Creato da paoloalbert il 20/12/2009

CHIMICA sperimentale

Esperienze in home-lab: considerazioni di chimica sperimentale e altro

 

Messaggi di Novembre 2011

Cara vecchia radio a galena

Post n°147 pubblicato il 29 Novembre 2011 da paoloalbert

L'antefatto

La mia passione per l'elettronica  ha origine in tempi remoti della mia infanzia (quella per la chimica va in parallelo, ma forse ne ho già parlato) e deve la sua causa probabilmente alla radio a galena costruita da mio padre.
Mio padre, trovatosi fortunosamente "ritirato nei boschi" assieme ad un gruppo di altri amici e compagni di sorte dopo l'otto settembre '43, viveva in quel periodo praticamente alla macchia in una zona montuosa e difficilmente accessibile ai raid tedeschi; in pratica faceva il partigiano (uso questo termine in modo assolutamente alieno da ogni connotazione politica).

L'ascolto di Radio Londra (quella originale del colonnello Stevens naturalmente!) era in quei tempi di guerra civile di notevole importanza, non tanto per i famosi messaggi speciali destinati a gruppi combattenti ben più numerosi ed organizzati, ma per avere un'idea reale e non di propaganda della situazione bellica e politica: c'era finalmente speranza che i tedeschi risalissero la valle dell'Adige diretti a Nord?
Da Radio Londra lo si poteva sapere... anche senza avere una radio vera e anche nelle case di montagna senza elettricità!

Per questo mio padre costruì la radio a galena, quella che poi io trovai un paio di decenni più tardi da bambino fra le cose residue di quei tempi tragicissimi.

Oggi questo magico ricevitore è diventato un simbolo (spesso incompreso!) proprio del periodo che ho appena citato; in qualche fiera se ne trovano addirittura delle pessime riproduzioni moderne dal sapore "vintage" alquanto artefatto.
Perchè ricevitore magico? Mi pare proprio il termine più significativo per definire un ricevitore del tutto privo di alimentazione: non ha batterie e non viene collegato a nessuna fonte di energia!
Ma da dove la prende allora per funzionare, visto che senza energia nulla si muove nell'universo?

Come funziona?

Anche se si trovano in rete infinite notizie su questo argomento (non c'è che l'imbarazzo della scelta!), dirò due parole alla mia maniera sul suo funzionamento.
Vediamo lo schema elettrico, nella sua versione più semplice possibile:

 

Radio galena

 

Dove si legge "diodo al germanio" si sostituisca il componente (che allora non esisteva) con l'originale "cristallo di galena" (PbS).

Quella minimissima energia elettromagnetica che arriva... diciamo da Londra, entra nell'antenna (un filo lungo almeno una ventina di metri teso più in alto possibile), percorre la bobina L e si scarica a terra (un paletto conficcato in zona umida).
Pertanto se la bobina L è percorsa da una certa corrente, ai suoi capi si instaurerà una certa tensione.

Il circuito formato dalla bobina L e dal condensatore C in parallelo, diventa "risonante" su una determinata frequenza (quella della stazione che si intende ascoltare) quando il valori di L e di C sono opportunamente dimensionati, e per questo la capacità del condensatore è variabile con una manopola.
In queste condizioni il valore di tensione ai sui capi aumenta enormemente, pur trattandosi di piccolissime frazioni di volt.

Questa piccolissima tensione in alta frequenza captata dall'antenna e per così dire "amplificata" per risonanza da L e C viene ora raddrizzata" dal diodo, ovvero la corrente alternata viene trasformata in corrente continua.

In questo modo la componente in alta frequenza del segnale viene eliminata e rimane dopo il diodo solo la bassa frequenza audio derivata dalla modulazione del segnale (qui devo fare un piccolo ma doveroso omissis, altrimenti non ce la caviamo più!).
Passato il diodo, il segnale ormai a frequenza acustica viene mandato alla cuffia (di tipo particolare ad alta impedenza, non come quelle moderne), dove riesce, nonostante la minima potenza, a far vibrare una sottile lamina metallica trasducendo in tal modo l'energia elettrica in energia vibrazionale meccanica, e quindi in suono udibile.
Attenzione, tutto questo con solo quattro componenti e un po' di filo!

