Creato da besson.maria il 23/07/2008
società cultura e politica italiana

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Non mi sento un disabile

Post n°2 pubblicato il 23 Luglio 2008 da besson.maria

Un protagonista del nostro tempo

Ho imparato molto presto a trasformare in un vantaggio quello che per la maggior parte delle persone sarebbe stato un grave handicap. Sono stato costretto a lottare per far riconoscere i mie diritti, per essere considerato al pari di tutti gli altri. E’ stata una dura battaglia, ricompensata dal fatto che i giudici sportivi mi abbiano fatto correre tra i normodotati

 

 

Non ho mai avuto gambe normali, ma anche se a molti potrà sembrare paradossale, non mi sono mai sentito un disabile. Ritengo, infatti, che a monte di ogni condizione di disabilità ci siano delle abilità da sfruttare per bilanciare ciò che manca, per pareggiare gli equilibri. Tutto sta ad identificare quali siano queste abilità! Certo, a volte può essere complicato trovare una propria dimensione, ma posso garantire che non è impossibile. Del resto, in ogni situazione ci sono pro e contro. Il discorso è applicabile in generale e si può quindi estendere anche a tutte  le persone normodotate che a mio avviso in tante cose dimostrano di essere più disabili dei disabili stessi o si comportano come tali. Personalmente ho imparato molto presto a trasformare in un vantaggio quello che per la maggior parte delle persone sarebbe stato un grave handicap. Dal punto di vista professionale ammetto di essere stato costretto a lottare per far riconoscere i mie diritti, per essere considerato al pari di tutti gli altri. Non è stato semplice perché, come è noto, le mie protesi nel corso degli anni sono diventate oggetto di aspre critiche e contestazioni. Una dura battaglia, la mia, alla fine ricompensata dal fatto che i giudici sportivi hanno acconsentito a farmi  correre tra i normodotati. Questa, per me, è  stata una soddisfazione enorme. Un vero e proprio successo che reputo pari a quelli ottenuti sui campi da corsa. Con l’andare del tempo mi sono reso conto di correre con passione sempre crescente e ho raggiunto una certezza: se avessi avuto le gambe sarei potuto essere più veloce, ma di certo non avrei messo l’anima, come sto facendo ora, per ottenere un risultato. Non sarei l’atleta determinato che sono oggi, o, forse, non sarei neppure diventato un atleta. Tutto sommato, la mia forza è nata e continua ad alimentarsi giorno dopo giorno proprio in virtù della disabilità che mi ha colpito. Grazie a Dio, sin da quando ero un bambino, la mia famiglia ha sempre condiviso, appoggiato ed incoraggiato le mie scelte. Nessun ostacolo da parte loro ed è anche per questo che a loro dedico tutte le mie vittorie. A casa mia tutto è sempre stato e continua ad esser preso con “ironica filosofia”. A dire il vero,  sono io il primo a non drammatizzare su me stesso e ad essere autoironico: non ho le gambe, ma, in fin dei conti, per correre non mi servono: sono la testa e il cuore che mi fanno vincere. E poi, caspita… un uomo non è fatto di solo gambe e a costo di sembrare “presuntuoso”…  ho tante altre cose degne di attenzione! Per quanto riguarda la partecipazione ai Giochi Olimpici di Pechino, a prescindere se otterrò o meno i tempi minimi di partecipazione, quel che conta è l’essere stato incluso fra i normodotati. È questa la vera vittoria. Una vittoria che, con soddisfazione, non considero più soltanto di Oscar Pistorius, ma anche di tutti coloro che vivono una condizione simile o pari alla mia.

da www.socialnews.it

 

Oscar Pistorius

Atleta sudafricano, campione paralimpico nel 2004 sui 200 m piani, detentore del record del mondo sui 100, 200 e 400 m piani
Il 13 luglio 2007 Pistorius gareggia nello Stadio Olimpico di Roma per il gruppo B del Golden Gala, assieme ad alteti normodotati, ottenendo la seconda posizione.

 
 
 

Credere nelle possibilità

Post n°3 pubblicato il 23 Luglio 2008 da besson.maria

Il traguardo dell’atleta

  

Lo sport unisce, fa sentire le persone parte di un tutto e può essere un buon punto di partenza per far crescere i principi della politica. Le Olimpiadi di quest’anno ne sono un esempio chiaro, concreto.

 

Un atleta per raggiungere dei risultati di rilievo in campo agonistico, a prescindere dalla disciplina sportiva che pratica, deve possedere delle doti fisiche indubbie. Quello che però non va mai sottovalutato e l’equilibrio fra corpo e psiche. Questo elemento è fondamentale e non può mancare. Gli obiettivi importanti, infatti, si raggiungono proprio grazie a questo particolare equilibrio, grazie alla perseveranza e alla determinazione. Non è possibile essere discontinui e nemmeno ci si può permettere di cedere allo sconforto nei momenti di difficoltà. Nella vita di un atleta non ci sono solo medaglie. Bisogna tener duro, non arrendersi e in particolare non fermarsi davanti alla prima non vittoria. Farlo è deleterio. In ogni caso, sia davanti ad un successo che davanti ad una sconfitta, è necessario credere nelle possibilità di migliorare. È doveroso guardare avanti, con le aspettative di chi sa di poter dare sempre di più. Io ho sempre ragionato in questo modo. Prima delle Olimpiadi del 1994 a Lillehammer avevo già ottenuto dei buoni risultati (come ad esempio la medaglia di bronzo nella staffetta 4*5 km alle Olimpiadi di Albertville), ma all’epoca ho continuato a pensare che il meglio doveva ancora arrivare. Così è stato: le cinque medaglie portate a casa in ciascuna delle cinque gare alle quali ho partecipato a Lillehammer hanno rappresentato un traguardo che dirsi grandioso è poco. Certo, non sono arrivate dal nulla. A monte di questo c’è stato un sacrificio che in una parola sola si può definire enorme. Mi sono preparata con meticolosa costanza, con passione nei confronti di un qualcosa che amo fare e soprattutto con la consapevolezza che un giorno sarei stata ripagata di tutto. Non sono rimasta delusa: nel 1994 ho raccolto i frutti di quanto avevo seminato nei trent’anni precedenti. Le Olimpiadi rimangono nel cuore e, ora che sono alle porte i giochi della XXIX edizione, i ricordi riaffiorano. I Giochi Olimpici del 2008, forse, resteranno alla memoria anche per le polemiche che li hanno preceduti e questo è un vero peccato. Si continua a discutere, a domandarsi se la decisione di assegnare la loro organizzazione alla Cina sia stata una scelta positiva o troppo prematura, se non addirittura negativa. Dal mio punto di vista trovo che scegliere Pechino sia stato assolutamente straordinario. Mi viene in mente Nelson Mandela… lo sport arriva dove anche la politica non arriva.  È vero, lo sport unisce, fa sentire le persone parte di un tutto e può essere un buon punto di partenza per far crescere i principi della politica. Le Olimpiadi di quest’anno ne sono un esempio chiaro, concreto. Per quanto riguarda, invece, la questione di far gareggiare assieme atleti normodotati e disabili il discorso è complesso.  I problemi nascono dal fatto che c’è la necessità di non far competere atleti con caratteristiche diverse, i maschi e le femmine per esempio non gareggiano insieme. Questo avviene per garantire che ogni atleta che sia olimpico o paraolimpico gareggi senza essere avvantaggiato o svantaggiato rispetto agli avversari.  Per questo motivo c’è stata dall’inizio la distinzione fra Paraolimpiadi ed Olimpiadi. Un’idea potrebbe essere ora quella di impostare all’interno delle olimpiadi alcune gare che attualmente vengono svolte nelle paraolimpiadi. Naturalmente per esigenze organizzative solo le più importanti potrebbero essere rappresentate ma sarebbe un modo per dare maggior rilievo ad atleti che oggi si sentono esclusi dalle competizioni a maggior richiamo mediatico e che nulla hanno da invidiare ai loro colleghi più fortunati. In ogni caso a prescindere che si tratti di atleti normodotati o disabili, come mi hanno insegnato gli amici finlandesi: “Meglio tenere sempre i piedi al caldo” e cioè sul podio, perché almeno nel mio caso, “sotto c’è il ghiaccio”.

