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Messaggi del 06/06/2018
Post n°251 pubblicato il 06 Giugno 2018 da pasquale.zolla
Italiani: popolo di mbókaciucce Da bambino mia madre mi raccontava di un asino scansafatiche che venne issato sul campanile della cattedrale per mangiare dei ciuffi d’erba lì cresciuti, ai quali venivano attribuiti pregi curativi contro la pigrizia. Ma il quadrupede a tutto pensava fuorché a mangiare l’erba niracolosa. Adirati per quel comportamento, per invogliarlo a mangiare accesero dei mannelli di paglia sotto il suo ventre che, bruciando i finimenti, lo fecero cadere a terra e schiattò. Questo per dire che spesso ci si infiamma per qualcosa di eccezionale che ci viene proposto, ma subito dopo si va in tilt perché sono solo balle create ad hoc. Da sempre in politica le promesse hanno acceso gli italiani di speranze per un benessere a portata di mano da cogliere ad ogni nascita di un nuovo governo, ma che poi sono rimaste finite nel vuoto. Oggi ci si accapiglia per il nuovo governo Conte, che è stato messo lì per un “contratto” stipulato da due partiti che in campagna elettorale avevano promesso mari e monti. Ci si accapiglia e le parole offensive di questo e di quello, pro o contro, sono diventate all’ordine del giorno, per cui viene fuori anche il termine “cafone”. Ai tempi della mia fanciullezza il cafone era il contadino che andava a lavorare nei campi. E a Lucera, a quei tempi, il lavoro era quasi esclusivamente agricolo, in quanto quasi tutte le famiglie avevano un pezzetto di terra da coltivare ad orto per i propri bisogni, tanto che Pasquale Soccio nel libro “Lucera minore” definì i lucerini popolo di ortolani. Oggi il termine cafone viene usato per definire una persona dai modi incivili e rozzi. Ignazio Silone nei suoi romanzi indicava come cafone il contadino ingenuo, appena possibile cattivo, ma più facilmente beffato a sua insaputa. Egli s’illudeva che un giorno il significato di cafone avrebbe avuto una valenza positiva, motivata dal cambiamento in meglio del cafone. Cosa che non si è verificato, tanto che il termine continua ad indicare una persona di basso intelletto e bassi istinti e dalle maniere rozze e scurrili, aldilà dello status sociale della persona. Il termine cafone deriva dal verbo cavare “scavare, zappare, rivoltare la terra” e il suffisso –one denota il ripetersi continuato fino all’eccesso dell’attività sostanziata dal verbo. Entrambi i termini, oggi, sono talmente attuali in senso negativo che viene voglia di dire: Ma chi ce lo fa fare ad arrabbiarsi per cose che girano sempre allo stesso modo? A voi italiani l’ardua risposta! U kafòne lucerine U kafòne lucerine éve l’urtulane ka ògnè matine, prime ka u sóle kumbaréve, k’a zappa ngulle è ‘na mappetèlle k’u magnà è nu kuarte de vine nda ‘na buttegghjòzze de gazzòse fóre jéve. ‘Na tèmbe de tèrre éve, pe ghisse, nu sande ka uaréve, reparave è tutte resciuscetave. Nda kuèlla tèmbe i kòse ammalate sanate addevendavene. Ndenéve stòrje da kunde, èppure a nuje krjature, k’a lèmme suje ka u sèmbe rènne rènne jéve, ce anzengave a avè pacènze, a fatekà tuste, a respettà i stagiune, a nne gastemà kòndre lambe è tune ò si l’akkue da ngile nennascennéve pekkè éve p’isse sckitte ‘na perdute de timbe. ‘A sapjènze suje surtande éve gnuranze ka k’a vòkke dì nennusave. Il cafone lucerino Il cafone lucerino era l’ortolano che ogni mattina, prima del sorgere del sole, con la zappa sulle spalle e un fagottino con il cibo e un quarto di vino in una bottiglietta di gassosa andava in campagna.Una zolla era, per lui, un santo che guariva, riparava e ogni cosa resuscitava. In quella zolla le cose malate si ristabilivano. Non aveva storia da romanzo, eppure a noi ragazzi, con la sua lentezza che l’eternità rasentava, ci insegnava ad avere pazienza, a lavorare duramente, a rispettare le stagioni, a non bestemmiare contro i temporali o se la pioggia non veniva giù dal cielo perché era per lui solo una perdita di tempo. La sua saggezza era solamente ignoranza che non osava esprimersi.
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