Ma non ho ancora detto perchè si chiama radio a galena.

Si chiama così perchè un cristallo naturale di solfuro di piombo (galena, appunto) può comportarsi da "raddrizzatore" in alta frequenza e questo effetto "raddrizzante" viene detto "rivelazione" del segnale e ne permette il suo ascolto in cuffia, come abbiamo visto sopra.
L'indispensabile diodo era costituito da un cristallo di PbS sfiorato in un punto da un sottile filo di acciaio.
Oggi per ottenere lo stesso risultato non si usa ovviamente più uno scomodo cristallo di galena pochissimo sensibile ma si usano diodi semiconduttori di ben altra tecnologia.

Per tener fede allo spirito pratico-sperimentale del blog, concluderò queste riflessioni con qualche foto della "mia" radio a galena; purtroppo non è quella originale di mio padre, la quale, poverina, mai sarebbe potuta sopravvivere indenne ai massacranti "esperimenti" del giovane sottoscritto...

 
 
 

Sintesi del Bromuro di n-amile (seconda parte)

Post n°146 pubblicato il 24 Novembre 2011 da paoloalbert

Allora oggi dobbiamo bromurare l'alcol amilico.
Sarà un lavoro piacevole perchè gli alogenuri alchilici mi sono particolarmente simpatici.

Applicherò il terzo metodo di alogenazione che abbiamo visto l'altra volta (alcol + acido alogenidrico), per tre motivi:

1- i primi due metodi sono per lo più industriali e non hanno senso in laboratorio
2- il metodo con i trasportatori di alogeno l'avevo già sperimentato più volte
3- avevo un po' di acido bromidrico da buttare nella mischia (mi diceva in confidenza che era stufo di languire ozioso nella bottiglia...).

Forte della terza motivazione, accontentiamo allora il rude acido bromidrico e andiamo a celebrare questo suo matrimonio con il mite pentanolo.

 

Amile bromuro 1

 

Materiali occorrenti

-Acido bromidrico 48% (va bene anche a titolo leggermente inferiore)
-Alcol n-amilico (1-pentanolo)
-Acido solforico
-Allhin, Liebig e vetreria opportuna

Amile bromuro 2In pallone da 100 ml introdurre 50 g (34 ml) di acido bromidrico al 48% e 14,5 g (8 ml) di H2SO4 in piccole porzioni, agitando e raffreddando con acqua; si può svolgere una piccola quantità di HBr e la soluzione si colora in arancione.
Aggiungere 21 g (26 ml) di 1-pentanolo, seguito da ulteriori 24 g (13 ml) di H2SO4 conc. in piccole porzioni agitando.


Amile bromuro 3

 

 

 

Porre a leggero riflusso per 2-3 ore, eventualmente con l'apparato per l'assorbimento acido come si vede in foto; ho notato però che praticamente quasi nulla sfugge dalla bocca del refrigerante.

L'alchilbromuro si separa sopra la miscela acida e può essere separato facilmente.
Mettere in imbuto separatore ed eliminare l'acido residuo. Lavare poi inizialmente con una ventina di ml di HCl conc., che elimina l'alcol residuo, e poi con acqua.

Eliminare l'acidità con una soluzione al 5% di Na2CO3 ed infine ancora con acqua fino a sicura neutralizzazione, separando bene ogni volta.


Amile bromuro 4Predisporre quindi il refrigerante Liebig e distillare fin quasi a secchezza il grezzo preventivamente preparato, raccogliendo tra 127-132° (praticamente passa tutto in questo range).

Alla fine seccare il distillato con poco CaCl2 per almeno un'ora.
La resa è stata dopo tutti i passaggi migliore di quella che mi aspettavo, 27 g (22 ml, circa 89%)

 

 

 

 

Il bromuro di n-amile si presenta come un liquido limpido pesante (d. 1,22, p.e. 130°), di odore etereo pesante ma piacevole.

 

Amile bromuro 5

 

Ora il nostro alogenuro è pronto per la futura sintesi di un olezzantissimo tiolo!