da www.socialnews.it

 

On. Manuela di Centa

Pluricampionessa olimpica - Deputato alla Camera

 
 
 

Il Comitato paralimpico

Post n°4 pubblicato il 23 Luglio 2008 da besson.maria

L’importanza dell’attività fisica

 

Attraverso lo sport è possibile arricchire la nostra esistenza e migliorare il nostro benessere. Grazie alla pratica sportiva è possibile superare differenze culturali e sociali, combattendo, allo stesso tempo, odiose e meschine forme di discriminazione

 

 

La pratica sportiva oggi costituisce una rivendicazione diffusa tra i cittadini. Negli ultimi anni è diventata parte integrante del nostro vivere civile, rappresentando una dimensione importante nella qualità della vita. Si impone, dunque, all’attenzione delle istituzioni come un fattore strategico di notevole rilevanza. Lo sport rappresenta un elemento determinante per l’implementazione di politiche pubbliche volte al benessere e allo sviluppo psico-fisico dei cittadini. Politiche fondate sull’integrazione, la coesione, l’inclusione sociale, il rispetto di sé e degli altri. E ancora sulla convivenza civile, sull’educazione alla diversità e sulla solidarietà. Consentitemi di dire che questi sono i valori che dovrebbero essere l’intelaiatura di ogni comunità. La radice profonda e non negoziabile del nostro stare insieme. Lo sport, infatti, è l’espressione tangibile di innovative e più avanzate forme di partecipazione attiva. Riconoscere e legittimare lo sport come pratica accessibile a tutti vuol dire avere consapevolezza dell’inscindibile legame tra sport e politiche sociali. Attraverso lo sport, è possibile arricchire la nostra esistenza e migliorare il nostro benessere. Grazie alla pratica sportiva è possibile superare differenze culturali e sociali, combattendo, allo stesso tempo, odiose e meschine forme di discriminazione. In questa prospettiva, l’Italia non è all’anno zero. Al contrario, possiamo contare sull’incredibile esperienza del Comitato Italiano Paralimpico, le cui attività coinvolgono ogni anno migliaia di persone disabili che, attraverso lo sport, superano barriere, riacquistano fiducia e costruiscono nuovi reti di socialità. Aumentare lo stanziamento per il Comitato Paralimpico fu per noi una scelta quasi naturale, proprio perché crediamo fortemente nella missione del CIP. In tal senso, nelle due finanziarie del centro-sinistra, lavorammo per aumentare la dotazione economica del Comitato Paralimpico.

Mi pare che dal Governo Berlusconi non vi sia altrettanta attenzione nei confronti della dimensione sociale dello Sport.  Infatti, dopo aver cancellato il ministero competente, il Governo Berlusconi ha assestato un colpo durissimo al mondo dello sport  italiano. Trovo del tutto sbagliata  la scelta di far cassa per coprire il provvedimento spot sull'ICI  utilizzando le risorse che il governo Prodi aveva destinato per  sostenere e potenziare lo sport per tutti. Il provvedimento cancella il Fondo per lo Sport di cittadinanza,  strumento attraverso cui si intendeva amplificare la dimensione sociale della pratica sportiva e per l'utilizzo del quale nei mesi  scorsi si era trovato un importante accordo tra Governo e Regioni, sopprime la dotazione del Fondo per gli Eventi sportivi  Internazionali, penalizzando così l'organizzazione dei Campionati mondiali di pallavolo del 2010, ma arriva, anche, a decurtare gli stanziamenti a favore del Comitato Italiano Paralimpico (Cip). Con questa scelta, il Governo colpisce tutte quelle realtà che, con  grande passione e fatica, cercano di rendere la pratica sportiva  accessibile a tutti, a prescindere dal reddito e dalle abilità.

da www.socialnews.it

 

On Giovanna Melandri

Già ministro delle attività sportive e politiche giovanili

 
 
 

Sport, handicap e…un pizzico di ironia

Post n°6 pubblicato il 23 Luglio 2008 da besson.maria

Le parole aiutano a sorridere

  

Amici ciechi di Crotone mi hanno manifestato il loro rammarico per l ' eliminazione dagli Europei della squadra per la quale facevano il tifo . L ' Italia ? No , la squadra che sentivano più “ loro ” , quella dei “cechi” che anche al loro orecchio raffinato richiamava la loro situazione personale . La Repubblica Ceca , inutile dirlo

 

Sport e handicap. Indicazione estremamente sintetica e di apparente facile comprensione, in realtà irta di difficoltà concettuali e terminologiche. I due sostantivi, infatti, pretendono qualche approfondimento: tanto per cominciare, sport è concetto molto più complesso di quanto non si possa credere, tanto che, benché al proposito si siano impegnati studiosi del linguaggio, della sociologia, della psicologia, ancora non è stata trovata una definizione generale  unanimemente accettata. Ci sono alcune componenti da tutti condivise, la competizione, il rispetto delle regole, la fisicità, le graduatorie di valore, ma molto si discute, senza accordo, su altri fattori come la gratuità dell'impegno, il divertimento, la lealtà stessa. D'altronde, fino a quando si userà il medesimo termine, sport, per indicare quello che fanno i campioni strapagati del superprofessionismo e quello che invece fanno i ragazzini quando cominciano a misurarsi tra loro o i dilettanti e amatori veri, non c' è possibilità di arrivare a una definizione che sappia mettere tutti d'accordo.A proposito di handicap, poi, insorgono spesso scrupoli di natura lessicale, si ha la tendenza a evitare espressioni che sembrino troppo crude. Ci si  ingorga in circonlocuzioni falsamente addolcenti. E allora via con i diversamente abili, gli audiolesi anziché i sordi, gli affetti da deficit visivo anziché i ciechi e via discorrendo. Se è lodevole l'intento di non offendere, talora lo scrupolo sortisce effetti contrari: di recente mi è arrivato un messaggio in cui amici ciechi di Crotone, di cui avevo raccontato tempo fa un'incredibile partita a calcio vero, mi manifestavano il loro rammarico per l'eliminazione dagli europei della squadra per la quale facevano il tifo. L'Italia? No, la squadra che sentivano più “loro”, quella dei “cechi”, che anche al loro orecchio raffinato richiamava la loro situazione personale. La Repubblica Ceca, inutile dirlo. Un fatterello che dimostra in modo chiaro come non siano certo le parole a creare problemi o a suscitare risentimenti nei portatori di handicap che, anzi, sanno anche condire la propria condizione con un pizzico di ironia, quando è il caso. Ciò premesso, penso che si possa e si debba sostenere che lo sport, per l'handicap, è venuto assumendo un'importanza e un significato del tutto particolari. Attraverso la pratica sportiva si arriva al momento fondamentale della socializzazione, si esce dall'angoscia della solitudine e dell'isolamento, si trovano stimoli del tutto particolari per il miglioramento della prestazione personale e il superamento del limite, che esiste per tutti, anche se i cosiddetti normodotati fanno di tutto per superarlo, magari in maniera truffaldina. Ma la cosa forse più rilevante è la constatazione che, nella pratica agonistica dei portatori di handicap, si comprende subito che si è di fronte a una situazione nella quale è lo sport ad essere per l'uomo e non l'uomo per lo sport. Non è un semplice modo di dire. L'esercizio fisico, la prestazione individuale, sono occasioni che lo sport offre al praticante, quale ne sia la potenzialità in rapporto al risultato finale. Certo, anche nello sport dei cosiddetti portatori di handicap, c'è l'inevitabile tendenza a verticalizzare l'importanza della prestazione, ci sono le Paraolimpiadi accompagnate da crescente successo, c'è il caso Pistorius che suscita appassionato interesse. Ma io penso che sia importante soprattutto l'occasione che lo sport offre ai tanti portatori di handicap che non diventeranno mai campioni, ma continuano a trovare entusiasmo e piacere dall'aggregazione, nella pratica sportiva, ciascuno secondo le proprie potenzialità e i propri limiti. Senza contare i benefici di carattere terapeutico ben conosciuti e riconosciuti. Se mi è consentito, vorrei anche capovolgere il senso che di solito viene attribuito alla partecipazione dei normodotati alle manifestazioni in cui gareggino atleti con qualche handicap. Come accennato, mi capita abbastanza spesso di essere invitato a tornei o gare di tal genere: nonostante l'abitudine, la prima reazione è di segno discutibile, tipo, sì ci vado, faccio loro un piacere, dimostro di essere sensibile ai problemi. Invariabilmente, al termine dell'esperienza, sono io a sentirmi più ricco, perchè coinvolto dallo spirito di gioiosa partecipazione e condivisione di quegli sportivi, capaci di trasmettere messaggi di singolare valore. E si misurano anche loro con lo spirito giusto. Giocano per vincere, ma sanno accettare anche la sconfitta con la consapevole soddisfazione di aver comunque fatto qualcosa di piacevole e di salutare. Sanno gareggiare col sorriso sulle labbra, anche quando perdono. E poi i normodotati sarebbero quelli che, per una partita di pallone, si fanno sangue amaro e magari si lasciano andare a riprovevoli manifestazione di maleducazione o vera e propria violenza. Sport questo e quello? Anche da queste considerazioni si capisce come la definizione generale di sport sia pressoché impossibile. Ma anche che tra sport e handicap esiste un rapporto privilegiato e sicuramente positivo.

