Creato da pedro_luca il 06/05/2011
Viaggio nel divenire della vita .Questo blog aggiornato saltuariamente non rappresenta una testata giornalistica né è un prodotto editoriale (Legge 62 del 07.03.2001).

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L'enigma del sigillo imperiale

Post n°624 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da pedro_luca
 
Foto di pedro_luca

 

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L'enigma del sigillo imperiale

La porta a cui la luce conduce
Il mistero della vita introduce,
ch'è nella fonte l'andar alla foce.

traccia XXXII

Da come si guarda attorno, dal suo gesticolare squilibrato deduco facilmente che quel vecchio è uno di quelli che sono andati un po’ fuori con la testa, ecco, a questo punto mi ricordo di Bernardo. Chissà, spero proprio che si rimetta com’era prima di quella botta in testa.
Dall’androne vedo comparire la figura di Aldobrando, anche se non ha ancora messo piede nel cortile ed il suo viso è ancora avvolto dall’ombra, lo riconosco dall’incedere.
Gli vado incontro d’impeto, voglio sapere se possiamo lasciare il castello oppure c’è da attendere chissà cosa.
“Credo che tu sappia già cosa è successo. Comunque per questo hanno deciso di fare una indagine affidandola al capitano Cadeur. Il principe mi ha chiesto di affiancarlo in questo compito perché, essendo io forestiero, posso dare all’investigazione un ulteriore e superiore carico d’imparzialità. Insomma, pare che non si voglia  dare adito a chiacchere, perché il capitano ucciso è quello di cui si vociferava avesse una relazione con la dama del signore.”
Da come mi osserva e dall’accenno di sorriso spontaneo che gli è spuntato sul volto capisco di aver manifestato la mia delusione in modo appariscente. Cerco di darmi un contegno adeguato ma il disappunto per la mancata partenza monta in me. Lui si sofferma ad osservare il palazzo come se avesse notato qualcosa di strano, e poi prosegue:
“Comunque non preoccuparti che sarà una cosa breve, perché questa non è una sedizione, non è una rivolta, questa è una faccenda circoscritta. Conti da saldare tra  loro, e serve la scena della legittimazione. Poi, un delitto, un assassinio, che è? Cose che si risolvono nel giro di poco tempo.”
Lo ascolto con poca attenzione perché improvvisamente e senza alcun motivo ho come una strana sensazione spiacevole, come per l’incombere di una avvenimento a lungo temuto. Non so perché ma inizio ad avere parecchi dubbi sul fatto che la faccenda di cui parla Aldobrando sarà di breve durata, e il timore che si finirà con l’andare per le lunghe trascinandoci dietro altre fastidi e altre complicazioni si fa sempre più forte. Il fatto è che mi  sento come preso in una trappola da cui non ho nemmeno la più piccola idea di come uscirne, e poi, cosa posso fare? Penso di non avere altra scelta che questa, di rimanere al fianco di Aldobrando, in una posizione che mi dà più garanzie di sicurezza piuttosto che tentare l’azzardo di un allontanamento solitario dal castello. E per andare dove, con che mezzi? Così accetto ilo fatto compito, anche se non era nei patti, mi metto l’animo in pace e rimango al mio posto, scudiero al servizio di Aldobrando. Se la volontà del padre eterno è questa, vorrà dire che attenderò che si compia il tempo destinatomi prima di ritornare all’eremo da Bernardo, e poi non è forse vero che è meglio arrivare tardi a destinazione che non arrivarci di fretta.”
“Hai compreso?”
Aldobrando quasi si mette a ridere per come assiste ai miei muti indugi, ma poi mi rassicura:
“Fidati.”
Rispondo di si con il capo, cos’altro potevo fare, affronto gli sviluppi della vicenda perché è ormai chiaro che il mio ritorno all’eremo non può prescindere da quello di Aldobrando.
“Andiamo.”
Si dirige verso il palazzo e io lo seguo, anche se non so cogliere bene il senso di tutto questo e non ho la minima idea sulla faccenda in cui ci stiamo infilando.
Le due guardie poste davanti all’edificio hanno una faccia da adolescenti e sono così rigide nel portamento che sembrano impalate. Ho imparato che questo è un atteggiamento che denota poca dimestichezza con il loro lavoro oltre ad insicurezza e poca tranquillità. E’ evidente che sono solo delle reclute alle prime armi, lo deduco  facilmente perché l’ho vissuta anch’io e non molto tempo fa. Varcata la soglia ci troviamo in un ampio atrio da cui parte la scala che porta ai corridoi. Appoggiata alla colonna centrale troneggia una grande tavola in legno, a prima vista sembra quercia, corredata ai lati da due lunghe panche fatte dello stesso materiale. A farle da corollario, alle pareti vi sono appoggiate delle panche rustiche, squadrate e ruvide, lavorate senz’altra pretesa che quella di essere funzionali allo scopo per cui sono state costruite. L’insieme dell’arredo è più che misero, è quasi primitivo, e questo sta ad indicare come quel luogo, con molta probabilità, sia adibito ad alloggio per la guarnigione. E’ un luogo sì ordinato, ma si evidenzia pure in modo chiaro come non vi dimorino delle donne, c’è polvere e muffa sui muri e mancano gli oggetti, anche i più insignificanti, quelli che loro amano dislocare negli ambienti in cui vivono per personalizzarli. Qui vedo solo rigore militare e nient’altro, due rastrelliere colme d’armi sulla parete di fondo, ai lati di una porta aperta da cui si intravede un lungo corridoio illuminato da fiaccole appese alle pareti. Si, non c’è dubbio,  si tratta di un posto di guardia con annessa armeria. Un gruppo di gente, immersa in una accesa discussione, staziona davanti alle rastrelliere, alzano lo sguardo, dopo un attimo escono due uomini e si dirigono verso di noi. Il primo, un tipo di media statura dall’aspetto robusto, portamento ritto tipico dei soldati, sguardo dritto, ci saluta presentandosi come  capitano Gadeur. Mostra una rada barba rossiccia cosi come i capelli che tiene corti. Parla con un tono di voce pacato ma deciso:
“Cavaliere Aldobrando. Mi ritengo onorato d’essere stato prescelto dal conte per affiancare un cavaliere del suo rango nello svolgimento dell’indagine.”
Nonostante il formalismo del discorrere rimane l’impressione di un uomo leale, uno che per abitudine crede a ciò che gli viene ordinato senza porsi altre domande.
Quello che l’accompagna non apre bocca, rimane come impietrito al suo fianco, e con i suoi occhi scuri non cessa un attimo di osservare il circostante. Penso che sia una specie di segretario o aiutante, so solo che lo segue come un’ombra.
“I corpi del capitano e dell’uomo d’arme sono stati portati nella camera mortuaria della cappella. Qui, ai piedi della scala è stato trovato il corpo dell’uomo d’arme. Come potete vedere per terra non c’è ombra o macchia di sangue perché la sentinella è stata strangolata. Aveva ancora attorno al collo la corda con cui è stata uccisa.