Quando si parla di tioli il problema "ambiente" si fa arduo, nel senso che è assolutamente improponibile fare queste preparazioni in laboratorio (se lo stesso non è munito di una efficientissima cappa!) perchè l'odore di questi composti col gruppo -SH (l'amilmercaptano è prorio uno di quelli giusti...) è davvero insopportabile ma soprattutto è molto persistente e dove si attacca rimane, vestiti compresi.
Dovrò pertanto trasferire all'esterno tutto il setup per la sintesi e per far questo occorre che la stagione sia bella calda e confortevole.

Se ne riparlerà quindi a tempo debito... per ora conserviamo con cura l'1-bromopentano nella sua bottiglietta scura, in attesa di essere sacrificato a miglior gloria, tanto lui (l'abbiamo visto dalla tabella) non vede l'ora di reagire con qualcuno!

 
 
 

Gli Alogenuri alchilici (prima parte)

Post n°145 pubblicato il 21 Novembre 2011 da paoloalbert

Gli alogenuri alchilici, di formula generale R-X (R = radicale alchilico, X = Cl, Br, I) sono dei reagenti fondamentali per la chimica organica; oltre agli importantissimi reattivi di Grignard possono dare una bella serie di sostituzioni nucleofile, che avvengono naturalmente ognuna nelle condizioni adatte:

     Alogenuri alchilici

Mi sembra possa bastare...

Ma come si possono preparare gli alogenuri alchilici?

1- Per alogenazione diretta degli alcani

R-H + X2 --> R-X + HX

2- Per addizione di acidi alogenidrici agli alcheni

R1R2=C=R3R4 + HX --> R1R2XΞC-CΞHR3R4

3- Per reazione degli alcoli con acidi alogenidrici

R-OH + HX --> R-X + H2O

4- Per reazione degli alcoli primari e secondari con opportuni trasportatori di alogeno, come PCl3, PCl5, SOCl2;

R-OH + SOCl2 --> R-Cl + HCl + SO2

In vista di impiego futuro di un alogenuro alchilico, ho fatto la sintesi del bromuro di n-amile (1-bromopentano) usando il terzo metodo sopra elencato.

Uno degli scopi principali della sintesi era la preparazione successiva dell'amilmercaptano (1-pentantiolo), sfruttando la reazione indicata nella quinta riga della tabella sopra riportata;  ho già fatto un test in tal senso ed in futuro presenterò la sintesi nei dettagli.

Nella seconda parte dirò della preparazione pratica del bromuro di n-amile.

 
 
 

Elettroalberello di Saturno

Post n°144 pubblicato il 18 Novembre 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Sembra strano, ma nella vecchia quanto ufficiosa nomenclatura chimica esistevano pure gli alberi, per lo più dedicati all'antica mitologia: e così c'è l'albero di Diana, l'albero di Marte, quello della Luna... e quello di Saturno.

E' chiaro che se si parla di Saturno, in chimica, il pensiero corre subito al piombo.
Non si chiama forse saturnismo l'avvelenamento cronico causato da questo metallo?
Non si chiamava forse zucchero di Saturno un suggestivo nome dell'acetato di piombo?

C'è la possibilità di provarne a fare uno di questi alberelli: facciamolo allora!

Questo esperimento l'ho chiamato elettroalbero perchè la deposizione del metallo avviene per via esclusivamente elettrica, non elettrochimica per spostamento metallo/ione; si tratta di una elettrolisi in senso stretto, facile e carina.
I risultati vengono abbastanza diversi ogni volta che si cambiano i parametri di lavoro, si può quindi sperimentare a piacere e i risultati sono sempre diversi e belli da vedere.
Io ho fatto nel modo seguente, provate magari a variare i tre fattori: concentrazione, corrente e tensione.

- Preparare una cinquantina di ml di soluzione al 10% di nitrato di piombo e aggiungervi un paio di ml di HNO3; porre in un Petri o in un cristallizzatore in modo che il livello di liquido sia abbastanza sottile.
Come elettrodi ho usato una lamina di piombo all'anodo ed un filo dello stesso metallo al catodo. La soluzione è molto conduttiva e bastano pochi volt per avere una corrente di parecchi mA, quindi non esagerare con la tensione.
Dopo pochi minuti si vede già il deposito catodico sotto forma di cristallini/laminette di piombo metallico splendente, che appaiono come belle ramificazioni dendritiche.