da www.socialnews.it

 

Bruno Pizzul

Giornalista sportivo e commentatore televisivo

 
 
 

Il valore dei giochi

Post n°7 pubblicato il 23 Luglio 2008 da besson.maria

L'08/08/08, alle 8 di sera allo stadio Nido d'Uccello di Pechino, verrà dato inizio all'imponente cerimonia prevista per l'apertura dei Giochi della XXIX Olimpiade. Un numero, l'8, che avrebbe dovuto portare fortuna perchè considerato dai cinesi portatore di benessere e prosperità. Una data scelta da un paese dove, non il rispetto dell'uomo ma superstizioni e cabale da millenni indirizzano le scelte dei cittadini e dei governi. Un Governo, quello di Pechino, che negli ultimi anni non ha modificato il suo atteggiamento insensibile alla richiesta internazionale di maggiori tutele ed attenzioni verso i diritti e la dignità umana. Un territorio dove i giochi che rappresentano l'unione dei popoli, la lealtà e la dignità umana fanno fatica ad essere inseriti. In questo contesto Oscar Pistorius, atleta sudafricano disabile, amputato ad entrambe le gambe, ha rappresentato l’esempio più vicino e più rappresentativo dello spirito dei giochi. I suoi tempi su 100, 200 e 400 metri, e i suoi trionfi alle paraolimpiadi di Atene 2004 ottenuto grazie all’utilizzo di due protesi in carbonio hanno sbalordito la Federazione internazionale di Atletica che però ne aveva bloccato la partecipazione alle Olimpiadi sulla base di uno studio affidato a una commissione medica indipendente che concludeva che le sue protesi avrebbero offerto dei vantaggi meccanici. Dopo un lungo contenzioso sportivo il TAS (Tribunale arbitrale dello sport) in maggio 2008 emette la sentenza di riammissione ai Giochi. Secondo il Tribunale al momento non esistono elementi scientifici sufficienti per dimostrare che Pistorius tragga vantaggio dall’uso delle protesi. La “vittoria” di Pistorius che dimostra di poter competere al pari di qualsiasi altro atleta normodotato è stata la vera “svolta” di queste Olimpiadi non ancora iniziate. Un uomo disabile, più sfortunato di quelli abili, con la dedizione e la forza del suo carattere riesce a raggiungere i massimi livelli di uno sport dove fino ad ora nessuno senza gambe avrebbe mai potuto partecipare. A causa forse del poco tempo a disposizione Pistorius probabilmente non riuscirà ad effettuare una preparazione mirata. Oggi resta ancora lontano dal limite necessario per scendere in pista a Pechino, di sicuro però la sua storia e la sua energia permetterà in futuro a Lui e ad altri atleti disabili di non essere discriminati in Olimpiadi di serie B.Questa "avventura" è stata comunque una straordinaria esperienza di rappresentazione del valore umano che dovrebbe fungere da esempio ad uno stato dove anche la semplice nascita di un sesso diverso da quello aspettato, dove l’appartenenza ad un pensiero ed una religione può essere un problema per il riconoscimento dei diritti fondamentali dell'uomo. Il momento come quello dei giochi olimpici deve essere infatti il il mezzo per far in modo che la Cina possa fare qualche passo avanti sul tema dei diritti umani e civili. Forse sarebbe stato più opportuno attendere ancora qualche anno prima di scegliere la Cina come stato organizzatore dei giochi. Questa attesa avrebbe dato la possibilità al Paese e al Governo di raggiungere i livelli di democrazia e rispetto necessari per ospitare i Giochi Oimpici. In passato i Giochi glorificavano i campioni esaltandone eroismo, forza, bellezza e perfezione fisica. Gli autori del passato davano alle Olimpiadi il potere di interrompere le guerre e garantire l'immunità a chi vi prendesse parte, anche solo come spettatore, speriamo che anche nel mondo moderno questo possa essere possibile.

Massimiliano Fanni Canelles

 
 
 

Comunicare la politica

Post n°8 pubblicato il 23 Luglio 2008 da besson.maria

Superare le barriere fra istituzioni e cittadini

 

 

Occorre che il dibattito politico perda il suo insopportabile carattere autoreferenziale e si concentri esclusivamente sulle questioni concrete. Una comunicazione "generica" e litigiosa produce un sistema politico rissoso e inconcludente

 

La politica italiana, negli ultimi anni, ha avuto la grave colpa di creare una sorta di barriera difficilmente superabile tra sé e i cittadini. A volte, questa barriera assume i connotati del semplice fastidio; di tanto in tanto, il fastidio sconfina addirittura in un chiaro e aperto senso di nausea da parte degli elettori. Largamente giustificato, peraltro. Secondo me, c'è un solo modo per invertire il corso delle cose, e proprio i politici più ragionevoli (sia nella maggioranza che nell'opposizione) farebbero bene a prenderne atto: occorre che il dibattito politico perda il suo insopportabile carattere autoreferenziale (con i politici che parlano di cose interessanti solo per loro, e con un linguaggio comprensibile solo dagli addetti ai lavori), e si concentri esclusivamente sulle questioni concrete.In questo, il sistema mediatico potrebbe svolgere una funzione centrale. Bisognerebbe superare lo schema delle discussioni generiche, con tre poltroncine da una parte e tre dall'altra, e i rispettivi "occupanti" chiamati a discutere di tutto (cioè, molto spesso, di niente). Al contrario, occorrerebbe "tematizzare" i dibattiti, scegliendo una questione centrale (scuola, tasse, pensioni, energia, ecc.) e chiamando di volta in volta un esponente di maggioranza e uno delle opposizioni a misurarsi in modo concreto sulle soluzioni da adottare. Solo così il Governo sarebbe positivamente "inchiodato" a dare conto delle iniziative assunte, del perché di alcune scelte, della capacità o incapacità di passare dalle buone intenzioni alle effettive realizzazioni. E solo così, per altro verso, le opposizioni sarebbero "costrette" a superare lo schema della protesta o del dissenso "a prescindere", a favore di una sistematica prospettazione di soluzioni credibili e alternative rispetto a quelle avanzate dal Governo.