 
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L'albero sociale

Post n°623 pubblicato il 23 Febbraio 2015 da pedro_luca
 

La filastrocca sciocca

Bel moondo
di Pedro

Ma che bel moondo,
dicevano che era sano invece è moribondo,
incrementiamo la natura con la maschera antigas sul volto,
soccorriamo generosamente il prossimo solo quando c'è un tornaconto.

!!

Ma che bel moondo,
vince il migliore e i più bravi sono in fondo,
consumar beni è felicità ma è la spazzatura il resoconto,
diverse culture in confronto per trovarsi un confuso girotondo
.
!!
Ma che bel moondo,
dicevano che era sano invece è moribondo,
incrementiamo la natura con la maschera antigas sul volto,
soccorriamo generosamente il prossimo solo quando c'è un tornaconto.
!!

Ma che bel moondo,
siamo in tanti ma alla fine ho nessuno accanto,
di inceneritori e televalorizzatori si fan vanto per eutanarci tanto,
nelle case di animali ci accompagnam ma solo per sentirne il pianto
.
!!

Ma che bel moondo,
ci sia qualcuno che compra o no io vendo,
mettiamo la mano sul fuoco solo con guanti di amianto,
facciamo finta di essere belli e sani ma siamo tutto un trapianto
.
!!
Ma che bel moondo,
se non la pensi come loro sei al bando,
qualsiasi porcheria facciamo ci presentiamo con volto giocondo,
giuriamo e spergiuriamo sulla testa degli altri per fare poi un tradimento
.
!!
Ma che bel moondo,
in troppi della mia felicità si stanno occupando,

i tanti che si son fidati ad occhi chiusi son rimasti col rimpianto,
molti ci indicano dove andare ma non muovono un passo gesticolando.