In una ventina di minuti la deposizione si ramifica verso l'anodo ed è completa.
In mancanza di elettrodi di piombo si può usare il filo per le saldature della vecchia lega Sn/Pb.
E' opportuno che l'anodo abbia superficie maggiore, ed il catodo sia filiforme.

Con il minimo di teoria si può dire che il -Pb2+ al catodo acquista 2 elettroni e si riduce a metallo, mentre all'anodo succede esattamente l'inverso, il Pb si ossida e passa in soluzione come -Pb2+.
Se la soluzione non fosse un po' acida si avrebbe alcalinizzazione 2 H2O + 2e --> H2 + 2 OH- e formazione di torbidità dovuta all'idrossido di piombo, cosa evitata dalla presenza dell'acido nitrico.

 

Saturno 1

Saturno 2

 

In alto si vede parte dell'anodo e sotto il filo catodico ricoperto dall'alberello ad aghetti e squamette del metallo saturnino che sta crescendo.


A proposito di alberi: se avessi ancora un po' di vetro solubile (il vetro solubile è silicato di sodio, una sostanza che in un lab non serve proprio a niente!) riproverei a fare il vaso col giardino chimico, una delle prime cose che preparai qualche annetto fa: ci starebbe bene come giocoso intermezzo in qualche parte del blog, come un vaso di fiori sulla finestra.

In mancanza, ci metto questo elettroalberello.

 
 
 

L'apparecchio di Marsh

Post n°143 pubblicato il 14 Novembre 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Una volta (non l'anno scorso, un po' di più...) bastava andare dallo speziale, dire di essere perseguitati dai topi, chiedere una bustina di "arsenico" ed il gioco era fatto: ecco una decina di grammi di bianca anidride arseniosa a disposizione per qualsiasi evenienza!
Se poi "l'evenienza" consisteva nell'avvelenare il marito dopo il giusto tempo per non destare sospetti, chi se ne sarebbe accorto?
Valli poi a trovare i milligrammi di As2O3 nelle viscere del malcapitato!

Ma poi, nel 1836, a dare una mazzata alle avvelenatrici (come si sa l'uso del veleno è da sempre prevalente appannaggio del gentil sesso!) è arrivato l'apparecchio di James Marsh...

 

Marsh apparecchio

 

Ecco dettagliatamente in cosa consiste e come veniva adoperato questo geniale congegno per la ricerca dell'arsenico, in uso dalla sua invenzione e fino ad una cinquantina di anni fa o anche meno.

Nel matraccio di sinistra K di circa 150 ml vengono posti circa 7 grammi di zinco granulato, assieme a 20 ml di acido solforico diluito (1 a 7); si ha un regolare sviluppo di idrogeno, che viene essiccato dal cloruro di calcio presente nell'essicatore C e che dopo una ventina di minuti avrà scacciato tutta l'aria presente nell'apparecchiatura.
Si accende ora l'estremità di B (a destra), dove il gas produrrà una piccola fiammella di 2-3 mm; si regola la costanza di tale efflusso raffreddando o riscaldando opportunamente il matraccio.
Naturalmente è essenziale che tutti i reagenti adoperati siano assolutamente esenti da impurezze arsenicali, e ciò viene preventivamente verificato scaldando fortemente il tubo B: se nei primi venti minuti NON si ha formazione di uno specchio nero nel capillare finale a destra i reagenti si possono considerare puri e idonei alla prova.
(Tracce di arsenico potrebbero essere contenute sia nello zinco sia nell'acido solforico).

A questo punto si accende il bunsen sotto il tubo infusibile A e si versa nell'imbuto graduato T la soluzione da analizzare, acidificata con acido solforico; devono essere del tutto assenti sostanze organiche, ossidanti, cloruri e solfuri, e pertanto la soluzione deve essere opportunamente e accuratamente preparata.
Ometto i particolari di questa preparazione, lunga e laboriosa, poichè non credo proprio che a qualcuno possano interessare dettagli fino a questo livello...