 

Come si vede, proprio un diverso meccanismo di comunicazione può determinare effetti decisivi nello stesso sistema politico. Una comunicazione "generica" e litigiosa (perfino a partire da come sono concepite le scenografie televisive o la ripartizione degli spazi nelle pagine dei giornali) produce un sistema politico rissoso e inconcludente, che "deve" litigare ogni giorno, ma non è in grado di avanzare soluzioni concrete. Al contrario, una comunicazione più "fattuale" può obbligare i politici di entrambi gli schieramenti a rimanere meglio in contatto con la realtà. Da questo punto di vista, due cose possono aiutare molto i due fronti politici. Nel caso della maggioranza, la partenza è stata ottima: la compattezza della squadra di Governo, il fatto che sia composta da persone che hanno una consuetudine di lavoro con il Premier e godono della sua fiducia, fa sì che ci sia un forte senso di armonia. Ciascuno ricorda come un incubo le esperienze dei Governi passati, nei quali, prim'ancora che ogni riunione del Consiglio dei Ministri fosse finita, ciascun Ministro era già scivolato via per affrontare il muro dei taccuini e delle telecamere, ed attaccare il collega X, il partito Y, il provvedimento Z. Tutto questo va definitivamente archiviato. Dall'altra parte, può essere molto utile l'esperimento del Governo-ombra: il mio augurio è che il Pd lo prenda sul serio, sul modello inglese, abituandosi a circostanziare le critiche al Governo, e dando sempre la certezza all'opinione pubblica che chi è oggi all'opposizione si sta davvero preparando a candidarsi credibilmente a tornare in maggioranza, la prossima volta. Il resto del compito è affidato ai cittadini, naturalmente. Io mi auguro che il voto sia sempre meno un fatto "scontato" e di "appartenenza", e sia sempre di più ancorato ad alcune questioni concrete, alle "issues" che stanno a cuore a ciascun cittadino. Ognuno, ogni volta, dovrebbe chiedersi quali sono le questioni più rilevanti a suo parere, e qual è il partito più credibile nell'affrontarle. Poi, la volta successiva, il giudizio dovrebbe essere centrato sulla capacità mostrate da quel partito nell'attuazione del programma, nel rispetto degli impegni presi, e sulla capacità del partito concorrente di elaborare una controproposta valida.

Un serio bipartitismo e una buona politica si costruiscono anche e soprattutto così.

da www.socialnews.it

 

Daniele Capezzone

Portavoce di Forza Italia 

 
 
 

Tv spazzatura? Si, ma non solo

Post n°9 pubblicato il 23 Luglio 2008 da besson.maria

Il parere di un uomo di spettacolo

Il nostro è un mestiere che si fonda su due cose essenziali: forma e contenuto.  Essere incolori o sciatti e parlarsi addosso è una garanzia di insuccesso. I più giovani rappresentano il pubblico più difficile perché sono svegli, istintivi e non si fanno turlupinare. Un trombone (vecchio o giovane che sia), non ingannerà mai dei ragazzi con la falsità o la retorica.

 

Negli ultimi anni la TV si è guadagnata il ben poco lusinghiero appellativo di TV spazzatura, ma a parer mio, la TV di oggi è soprattutto “tanta”. 24 ore al giorno di televisione moltiplicate per decine di canali rappresentano una gigantesca quantità di trasmissioni, che non possono, per forza di cose, essere tutte di qualità. C’è del buono e del cattivo, come pure del pessimo. La TV cattiva è quella che insegue gli spettatori e non bada ai mezzi per accaparrarseli. Purtroppo in TV vale la Prima legge dell’entropia, che dice che se in un barile di spazzatura versi un bicchiere di ottimo vino il risultato è spazzatura, ma se in un barile di ottimo vino versi un bicchiere di spazzatura, il risultato è spazzatura lo stesso. In ogni caso, a parte pochi criminalmente osceni, non ci sono programmi che non dovrebbero essere trasmessi. Ce ne sono molti, invece, che piuttosto non dovrebbero essere guardati: da quelli violenti in orari in cui i bambini sono davanti al teleschermo, a quelli che offendono le donne, da quelli di maghi e cartomanti a certi reality.

 

Personalmente prediligo e guardo molti film, oltre che i varietà dei miei colleghi (almeno una puntata), Report, Porta a Porta e, quando voglio svagarmi, Cops su FX. La televisione è piena di gente che fa onestamente il proprio dovere. A volte si sa, a volte no. Mi piacciono Conti, Scotti, la Gabanelli, Frizzi, Amadeus, Milo Infante, Andrea Vianello, Simona Ventura, e adoro Pippo Baudo!

Per quanto riguarda il mio percorso lavorativo, mi ritengo soddisfatto di tutte le mie scelte, perché ogni scelta ha avuto alla base una precisa ragione che in quel momento era o sembrava giusta, ma certamente ce ne sono molte che oggi non rifarei.

Il nostro è un mestiere che si fonda su due cose essenziali: forma e contenuto. Chiunque voglia tentarlo deve curare la forma, che vuol dire un aspetto giusto (non necessariamente elegante) ed un buon italiano ed avere delle cose interessanti o intelligenti da dire. Essere incolori o sciatti e parlarsi addosso è una garanzia di insuccesso. Cosa bisogna fare per arrivare al cuore dei più giovani e per non deludere le aspettative dei telespettatori? I più giovani rappresentano il pubblico più difficile perché sono svegli, istintivi e non si fanno turlupinare. Un trombone (vecchio o giovane che sia), non ingannerà mai dei ragazzi con la falsità o la retorica. Quindi, l’unica cosa è essere se stessi e sperare di essere apprezzati. Non bisogna fingere o cercare di arruffianarsi il pubblico. Tutti coloro che svolgono un lavoro hanno in cuor loro la speranza che quello che fanno sia utile agli altri. A noi, che facciamo parte del mondo dello spettacolo, non lo chiedono mai, ma io mi sento fiero ogni volta che qualcuno mi ringrazia per un sorriso o una riflessione.

da www.socialnews.it

 

Giancarlo Magalli

presentatore televisivo 

 
 
 

Post n°10 pubblicato il 24 Luglio 2008 da besson.maria

La musica come strumento di comunicazione

 

“Pensa” è rimasta nel cuore non solo di milioni di italiani, ma anche di tanti stranieri che conoscono in parte la storia del nostro paese... tanti bambini l’hanno cantata e hanno imparato a conoscere attraverso le parole di questa canzone le storie di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino

 

