alla ricerca di anioni e cationi, e...
...martedì pomeriggio? Tre ore di laboratorio di organica --> che puzze, ma che spasso ragazzi!

 

 
 
 

Sfondi d'autunno

Post n°133 pubblicato il 08 Ottobre 2011 da paoloalbert

Oggi, 8 ottobre, al tramonto.

Guardando verso ovest...


8 ottobre

 

...le magie d'autunno.

 
 
 

DDR, Cumene ed esperimenti

Post n°132 pubblicato il 07 Ottobre 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Dando un'occhiata alla mia piccola biblioteca virtuale di chimica organica preparativa mi è capitato di sfogliare un libro edito nel 1972 nella DDR, l'ex Repubblica "democratica" tedesca.

(A proposito, diffidare SEMPRE degli stati che hanno gli aggettivi "democratico" o "popolare" nella propria definizione: la vita in quei paesi è inesorabilmente opposta alla democrazia ed il popolo non partecipa di certo al governo... gli esempi certo non mancano).

In ogni modo, democratica o no, la Germania si è storicamente dimostrata fondamentale nella storia della chimica, soprattutto quella preparativa e industriale, ed anche la DDR del muro non era certamente da meno.
Il libro in questione è il Weygand-Hilgetag e suddivide il proprio contenuto (a cura di molti Autori) in maniera un po' insolita, come segue:

A- Reazioni in cui elementi diversi entrano in legame col carbonio
B- Reazioni dove si viene a formare un nuovo legame carbonio-carbonio
C- Reazioni dove viceversa si ha rottura del legame carbonio-carbonio
D- Reazioni nelle quali avvengono riarrangiamenti nella molecola

Un paragrafo della sezione B parla della alchilazione di composti aromatici per condensazione tra l'-Ar di un idrocarburo e l'-R di un alcol per eliminazione rispettivamente di idrogeno e dell'ossidrile e formazione di un nuovo composto a più atomi di carbonio.
Ho trovato una sintesi fattibile e ho voluto provare, anche se la procedura era descritta molto sommariamente e le speranze di buon esito erano abbastanza aleatorie (come poi si sono effettivamente dimostrate!).

Si tratta della sintesi del cumene (isopropilbenzene) per condensazione in ambiente acido del benzene con l'isopropanolo.
Qualche affezionato lettore penserà a questo punto che mi interessasse anche sentir l'odore del cumene... indovinato, proprio così!

La reazione di massima è la seguente:

 

Cumene

 

Seguendo e integrando la striminzita procedura del Weygand, ho proceduto in questo modo:

-In un pallone a due colli da 250 ml intodurre 200 ml di H2SO4 all'80%, 25 g di benzene e 9,5 g di isopropanolo.
Si noti l'enorme eccesso ponderale di acido rispetto agli altri componenti.

Agitare bene e porre a riflusso per tre ore a 65°- In realtà a questa temperatura non bolle niente, si potrebbe forse evitare il refrigerante a ricadere.
Le fasi (una molto pesante e una molto leggera) si dividono inesorabilmente e occorre agitare di frequente; per questo motivo io ho lasciato reagire più a lungo delle tre ore, sperando di supplire in qualche modo all'eterogeneità della miscela, che non vuole rimanere in contatto.
Alla fine dopo raffreddamento decantare accuratamente la fase acida inferiore con un imbuto separatore e porre il residuo di colore bruno scuro in un palloncino da 100 ml per la successiva distillazione (vediamo cosa verrà fuori...).

Questa è stata la fase più frustrante, perchè in pratica è uscito quasi tutto il benzene indecomposto e quando la temperatura avrebbe dovuto salire fino ai 152° (p.e. del cumene) il palloncino era ormai quasi a secco!

Morale 1: resa praticamente zero, reagenti sprecati!

Morale 2: niente è del tutto sprecato, una esperienza in più rimane comunque ben salda.

Però se non altro l'odore penetrante e caratteristico del cumene l'ho sentito bene ed ora lo saprei riconoscere: l'unico accostamento che mi viene di fare per rendere l'idea è che assomiglia abbastanza alla trementina naturale (la somiglianza molecolare terpenoide c'è!).

Ecco il resoconto in diretta di come può nascere una sintesi nel lab di Paoloalbert; ogni tanto, come le famose ciambelle col buco,  deve capitare una sintesi poco fortunata come questa, altrimenti sarebbe troppo bello!
Ora ritorniamo di là, c'è tutta la vetreria da pulire, altri reagenti scalpitano per sposarsi...


 
 
 

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