Se la sostanza da analizzare contiene arsenico, per l'azione dell'idrogeno nascente sviluppato dallo zinco in ambiente acido si viene a formare nel matraccio K una certa quantità di idrogeno arseniato, o arsina AsH3, per esempio:

As2O3 + 12 H --> 2 AsH3 + 3 H2O

Questo gas, passando attraverso il tubo rovente A viene scisso in idrogeno e arsenico, il quale si deposita in forma di specchio nero nel capillare d, raffreddato da un filo d'acqua che cade dalla capsula W.
Ottenuto lo specchio, si taglia il tubo un po' oltre il capillare e lo si può comparare con altri ottenuti da quantità note di arsenico e poi si eseguono le prove di conferma.
A tal fine si riscalda il capillare a piccola fiamma tenendolo inclinato, in modo che l'arsenico venga ossidato dalla corrente d'aria formando anidride arseniosa As2O3:

2 AsH3 + 3 O2 --> As2O3 + 3 H2O

rilevabile anche per l'odore agliaceo che spande durante il riscaldamento anche a bassissime concentrazioni (ne basta un centesimo di milligrammo).
L'As2O3 si deposita nella parte fredda interna del tubo, in forma di piccolissimi ottaedri splendenti ben visibili con opportuno ingrandimento; ciò in genere basta per la conferma definitiva (vi sono ulteriori prove, che ometto).

Lo specchio di arsenico, a differenza dall'antimonio (anche questo forma lo specchio) è solubile in ipoclorito alcalino, e quindi si può differenziare:

2 As + 5 NaClO + 6NaOH --> 2 Na3AsO4 + 5 NaCl + 3 H2O

La sensibilità dell'apparecchio di Marsh è elevatissima: si possono rilevare quantità di arsenico fino a un decimillesimo di milligrammo, e, notare bene, non con un apparecchio moderno "con la spina" (come io chiamo questi eccezionali apparecchi attuali di analisi di sensibilità spaventosa), ma con della semplice vetreria e qualche reattivo, tutte cose disponibili fin dai primi dell'ottocento!
Poichè tutte le medaglie hanno anche un rovescio, l'estrema sensibilità del metodo di Marsh aveva anche qualche inconveniente, come abbiamo visto l'altra volta sulla pelle della povera Marie Lafarge.

L'apparecchio di Marsh ha comunque contribuito in quel secolo a far diminuire drasticamente i crimini legati all'arsenico, allora molto diffusi, facilitati soprattutto dal "normale" possesso di anidride arseniosa per la lotta alla sterminata popolazione di topi che allora imperversavano sia nel granaio del contadino, sia (e magari soprattutto...) nella cucina della signora contessa!

 
 
 

La chimica ed un lontano processo

Post n°142 pubblicato il 11 Novembre 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Noi siamo ormai avvezzi per sovradosaggio mediatico ad ogni sorta di notizie di cronaca nera, tanto che non ci facciamo quasi più caso (se non nell'immediato), come drogati che devono aumentare sempre la dose di sostanza per risentirne gli effetti, i quali ben presto svaniscono.
Un tempo, neanche tanto lontano, diciamo fino agli anni '50, non era così: un caso giudiziario in cui fossero magari implicati personaggi di un certo livello poteva alimentare commenti e fazioni pro o contro per degli anni se non addirittura per decenni.

Nel 1840, in Francia, avvenne un fatto di cronaca che scosse l'opinione pubblica quasi quanto quello che mezzo secolo dopo sarebbe stato "il caso Dreyfus": fu il processo Lafarge.
Tutta la vicenda sarebbe troppo lunga da raccontare, quindi mi limiterò a dire solo l'essenziale.
I protagonisti sono Marie Capelle e Charles Lafarge, rispettivamente moglie e marito ed appartenenti alla ricca borghesia parigina; a questi si aggiungeranno altri attori importantissimi sotto il profilo di questa storia, e si aggiungeranno (in tema col mio blog!), dal punto di vista "chimico".