La musica è uno tra i canali più diretti che consentono ad un artista di comunicare, di esprimere i propri sentimenti ed emozioni, che a volte possono diventare anche i sentimenti e le emozioni di chi ascolta. Ed è proprio questo che io cerco di fare: desidero comunicare ciò che provo, ciò che sento mio. Attraverso la musica mi racconto, lo faccio alla mia maniera, senza girare troppo attorno alle cose, lo faccio in modo diretto, “combattivo”… anche se in realtà Fabrizio Moro, come tutti, ha delle paure. Ciò che mi spinge a trattare argomenti che per molti sono ancora tabù e sui quali l’omertà è padrona, è la voglia, semplicemente la voglia di esprimere i miei disagi interiori, che poi, a pensarci bene, sono gli stessi disagi che accomunano tante altre persone. Non mi faccio tanti calcoli, canto le mie idee, le mie paure, canto i miei sogni... “senza paura di’ sempre la tua”... si fonda su questo la democrazia. Alcuni non si sono fatti troppi scrupoli nell’accusarmi di aver usato un tema come quello della mafia per arrivare al successo: le critiche seppur infondate, mi toccano a seconda del mio stato d’animo. Le critiche lasciano il tempo che trovano però, mentre le canzoni se sono sincere restano, e “Pensa” è rimasta nel cuore non solo di milioni di italiani, ma anche di tanti stranieri che conoscono in parte la storia del nostro paese... tanti bambini l’hanno cantata e hanno imparato a conoscere attraverso le parole di questa canzone le storie di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Mi sento meglio con la mia coscienza dopo aver fatto questo, i critici facessero i conti con le loro, di coscienze. Con la mia musica cerco di essere sincero, cerco di dare un esempio positivo ai giovani e a tutti quelli che mi ascoltano, ma se mi chiedono se esiste un “segreto” per arrivare al cuore del pubblico, rispondo che per come la vedo io, un segreto non c’è. Non bisogna proprio cercare di arrivare al cuore della gente, ma più semplicemente bisogna essere se stessi, e cioè bisogna essere “parte della gente”. La semplicità e la sincerità pagano sempre, qualsiasi cosa si faccia nella vita, e sottolineo, qualsiasi.  Oggigiorno, i ragazzi hanno bisogno di esempi; anch’io li ho avuti. Sono stati Peppino Impastato, Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e tutti gli uomini che hanno sacrificato la loro vita per difendere le proprie idee. Uomini che mi hanno influenzato in maniera positiva grazie alle loro azioni coraggiose, uomini molto diversi da quelli che oggi, sempre più frequentemente, ci vengono proposti da televisione e giornali. I media da sempre cercano di influenzare il pensiero delle persone; tuttavia, credo che sia compito del singolo individuo differenziare ciò che è buono e ciò che è vero, da ciò che non lo è. In televisione spesso vengono messi in risalto falsi eroi o esempi dal successo effimero; la tv non è reale, i ragazzi dovrebbero trovare gli esempi nelle strade dei quartieri dove vivono, tra gli uomini che “si fanno il culo” tutte le mattine e che cercano di sopravvivere lavorando onestamente; dovrebbero trovare un punto di riferimento nei loro padri magari o nei loro fratelli maggiori, dalle persone terrene comunque e non dai pagliacci mascherati che vengono fuori dai real tv o dalle sfide di ballo. Per come la vedo io, i media dovrebbero diffondere notizie e trasmettere film e musica. Se fosse per me farei solo telegiornali, storia del cinema dagli anni ‘30 ad oggi, concerti musicali e magari qualche documentario... il resto via... soprattutto la pubblicità perché la pubblicità ci costringe a fare lavori che odiamo per comprare “str…ate” che non ci servono. È questo il dramma dei nostri tempi, rincorriamo tutto ciò che rappresenta uno status - symbol a discapito degli ideali.

da: www.socialnews.it

 

Fabrizio Moro

Cantautore, vincitore nel 2007 per la categoria giovani del 57^ edizione del Festival di Sanremo. Nel 2008 alla 58^ edizione del Festival di Sanremo ottiene il terzo posto nella sezione campioni con  la canzone “Eppure mi hai cambiato la vita”

 
 
 

Post N° 11

Post n°11 pubblicato il 24 Luglio 2008 da besson.maria

Ragazzi digitali

 

Di Massimiliano Fanni Canelles

 

 

TV, PC, palmari, smartphone, videotelefoni, SMS MMS sapete cosa sono? Forse a questo ancora ci arrivate ma quando il linguaggio si fa difficile con GUI, DVB, IPTV, UMTS, EDGE, HSDPA-WI-FI o siete un tecnico del settore oppure…. semplicemente un adolescente. L’elettronica e i sistemi digitali stanno modificando il significato del tempo e dello spazio e dell’interazione sociale. Diventa allora sempre più urgente e necessario acquisire conoscenza e sviluppare uno spirito critico al fine di un uso consapevole di questi strumenti. Secondo i dati messi in evidenza dall’ottavo Rapporto Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza, presentato a novembre 2007, dopo i bambini scomparsi e il bullismo l’emergenza a cui la nostra società è tenuta a far fronte è proprio l’eccessiva dipendenza – in molti casi potremmo definirla ossessione - che i ragazzi hanno nei confronti delle nuove tecnologie. Un adolescente su tre trascorre più di 4 ore al giorno al cellulare, mentre un bambino su 10 occupa lo stesso tempo davanti alla televisione. Ma non solo, i nuovi ragazzi “digitali” scambiano sms, ascoltano l’ipod, e contemporaneamente lavorano al computer con “finestre” skype aperte in videochiamata o in modalità chatting, oppure con videogiochi interattivi o con video e discussion groups. Una multimedialità che disorienta solo a leggerla.

Siamo di fronte all’evoluzione delle capacità cerebrali umane?…forse, ma anche e sicuramente stiamo assistendo alla nascita di una cultura superficiale basata esclusivamente sull’immagine. L’immagine non richiede sforzo, è li pronta ad essere assorbita passivamente, non ha bisogno di ricerche ed approfondimento, è veloce ed immediata. In questo scenario, di cui la TV è stata il capostipite, internet ha preso il sopravvento catalizzando l’attenzione dei giovani ed invadendo i canali di comunicazione tradizionali.

YouTube, Wkimedia, Google stanno “bruciando” progressivamente carta stampata, radio e televisone, sono sempre più utilizzati per qualsiasi esigenza e da qualsiasi piattaforma - sia essa un computer, un palmare o un telefonino - ma soprattutto permettono a tutti di trasmettere la propria opinione al mondo. E’ così che, fra una notizia letta velocemente nelle poche righe di un blog e la risposta in Web Messenger agli amici online, fra uno podcasting e uno streaming, immersi in una ridondanza d’informazione mai univoca e spesso contrastante i ragazzi si espongono al lato oscuro di internet. Un rete che necessita di una regolamentazione e di un controllo a cui gli adulti, le istituzioni e soprattutto la famiglia devono far fronte. Un sistema che annulla le distanze ma impedisce la trasmissione dei messaggi non verbali, sviluppa nuovi “protocolli comunicativi” ma non è in grado di garantire l'autorevolezza della fonte….. a proposito, per chi fosse interessato GUI vuol dire Graphic User Interface, DVB significa Digital Video Broadcasting, IPTV Internet Protocol Television mentre UMTS, EDGE, HSDPA-WI-FI sono modalità di trasmissione dati….....me lo ha detto Google.