!!
Ma che bel moondo,
quanti messaggi in bottiglia si trovano bloggando,
quanti anni vissuti rivivi nella mente in un secondo,
quello che ci sostiene è che pensiamo al domani sperando
.

!!
!!
Oh si, ma che bel moondo,
ci si abbraccia borseggiando,
ci si ama per compiacimento,
ci incontriamo adescando,
in questo bel moondo.

L'albero del moondo cresce ovunque, su qualsiasi terreno, con qualsiasi condizione meteorologica e si autoalimenta.

 

 

 
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Un Febbraio

Post n°622 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da pedro_luca
 
Tag: Brevi

.

Sta per giungere, lo sento.
Sta per arrivare la fine di questo giro.

E’ il venti di febbraio del nove, duemilanove, trecentonove o quattrocentonove. Non so più che anno è, che età sia e che vita mi avviti. Il tempo ha l’aria stanca di un sole affaticato che si lascia andare nell’umidità della terra. Tutt’intorno è una girandola di immagini piene di sé.
Davanti, tra le nebbie dei dubbi, il nulla. Alle spalle sono rimasti solo i graffi delle rabbie e la nostalgia della leggerezza giovanile.
Un giorno nella vita e la vita in un giorno.
Respiriamo attimo per attimo senza l’affanno del sogno con lo sguardo rivolto a noi stessi che la vita non ha fame di futuro.
E’ il giro delle mescolanze che confonde la mente. E’ il giro delle opulenze che spegne le speranze. E’ il giro del relativamente che maschera il niente.
.

Il suv, suvvia.

Mauro non sapeva più cosa fare. Quella situazione gli era capitata addosso in modo inatteso. Ora, alla soglia dei sessanta la cosa gli pareva ancor più assurda che mai. Per tutti quegli anni passati con Liliana, trentaquattro, non aveva mai avuto il più piccolo sentore di cosa maturasse nel loro rapporto. Avevano tutto per essere, come si dice, felici, loro e le due figlie nate subito dopo il loro matrimonio a soli due anni di distanza una dall’altra. Lui conduceva una ben avviata attività commerciale che gli permetteva di vivere agiatamente; Una villa con tutti i confort, e sempre tra i più aggiornati, senza perdere le ultime novità tecnologiche, Le figlie s’erano laureate, la prima, Gaia, in architettura, sposata con un costruttore edile ma era durato poco e si erano separati quasi subito, ora vive a Milano ed esercita la professione per cui ha titolo di studio presso uno dei più noti architetti della città. La sorella, Malia, una volta laureatasi in medicina prelevò la licenza di una farmacia in Alessandria che ora gestisce direttamente, ed in quella stessa città si è trasferìta per vivere da single. Non molto tempo dopo che le figlie se n’erano andate lui incominciò a trovare delle anomalie nei comportamenti di Liliana. Aveva spesso la testa altrove, si assentava sempre più frequentemente senza addurre validi motivi e di come, improvvisamente, si fosse messa ad andare sempre più spesso, a trovare la madre al paese, su in collina. Non ci volle molto per capire che sotto c’era qualcosa d’altro. Fu allora che acquistò la casa in montagna, su in val d'Ayas e, per risparmiare sulle tasse la intestò a Liliana, Pensava che in quel modo avrebbe tolto lei dall’ambiente e loro avrebbero avuto l’occasione per vivere una seconda luna di miele.
Acquistò anche un suv, un mezzo adatto per le scorribande tra le mulattiere di montagna, avrebbe voluto intestare anche quello a Liliana, ma, per un rigurgito della sua tirchieria, lo intestò a sé stesso.
Mauro osserva la carrozzeria del suo suv luccicare al sole. E’ appena uscito dall’autolavaggio e sembra nuovo. Sistema gli oggetti ed ordina i documenti. Il libretto di circolazione, l’assicurazione, tutto a suo nome, per fortuna, perché ora Liliana se n’è andata definitivamente a vivere nella casa in montagna, ma con un altro uomo, ed a lui è rimasto il suv.