Marie Capelle fu accusata pochi mesi dopo le nozze di aver avvelenato il marito con l'arsenico, e condannata fortunosamente solo all'ergastolo e non alla pena capitale; in pratica ciò cambiò poco il suo destino perchè, pur graziata dodici anni dopo, morì appena fuori di prigione.
Ma andiamo in ordine.
La condanna scaturì da una palese serie di errori giudiziari, che scagionando il vero colpevole (che aveva ordito una diabolica macchinazione ai danni di Marie), tenne purtroppo conto solo dell'innamoramento del pubblico ministero per la sua tesi accusatoria, rigettando tutti gli elementi che a questa non fossero allineati.

[La storia si sa non ha tempo, e la situazione è spesso rivissuta in chiave moderna e non solo in ambito giudiziario... Mai ammettere un proprio errore, nemmeno dinanzi alla più palese delle evidenze!]

Elementi determinanti per l'esito del processo a Marie furono quindici perizie medico legali eseguite sul corpo della vittima, allo scopo di evidenziare o meno la presenza di arsenico; quattordici furono del tutto negative, ma la quindicesima (se una cosa la si vuol trovare, prima o poi la si trova!) rilevò "tracce" dell'elemento... e tanto bastò all'accusa e alla giuria.
La vera chiave di volta fu che la quindicesima perizia portava la firma niente meno che di Mateu Josep Bonaventura Orfila!

Orphila, di origini spagnole, era in quel periodo all'apice della fama in Francia e all'estero, membro di un'infinità di istituzioni prestigiose, insomma con un biglietto da visita lungo... mezzo metro!
Un vero luminare in tanti campi, autore di opere di Chimica medica, di Medicina legale e specialmente del famoso "Traitè des poisons", letto e pubblicato in più edizioni in tutta Europa e che fa considerare l'illustre professore come il vero fondatore della tossicologia moderna.
Le sue opinioni erano quindi come oracoli e difficilmente potevano essere contestate da esperti meno titolati; questa posizione psicologica fu sufficiente a neutralizzare tutti gli altri pareri opposti riguardo le perizie medico legali.
Perfino quella del chimico Francois Raspail, che all'epoca godeva nell'ambiente accademico di quasi altrettanta fama dell'illustre avversario.

La questione "arsenico sì-arsenico no" degenerò alla fine quasi in un aperto duello Orfila-Raspail sui metodi di indagine chimica per la ricerca dell'arsenico, che aveva come indiretto protagonista l'inglese James Marsh, inventore solo quattro anni prima di un metodo ultrasensibile per la ricerca del velenoso metalloide.
L'apparecchio di Marsh (del quale parlerò prossimamente) permetteva di rilevare quantità talmente piccole di arsenico (circa un decimillesimo di milligrammo!) che sembrava togliere ogni dubbio alle analisi.
Ma allora, perchè Orfila sbagliò?

Paradossalmente proprio per l'eccessiva sensibilità del metodo Marsh, che rivelò sì le tracce di arsenico nelle analisi tossicologice, ma che non provenivano dai resti di una vittima per avvelenamento ma dalla insufficiente purezza dei reagenti
usati dall'eminente tossicologo in occasione delle prove.
Questo fu appurato in seguito, di fronte ad una commissione nominata dall'Accademia delle Scienze di Parigi, per dirimere la questione una volta per tutte; in quell'occasione Raspail dichiarò nella foga oratoria che avrebbe rivelato la presenza di arsenico perfino nei braccioli della poltrona del presidente della Corte d'Assise!... mentre Orfila non fu in grado di riprodurre la stessa analisi che aveva portato alla condanna dell'imputata.

Ma intanto Marie Capelle era e restava in carcere, nonostante tutte le prove le fossero favorevoli; fu alla fine liberata dall'accanimento giudiziario (mai ammettere i propri errori! mai mollare l'osso azzannato...) grazie all'influenza politica di Luigi Napoleone, nel 1852. Pochi mesi dopo morì di tisi, che aveva contratto in prigione.

Ecco come ancora una volta una perizia che sembra esclusivamente tecnica può rivelarsi drammatica a tutti gli effetti (nel pro e nel contro!) se eseguita con leggerezza, con poca professionalità, o, infinitamente peggio in ambito giudiziario, partendo da tesi preconcette.