 

 
 
 

Post N° 12

Post n°12 pubblicato il 24 Luglio 2008 da besson.maria

Come comunicare ai figli i problemi

E' importante che i genitori diano la notizia nel modo e nel momento più opportuno, ponendo l'attenzione esclusivamente sugli interessi di equilibrio e stabilità affettiva dei piccoli e non sulla loro esigenza di risolvere rapidamente il problema o di rimandarlo

 

Il dialogo con i bambini, specie su argomenti seri, può essere molto difficile e complicato. E’ più facile ascoltarli che farci capire. Per questo, noi adulti ci dobbiamo sforzare tutti – genitori, insegnanti, baby-sitter, etc. - di porci nei loro confronti in modo chiaro e comprensibile. Non dobbiamo creare confusione. Né trasmettere messaggi equivoci o che possano essere fonte di angoscia.  Questo vale anche e soprattutto per i media, che hanno verso i minori un ruolo educativo sempre più rilevante e influente; spesso, però, in negativo, divulgando esempi e messaggi fraintendibili e violenti. Basti pensare a programmi televisivi, giornalini, musica, videogiochi, etc. 

Lascio, però, a chi è più competente di me indicare quali siano, in tutte queste situazioni, le modalità più opportune e corrette di relazionarsi e di comunicare con i più piccoli. Quello che posso spiegare io, è come confrontarsi con i bambini e i ragazzi quando c’è crisi affettiva tra i genitori. Un momento delicato, in cui, comunque sia, non deve mancare il dialogo, onesto e tranquillizzante, tra genitori e figli. Nel mio lavoro accade quasi ogni giorno di dover affrontare queste situazioni.  Quando, infatti, i genitori si stanno lasciando, mi chiedono come porgere l’argomento ai figli e come informarli che la mamma e il papà non vivranno più insieme. Alcuni, addirittura, pur nella consapevolezza dell’irreparabilità della frattura coniugale, scelgono di “andare avanti”, di non separarsi, nella convinzione, così facendo, di agire per il bene dei loro figli e di proteggerli dall’inevitabile sofferenza della frattura familiare. Questo però, secondo me, è un grave errore, perché inevitabilmente il rapporto tra i genitori, che non è più “d'amore”, di rispetto e collaborazione, si deteriora a causa dell'indesiderata e obbligata convivenza, fino a degenerare nelle liti più accanite. E i figli, loro malgrado, da un lato si abituano a vivere infelicemente in un clima algido o pesante, e dall'altro possono anche credere di essere i responsabili della situazione e della sofferenza di mamma e papà, fino ad agire onnipotenza per trattenere i genitori e impedirne la separazione. A volte con gesti disperati. Consiglio sempre, dunque, di non coinvolgere prematuramente i piccoli nella complicata scelta della divisione, ma nel momento in cui la decisione è presa, quando cioè il cambiamento nell'organizzazione di vita è imminente: a questo punto i figli, che hanno il diritto di capire e sapere ciò che sta accadendo, possono essere coinvolti nelle cose pratiche: scelta della nuova casa, organizzazione delle vacanze, acquisto di un’altra cameretta, etc.  E' importante che i genitori diano la notizia nel modo e nel momento più opportuno, ponendo l'attenzione esclusivamente sugli interessi di equilibrio e stabilità affettiva dei piccoli e non sulla loro esigenza di risolvere rapidamente il problema o di rimandarlo. L'ideale sarebbe che i genitori riuscissero a parlare entrambi contemporaneamente con i figli, con pacatezza e concretezza, modulandosi sulla loro età. I figli sono rassicurati quando sanno che l'affetto dei genitori rimane immutato, anche se succedono cose strane e inaspettate. L’alleanza genitoriale li tranquillizza, anche se il papà e la mamma non saranno più marito e moglie.

L'ulteriore raccomandazione che rivolgo alle mamme e ai papà è - una volta interrotta la convivenza - di non mettere i figli troppo velocemente a contatto con i rispettivi nuovi partners. Ciò, infatti, crea sovente confusione, disorientamento, gelosie, rabbie, curiosità malsane. A volte i figli allontanano il genitore che ha instaurato il nuovo legame per inconsapevole spirito di protezione nei confronti del genitore solo, e per non sentirsi “traditori” ogni volta che si vedono schierati nel nuovo quadretto familiare. In conclusione, i coniugi che stanno affrontando la separazione devono impegnarsi e sforzarsi di andare oltre la crisi e il conflitto che ha causato la frattura dell’unione, per continuare a essere genitori responsabili e tra loro collaboranti, e conservare con i loro figli un dialogo aperto e sereno. La verità può essere dolorosa, ma è un valore da praticare. In ogni caso stimola il coraggio e la crescita del pensiero. L’esperienza della separazione, per quanto traumatica, se ben condotta da genitori responsabili, può essere un’opportunità di maturazione affettiva sia per i figli, sia per i loro genitori.

 

 da www.socialnews.it

Annamaria Bernardini de Pace

Avvocato divorzista, giornalista e scrittrice

 
 
 

Fra ignoranza e noncuranza

Post n°13 pubblicato il 24 Luglio 2008 da besson.maria

L’uomo ha inquinato la terra e già comincia a sporcare lo spazio

 

Non solo la gente non conosce veramente quale siano le problematiche sullo smaltimento dei rifiuti, ma le autorità non provvedono abbastanza per aiutare la popolazione. Senza contare poi gli equilibri legati alla malavita locale

 

In Italia il problema dei rifiuti si fa sentire con forza sempre maggiore. Per risolverlo, la prima cosa cui pensare sarebbe il riciclaggio. Dal punto di vista individuale, la condotta che bisognerebbe assolutamente adottare sarebbe quella della raccolta differenziata. Anche le Istituzioni, ed in particolare i Comuni, dovrebbero da parte loro provvedere alla predisposizione di cassonetti diversi per la raccolta della carta, della plastica, del vetro e degli altri materiali. E poi dovrebbero provvedere alla costruzione di termovalorizzatori, che oltre a non essere inquinanti hanno un altro vantaggio, quello di utilizzare la spazzatura per il riscaldamento. Oggi si arriva all’assurdo che da Napoli partono continuamente treni carichi di rifiuti diretti all’estero, e poi si deve pagare la Germania affinché utilizzi la nostra spazzatura per riscaldare i tedeschi! Tutto questo accade perché c’è grande ignoranza. A Napoli, ad esempio, tutti hanno paura della diossina, ma poi si dà fuoco ai cassonetti all’aperto, ed è quella la volta buona che la diossina si sparge per aria! Non solo c’è una grande ignoranza da parte della gente, ma c’è anche noncuranza da parte delle autorità che non provvedono abbastanza alla diffusione dei cassonetti per la raccolta differenziata. E poi c’è miopia nel non rendersi conto dell’importanza che ha il problema dei rifiuti. A Napoli, in più, ci sono stati interventi della Camorra: si sono spesi un sacco di soldi per costruire il termovalorizzatore senza però metterlo mai in uso, e questa mi sembra davvero una grande presa in giro! Per fare un esempio, in Veneto hanno costruito un termovalorizzatore in pochi mesi, ed è assurdo che a Napoli dopo dieci anni o più non siano ancora riusciti a costruirlo! Quindi la colpa c’è sia da parte della gente sia da parte delle autorità, ed all’incapacità di gestire questo problema si somma anche l’incapacità di ribellarsi alla Camorra. Oltre all’adozione di una condotta individuale che permetta di risparmiare quotidianamente energia ed alla costruzione di termovalorizzatori, penso anche che la soluzione dei problemi energetici italiani non può prescindere dalla costruzione delle centrali nucleari. Il nucleare infatti è meno inquinante del carbone e prima o poi sarà necessario ricorrervi perché il petrolio si sta esaurendo. La scelta di rinunciare alla ricerca sul nucleare, quindi, è stata una scelta basata, anche questa, sull’ignoranza: l’Italia è completamente circondata da centrali termonucleari, siamo circondati da quelle francesi, da quelle tedesche, da quelle svizzere ed anche da quelle slovene, compriamo ogni giorno energia nucleare da Paesi esteri e, se in questi stessi Paesi si verificasse una disgrazia, noi avremmo gli stessi loro danni senza aver ricevuto nessun vantaggio. Parlando di rifiuti, posso dire che gli uomini non inquinano solo la Terra: in cinquant’anni di esplorazioni gli esseri umani hanno inquinato anche lo spazio, con milioni di detriti di vecchi missili e satelliti che orbitano intorno al pianeta. Certo, per inquinare lo spazio ce ne vuole, però è anche vero che c’è un gran numero di satelliti, la gran parte dei quali si trova in orbite abbastanza basse: questi finiranno per bruciare nell’atmosfera. Ci sono anche molti satelliti in orbite alte, a venticinquemila o trentamila chilometri, e questi, a differenza dei precedenti, resteranno praticamente in eterno in orbita attorno alla Terra: potenzialmente, essi potrebbero anche minacciare le prossime missioni nello spazio… certo, il rischio è basso, ma non nullo.