 
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La geisha Kociyo

Post n°621 pubblicato il 19 Febbraio 2015 da pedro_luca
 

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La geisha Kociyo e l'arte del desiderio

Traccia n. 3

Jotaro si ritrovava su quella strada polverosa senza aver ricevuto nemmeno un saluto o un benservito. L’unica consolazione cercata, si, cercata, perché la sensazione principale che lo permeava era quella del vuoto, tanto da sentirsi inutile come se avesse già sprecato irrimediabilmente il suo futuro, perciò si rifugiava in una certezza, l’unica a cui riusciva con molta  fatica a dar credito, la consapevolezza d’aver svolto il proprio dovere, di aver eseguito fino in fondo il mandato ricevuto dagli anziani del villaggio.
Mentre Jotaro si allontanava con le lacrime agli occhi e l’animo straziato dal dubbio, Kochiyo si perdeva meravigliata ad osservare attentamente le stoffe colorate appese alla parete della stanza. Non aveva mai visto nulla di simile, d'altronde al villaggio c’erano solo capanne di legno e paglia. Su quei rotoli distesi poteva ammirare la nitidezza del tratto e le gradazioni di colore, le sembrava  quasi di sentire i rumori e i profumi davanti ai paesaggi di campagna raffigurati con maestria e sottolineate da scritte esplicative ad indicare il luogo rappresentato.
Tutto quello splendore si sarebbe ben presto rivelato per ciò che era in realtà, solo un paravento. Il giorno seguente Kochiyo avrebbe conosciuto quanto si celava dietro quei pannelli così splendidamente dipinti, avrebbe scoperto il mondo viveva celato al riparo, mimetizzato nell’estrema finezza dei suppellettili che ornavano quelle stanze. Appena sveglia venne condotta nella sala delle abluzioni dove l’attendeva, con l’immancabile sorriso di pragmatica sulle lebbra, un gruppo di giovani aspiranti geishe. Rimase in quelle vasche d’acqua calda, immersa nei vapori profumati per più di due ore, in totale abbandono alle cure dei quelle giovani mani delicate. Ne uscì con il  corpo talmente rilassato da avvertire nei suoi movimenti un tempo rallentato. Prima che se ne rendesse conto venne introdotta nella sala della deflorazione. In quella stanza regnava la penombra, tanto forte che a fatica scorse solo i contorni di due figure che si stagliano contro un piccolo pertugio luminoso, l’unica fonte di luce che rimase in quel luogo una volta chiusa la porta alle sue spalle. Era un fascio luminoso che cadeva al centro partendo da metà parete sul lato opposto della stanza. Non fece nemmeno in tempo a capacitarsi di cosa stesse avvenendo che due mani robuste le allargarono le gambe, la tennero così per pochi minuti. Kochiyo avvertì solo un forte dolore, provò per un attimo lo smarrimento dell’irrimediabilità, poi dolenze alle gambe, nei punti in cui erano serrate da forti mani. Tutto quanto avvenne nel più completo silenzio, nessuno si degnò di spiegarle quanto si andava facendo e nemmeno lo scopo di tali operazioni. La ripulirono con un panno e di seguito venne ricondotta nella sala delle abluzioni, rimessa in un bagno e assegnata alla maestra Kinuye, responsabile di quel settore e di quello della prima accoglienza. In breve la piccola Kochiyo aveva perso la verginità in modo meccanico, senza le complicazioni che un rapporto sentimentale porta con sé, con i suoi risvolti psicologici e le sue ricadute umorali. Come una serva devota al desiderio, votata all’arte della seduzione, serva del piacere, doveva ora imparare a dominare i sensi, a gestire le emozioni, a comandare il corpo e ad amministrare l’eccitazione che conduce al godimento. 
Doveva fare dell’appagamento non lo scopo della tensione, ma la base da cui riaccenderla.
Le lezioni e gli esercizi duravano per l’intera giornata, nulla di quanto si faceva nel vivere quotidiano esulava dall’insegnamento. Tutto io vivere era teso alla ricerca della perfezione. Dapprima imparò a disgiungere le sollecitazioni fisiche da quelle mentali, a separare le emozioni, ad ascoltare  il ricettacolo nervoso del corpo e riconoscere gli impulsi, slegando quelli della carne da quelli sollecitati dalla mente. Imparò che solo nella conoscenza specifica di ogni singolo sentire c’è il segreto per poterlo dominare. Apprese che la semplicità è indispensabile per raggiungere la perfezione, cioè, l’essenza stessa delle cose, e che la commistione è il pericolo più grande per perdersi. Fu così che divenne in poco tempo un a delle migliori allieve di quella casa di geishe, nessuna sapeva suonare il Koto o il Shamisen come lei, quando si dilettava nell’estrarre la purezza delle note da quegli strumenti, in sala tutti si fermavano ad ascoltarla estasiati, rapiti dalla dolcezza e profondità dei suoni.
Non le fu difficile comprendere che il portamento, le espressioni del viso, il muovere degli occhi, la gentilezza dei gesti e la grazie delle movenze  traggono spunto dall’ordine della natura. Che per saper vedere occorre imparare ad osservare, che la bellezza spontanea della natura ha sa essere ricondotta all’ordine spirituale. Così era per il disporre dei fiori nell’ikebana, del linguaggio espressivo per immagini del kimono, del senso di completezza dell’ospitalità nella cerimonia del tè, dell’onore nella dedizione alla servitù.
Una volta lasciata la figlia in quella casa, Jotaro non perse tempo a ritornò al villaggio, non si fermò nemmeno a rifocillarsi per la grande fretta che lo pervadeva. L’impazienza era il frutto del grande travaglio che agitava il suo animo, un affanno doloroso, questo era il motivo per cui non vedeva l’ora di presentarsi davanti agli anziani, e comunicare loro che la missione a cui era stato deputato era stata conclusa come pattuito, sua figlia era stata accettata ed ora si trovava nella casa delle geishe del governatore della provincia.
La gratitudine che avrebbe trovato sui volti dei suoi compaesani avrebbero alleviato il rimorso che invece di sopirsi stava torturandogli la mente.