 
 
 

Sintesi del Tetraperoxicromato di potassio

Post n°141 pubblicato il 08 Novembre 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Tutti sanno che il cromo prende il nome dal variegato colore dei suoi composti nei diversi stati di ossidazione.
I più comuni sono normalmente due: -Cr3+ di colore verde e -Cr6+ di colore giallo o arancio; nel primo caso il cromo si comporta da classico metallo e nel secondo da metalloide, dando origine ai cromati, CrO4--, isomorfi con i solfati.
Il triossido di cromo CrO3 (di colore rosso scuro) è chiamato infatti anidride cromica (analogamente all'anidride solforica SO3), anche se l'acido cromico H2CrO4 non è conosciuto allo stato libero.

Anche il numero di ossidazione -Cr2+ è abbastanza comune e variamente colorato, dando origne ai sali cromosi, fortemente riducenti e tendenti facilmente ad ossidarsi a cromici -Cr3+, di colore questa volta sul verde.

Stati di ossidazione assolutamente straordinari sono invece per questo versatile metallo i numeri 4 e 5.
Si comporta da tetravalente (4+) nell'esafluorocromato di potassio (K2CrF6), e da pentavalente (5+), con colore blù o marrone, nel bel composto iperossigenato K3Cr(O2)4 o K3CrO8 che andremo a preparare fra un attimo.

 

                                 Potassio tetraperossicromato

La reazione che faremo avvenire è la seguente:

K2Cr2O7 + 4 KOH + 9 H2O2 -> 2 K3CrO8 + O2 + 11 H2O

Materiale occorrente

- Potassio bi(di)cromato K2Cr2O7
- Acqua ossigenata H2O2 al 30/35%
- Potassio idrossido KOH
- Etanolo, etere

La procedura coinvolge sali di cromo esavalente, tossici e potenzialmente cancerogeni, perossido di idrogeno e idrossido di potassio concentrati, pertanto in modo categorico anche questa sintesi NON è adatta a chi lavora con leggerezza.

- In un becker da 100 ml sciogliere 5 g di K2Cr2O7 e 5 g di KOH in 15 ml di acqua; la soluzione gialla di cromato K2CrO4  ottenuta deve essere perfettamente limpida, se non lo fosse filtrare opportunamente.
Preparare in un altro contenitore 40 ml di acqua ossigenata al 15%, diluendo a doppio volume 20 ml di H2O2 a 130 volumi.
Porre i due contenitori in un congelatore e tenerveli finchè la temperatura dei liquidi sia a circa -10°, al limite del congelamento.
In mancanza del congelatore si può usare una miscela di ghiaccio e sale in quantità opportuna (tanta!).
Quando il raffreddamento è effettuato, aggiungere molto lentamente agitando con una bacchetta di vetro l'acqua ossigenata al cromato; esso assumerà inizialmente un colore aranciato e poi via via sempre più scuro, quasi nero.
Tenere la miscela sempre abbondantemente sotto lo zero per almeno un paio di ore, senza più mescolare, lasciando che la reazione si svolga tranquillamente, senza svolgimento tumultuoso di ossigeno.

(Inutile ricordare le precauzioni da prendere in caso di uso di un congelatore domestico per evitare i microspruzzi di cromo esavalente...!).

Alla fine decantare il liquido scuro ma limpido che sovrasta i cristallini scuri che si saranno depositati sul fondo del becker.
Risciacquare due tre volte con 7 ml di acqua molto fredda, ed altrettante con la medesima quantità di etanolo, decantando ogni volta al meglio.
Per favorire la rapida essicazione del prodotto, risciacquare un'ultima volta con una decina di ml di etere.
Porre su carta da filtro e lasciar asciugare.

Il tetraperoxicoromato di potassio si presenta come una polvere microcristallina di colore bruno scuro (non nero), non igroscopica e che si conserva bene senza problemi.
La resa è stata di 5 g, pari al 50% del teorico.