 

da www.socialnews.it

Margherita Hack

astrofisica. garante scientifico del CICAP.

direttore della rivista “le stelle”. già direttore del dipartimento

di astronomia dell'università di trieste

 
 
 

Le grandi paure degli italiani

Post n°14 pubblicato il 24 Luglio 2008 da besson.maria

Il ruolo della politica

 

 

Spesso si afferma che la prima libertà civile è quella di poter svolgere serenamente la propria esistenza anche a prescindere dal proprio contesto finanziario. Certamente, non viviamo un’epoca di grande benessere economico, ma una vita libera dal timore non ha alcun prezzo e chi si occupa del bene pubblico deve tenerne conto

 

Pochi giorni fa veniva pubblicata dal più importante istituto nazionale di ricerche una indagine statistica sulle grandi paure degli italiani dagli ultimi quindici anni ad oggi. Per la verità, sarebbe bastato interrogare a caso i clienti di un qualunque mercato rionale d’Italia per scoprire che gli italiani sono terrorizzati dalla criminalità come probabilmente mai prima d’ora. Si è cercato spesso di negare la fondatezza di questa paura ricorrendo allo stereotipo della TV che influenza le sensazioni dei cittadini. La realtà è che i mezzi di comunicazione di massa raccontano i fatti di cronaca come sempre, ma soprattutto riflettono lo stato d’animo della popolazione. C’è un diffuso senso di insicurezza cui la politica deve far fronte. Spesse volte si afferma che la prima libertà civile è quella di poter svolgere serenamente la propria esistenza, anche a prescindere dal proprio contesto finanziario. Certamente, non viviamo un’epoca di grande benessere economico, ma una vita libera dalla paura non ha alcun prezzo e chi si occupa del bene pubblico deve tenerne conto senza remore e con grande determinazione. è tempo di scegliere la sicurezza senza timore di passare per beceri reazionari. C’è una certa cultura “radical chic” che tende a considerare la sicurezza quasi come un mero privilegio piccolo borghese. Mi spiace dover constatare come una certa “sinistra politica” continui ad ignorare colpevolmente il fatto che la sicurezza non rappresenti un lusso da ricchi capitalisti, quelli con la macchina blindata ed il garage sotto casa, ma la difesa dei più deboli, di coloro che sono costretti a prendere gli autobus di notte, degli anziani, delle studentesse che neppure di giorno possono attraversare un parco al centro di Bologna! Purtroppo ho la sensazione che questa emergenza venga scarsamente considerata dall’attuale governo nazionale. Normalmente non sono solita usare toni “estremi” per definire le mie idee e la mia azione politica. Eppure il comportamento di Romano Prodi e dei suoi uomini lo trovo indegno per la grave situazione in cui viviamo. Dapprima si è pensato di provvedere a questa criticità con semplici disegni di legge da inviare al Parlamento, peraltro con l’astensione del Ministro della Solidarietà Sociale che riteneva eccessive le misure immaginate… Successivamente, di fronte alla sollevazione popolare che seguì alcuni gravi fatti di sangue, si ricorse in tutta fretta ad un decreto governativo che però al momento è ancora in alto mare perché gli estensori di quel decreto hanno pensato bene di inserirci una norma contro “l’omofobia” sul quale è dovuto intervenire persino il Presidente della Repubblica. Insomma, la vera emergenza nazionale per questi signori è la discriminazione ideologica nei confronti degli omosessuali. D’altra parte questo è il governo che ha promosso l’indulto e ciò basterebbe per raccontare l’idea di sicurezza e legalità che ne informa l’attività istituzionale.

 

Il problema sicurezza presenta connessioni profonde con la questione degli immigrati. Ma anche con il concetto di solidarietà. Penso che serva chiarirsi sul principio sacrosanto di solidarietà. Rifiuto fermamente tutto l’armamentario ideologico che ha talmente a cuore gli immigrati clandestini da sognare per loro un destino da accattoni ai margini delle nostre strade. Per me solidarietà è accogliere qualcuno sapendo di poter offrirgli lavoro, assistenza, istruzione. Di questa immigrazione abbiamo addirittura bisogno, non ho paura a dirlo. Agli immigrati che amano il nostro popolo, la nostra terra, la nostra cultura ed hanno deciso di condividere con noi il loro futuro voglio poter dire: siete i benvenuti. Ma l’immigrazione clandestina non è una risorsa, è un problema grave. E per questo mi indigna il decreto Ferrero-Amato, un provvedimento che ha abbattuto la legge che porta il nome del Presidente di Alleanza Nazionale, una legge che vincolava l’ingresso degli immigrati in Italia all’esistenza di opportunità lavorative e per questo è stata ritenuta esemplare persino da personaggi simbolo della sinistra internazionale come il premier spagnolo Zapatero. Con il decreto Ferrero-Amato sono state spalancate le porte all’immigrazione selvaggia, senza regole. Aggiungo che con la reintroduzione della figura dello “sponsor” si rischia di istituzionalizzare un vero e proprio mercato degli schiavi. Lo sponsor è un cittadino italiano o non italiano che versa una certa somma di denaro ad un immigrato senza alcun lavoro da svolgere in Italia, consentendogli comunque dietro questo versamento di denaro di entrare nel nostro Paese. Ebbene, non ci vuole molta immaginazione per ritenere che gli immigrati appena giunti in Italia saranno costretti a risarcire, e con gli interessi, il loro “sponsor”. Fortunatamente su questo è intervenuta l’Unione Europea che ha bruscamente frenato il governo italiano, ma la questione rimane aperta. D’altra parte, come ha rilevato recentemente anche Nicolas Sarkozy, in tema di immigrazione tutti i popoli d’Europa si ritrovano sulla stessa barca, e dunque nessuna nazione può permettersi di promuovere una legislazione che rechi danno alle altre popolazioni europee. Ci vorrebbero ben altri tempi per esaurire un punto di vista accettabile sull’immigrazione. Resto convinta delle parole del presidente francese e le faccio mie: l’Italia è di chi la ama. Ciò non vuol dire respingere indiscriminatamente, ma selezionare l’accesso al nostro territorio e dunque accettare chi intende condividere la medesima storia ed il medesimo destino della nostra comunità nazionale.

da www.socialnews.it

 

 

Giorgia Meloni 

Ministro Politiche Giovanili

 
 
 

Giustizia, libertà e sicurezza

Post n°15 pubblicato il 24 Luglio 2008 da besson.maria

Così cresce la Ue

 

“Sfide all’ordine del giorno quali la migrazione, il terrorismo, la criminalità organizzata e il rispetto dei diritti fondamentali richiedono cooperazione. Lavorare su scala comunitaria permette di conseguire un valore aggiunto”