 
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Il molo del 49

Post n°620 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da pedro_luca
 
Tag: Brevi

Il molo del quarantanove

 

Qui, verso il fondo del molo fa freddo e l’aria è pervasa dalla bruma della mestizia, gli spruzzi delle onde, che s’infrangono sulla battigia, giungono sulle brezze del vento ad intervalli regolari come pendoli di tristezze. C’è un senso di inutilità nell’atmosfera, alcuni di noi vagano tenendo tra le mani oggetti smarriti, altri torturano nervosamente tra le dita cose mai volute. C’è chi indossa arie trasognate ed insegue chimere e chi trascina stancamente cumuli di illusioni nel sacco dei frustrati. Molti se ne stanno muti, seduti sul bordo con le gambe a penzoloni e lo sguardo fisso nel vuoto, altri invece vagano per ogni dove sproloquiando di continuo mentre certuni offrono a chiunque incontrano intimità bisbigliate che nessuno ascolta.
Si vive in solitudine, in una dimensione personale, intima e piegata su sé stessa, la comune miseria umana.
In lontananza, nella nebbia, appena sopra le onde, vedo mio padre e mia madre, alle loro spalle nonna Lucia e nonno Bernardo. Ma è un’apparizione malferma, è un’immagine che sfuma ed ondeggia come prigioniera di un flusso. Il loro volti sono severi e non v’è traccia di sorriso in nessuno di loro. Solo nonna Lucia ha un’inclinazione tenera nello sguardo e, come un sinusoide di bontà, rilascia frequenze affettive che filtrano i freddi vapori nebbiosi. All’improvviso ci sono momenti muti, in cui l’aria si ferma e non si ode più nemmeno il rumore delle acque, rimane sospeso il senso stesso dell’essere qui, ed emerge ovunque, in ogni parvenza di realtà, il vuoto del nulla. Scruto il grigio che ci circonda e chiamo i miei, ma loro non sentono ed io non emetto voce.
Loro rimangono lì, abbastanza vicini da esser visti ma lontani a sufficienza da non esser raggiunti.
Chiedo che mi diano un intuizione, un barlume, anche solo impercettibile, che mi sveli il significato dell’esser parte di questa attesa. I loro volti si avvicinano, seppure imprigionati nel mare del passato, riescono ad illuminarsi nel sorriso dolce del sentimento, nel tratto amorevole di una madre.
E’ solo un attimo e la bruma riavvolge il molo, gli spruzzi gelano la pelle e solo il piccolo pulsare acceso dal sentimento saprà darmi calore sotto il nulla che mi abbraccia.

 
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