 

Potassio tetraperossicromato 1


La foto è un po' particolare (coerentemente col prodotto!), ed è stata fatta al tramonto con luce radente molto calda e col sostegno di un sassolino; si vede il bel colore marrone carico del prodotto, ma non si apprezza il luccichio dei cristallini, che appaiono come puntini bianchi. Unico modo per vederlo dal vivo è... farlo!

Naturalmente questo composto è estremamente ossidante e non stabile a caldo, dove si decompone in maniera esplosiva, originando cromato, ossido e perossido di potassio. (La reazione dei composti di combustione è infatti fortemente basica).
Per fare il test mettere qualche decina di mg di sostanza su una spatolina e scaldare col bunsen: ecco una bella microesplosione gialla!

La formula di struttura dell'immagine iniziale non è proprio formalmente corretta, ma è quella che rende maggiormente l'idea di questo sale inorganico con la pancia così piena di ossigeno.
Che esso si decomponga facilmente al calore NON significa minimamente che sia da considerarsi come una sostanza esplosiva, ma con i tempi che corrono è bene intendersi...

 

 
 
 

L'ho trovato!

Post n°140 pubblicato il 03 Novembre 2011 da paoloalbert

Ho ritrovato il mio vecchio cannello ferruminatorio di quand'ero studente.
Sapevo di averlo da qualche parte e insistendo son riuscito a scovarlo fra dimenticate cianfrusaglie.
Ora il cannellino si merita, come promesso, una bella foto in primo piano, anzi un articoletto tutto per lui.

 

Cannello 1

 

Prima di tutto, quando si rientra nella civiltà dopo lunghi viaggi in paesi remoti, occorre un bel bagno ristoratore; nel suo caso c'è voluto non un bagno ristoratore ma uno "restauratore", a base di... cartavetrata.
Era tutto ossidato, ora guarda che bell'ottone è riemerso! Ottone doc degli anni d'oro.
(Quando la plastica, questa opportunista che ormai ha vinto tutte le battaglie contro tutti, era ritenuta -seppure col moplen fresco di invenzione- vile, vilissimo materiale, come in definitiva si meriterebbe, la schifosa.
Ma cosa faremmo senza la plastica? Un'automobile di metallo?).

Anche il Figliol prodigo quando è ritornato a casa ha avuto il suo momento di gloria... non vogliamo forse celebrare come si deve questo ambìto ritorno del mio cannello presso di me?
Subito! Apparecchiamo la tavola per far festa e mettiamolo alla prova!
Per continuar la metafora, io non avevo il vitello grasso da ammazzare in suo onore (il bel parallelepipedo di carbone di tiglio) e mi son dovuto accontentare di un bovinello magro e scalcagnato (un carbone del barbecue, sigh!) ma basta il pensiero, no?

Per il pranzo ho deciso di fargli assaggiare tre portate abbastanza buone per lui, che ha dei gusti assai poco umani: il cadmio, il cromo ed il piombo.
Gli altri cationici piatti li assaggerà magari con calma, in seguito.
Ora non sto a riassumere tutta la procedura, che ho già descritta l'altra volta, ma testimonio solo i risultati con qualche foto.

Il cadmio (si trattava di solfuro) ha prodotto quel residuo giallo (ne ho messo un po' troppo, tutta colpa mia per la foga del momento) ma comunque ha formato quell'alone bruno-aranciato caratteristico e inconfondibile di CdO.

 

Cannello cadmio



Il cromo (K2Cr2O7) ha prodotto una macchia verde diffusa di ossido Cr2O3; naturalmente dal vivo il verde su fondo nero si vede molto meglio.

 

Cannello cromo


Il nitrato di piombo Pb(NO3)2 è stato ridotto al suo bravo globuletto metallico, ma come il solito questo era talmente piccolo che è stato impossibile fotografarlo, quindi credetemi sulla parola.

 

Cannello 2


Ora il cannello non scapperà più dal mio lab; lavorerà poco, questo è sicuro, ma avrà il suo posticino d'onore nel cassetto delle cose piccole, starà finalmente in buona compagnia fra burette, pipette, piastrine di porcellana, rotolini per il pH, capsuline, ecc.

Bentornato fra i tuoi amici, cannello!

 
 
 

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