 

Negli ultimi 50 anni abbiamo lavorato insieme per realizzare l’ideale dei padri fondatori dell’Unione europea. La pace e la prosperità sono i maggiori successi conseguiti dall’Unione. Allo stesso tempo, abbiamo garantito la coesione sociale e la solidarietà tra gli Stati membri. Lo spazio di pace e prosperità si è esteso nel corso dei progressivi allargamenti dell’Unione, che oggi conta almeno 500 milioni di cittadini. Il mio settore, "Giustizia, libertà e sicurezza", è al centro dell’interesse dei cittadini. Il trattato aiuterà l’Unione europea ad affrontare problemi come la lotta contro organizzazioni criminali responsabili del traffico di persone attraverso le frontiere; il cosiddetto "asylum shopping", ovvero gli spostamenti dei richiedenti asilo da uno Stato membro all’altro alla ricerca delle condizioni migliori; la prevenzione della criminalità e la lotta al terrorismo tramite il congelamento dei beni. La dimensione europea ha un valore aggiunto. Sfide all’ordine del giorno quali la migrazione, il terrorismo, la criminalità organizzata e il rispetto dei diritti fondamentali richiedono cooperazione. Lavorare su scala europea permette di conseguire un valore aggiunto. Vorrei allora e innanzitutto ricordare brevemente alcune recenti proposte a vantaggio dei cittadini:

1. Il pacchetto antiterrorismo. Il novembre scorso ho presentato un insieme di proposte antiterrorismo, che comprende misure per impedire l’uso di Internet a fini di terrorismo, lo sviluppo di un sistema europeo di raccolta dei dati relativi ai passeggeri e un piano d’azione in materia di esplosivi.

La direttiva "Protezione dei dati nell'ambito del terzo pilastro". Purtroppo il terrorismo è una minaccia costante. Per questo dobbiamo essere sicuri di non abbassare mai la guardia, ma al tempo stesso di rispettare pienamente i diritti fondamentali. Mi rallegro quindi che il Consiglio Giustizia e affari interni abbia finalmente raggiunto un accordo su alcune misure intese a proteggere i dati utilizzati nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria.

2. Europol / Eurojust. Con Europol ed Eurojust, abbiamo istituito un regime di cooperazione e coordinamento nei settori rispettivamente di polizia e giudiziario. Proprio lo scorso novembre, con l’operazione "Koala", Eurojust ed Europol sono riusciti a smantellare una rete di pedofili alla quale partecipavano 2500 "clienti" su scala mondiale.

3. Il pacchetto sulla migrazione legale. Se da un lato combattiamo l’immigrazione illegale e la tratta di esseri umani, dall’altro incoraggiamo la migrazione legale. In ottobre ho presentato alcune idee sulla migrazione legale dei lavoratori altamente qualificati e ho proposto di aumentare la tutela dei diritti degli immigrati in posizione regolare.

4. La criminalità informatica. Prosegue anche l’impegno per proteggere i bambini, che costituiscono un terzo della popolazione dell’UE. Su questo punto disponiamo di una strategia globale. In maggio ho divulgato una comunicazione sulla criminalità informatica, che riguarda, fra l’altro, lo sfruttamento sessuale tramite Internet.

Il settore GLS è relativamente nuovo. Potrei fare molti altri esempi. Gli sviluppi in materia di Giustizia, libertà e sicurezza sono tanto più notevoli se si considera che il settore è relativamente nuovo.

Il trattato di Lisbona guarda al futuro. Il viaggio europeo non è finito. Dobbiamo rispondere alle sfide odierne e offrire qualcosa di importante agli europei di oggi e di domani. Dobbiamo fare in modo che abbiano fiducia nel futuro. Il nuovo trattato di Lisbona ci aiuta a raggiungere questo scopo.  Il trattato introdurrà numerosi miglioramenti, malgrado le modifiche che sono state necessarie per raggiungere il consenso generale. I punti principali sono:

 

1. I diritti fondamentali.

Prima di tutto, sono lieto che la Carta dei diritti fondamentali diventi giuridicamente vincolante. La Carta tutela i diritti individuali, nella fattispecie la dignità, le libertà, l’uguaglianza, la solidarietà, e I diritti inerenti alla cittadinanza e all’ambito giudiziario. È un risultato eccellente. Grazie a questo, e alle iniziative prese dall’UE per aderire alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ma su questo occorrerà agire rapidamente), il nostro impegno per promuovere e proteggere i diritti fondamentali nell’Unione risulta rafforzato.

2. La riforma istituzionale. Il trattato di riforma è destinato a creare un sistema istituzionale stabile. Perché questo è importante per i cittadini? Perché permetterà di prendere decisioni in modo più rapido e trasparente e con un miglior controllo democratico. I cittadini avranno un’idea più chiara di chi sia responsabile, di che cosa venga fatto e perché.

Cooperazione di polizia e giudiziaria. A mio parere, quindi, i cambiamenti più importanti sono quelli previsti nel settore della cooperazione di polizia e giudiziaria, il cosiddetto "terzo pilastro". Attualmente il processo decisionale in questo campo è per lo più intergovernativo. Le decisioni sono adottate all’unanimità dagli Stati membri, con scarso coinvolgimento della Commissione europea, del Parlamento europeo e della Corte di giustizia europea. Questa situazione cambierà. Sono lieto che si sia raggiunto un accordo per porre fine alla divisione artificiale rispetto alle politiche comunitarie "classiche", abolendo la struttura a pilastri.

3. Il processo decisionale: la procedura di codecisione. Per quanto riguarda il processo decisionale, mi rallegro particolarmente del fatto che la procedura di codecisione sia stata estesa alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Ciò permetterà una maggiore efficienza e affidabilità. "Codecisione" significa che le decisioni sono adottate con votazione a maggioranza qualificata e che il Parlamento europeo ha un ruolo più importante in quanto colegislatore.

Più democrazia. Anche nell’attuale sistema di voto all’unanimità, è raro che uno Stato membro si ritrovi isolato su una determinata questione. Scopo del processo di codecisione è rafforzare la democrazia, attribuendo un ruolo più importante al Parlamento. E ciò che interessa ai nostri cittadini è proprio la democrazia, ossia un processo decisionale trasparente e affidabile.

Decisioni di migliore qualità. Codecisione significa anche offrire ai cittadini decisioni di migliore qualità. Per prendere decisioni all’unanimità possono essere necessari anni prima di raggiungere un accordo politico. E il testo definitivo può prevedere eccezioni, esenzioni e deroghe. Si tratta quindi di leggi di qualità inferiore, più difficili da applicare per giudici e operatori della giustizia. Non sono "user-friendly". Penso, ad esempio, al mandato europeo di ricerca delle prove, o alla decisione quadro su razzismo e xenofobia, approvata quest’anno dopo ben cinque anni di discussioni. La codecisione ha potenziato la nostra attività legislativa. Nel 2005 è stato esteso il ricorso al voto a maggioranza qualificata. All’epoca si temeva che il ruolo accresciuto del Parlamento europeo potesse rallentare i lavori. Credo che sia vero l’opposto: la codecisione ha potenziato la nostra attività legislativa e nella maggior parte dei casi è stato possibile ottenere un testo equilibrato entro termini ragionevoli, già in prima lettura. Si pensi, ad esempio, al "codice frontiere".

4. La "cooperazione rafforzata". Tramite la "cooperazione rafforzata" prevista dal trattato di riforma, nei casi in cui sarà impossibile raggiungere un accordo comune, un numero minimo di nove Stati membri potrà procedere e adottare una normativa. Non mi piace l’idea di un’Europa a due velocità, ma mi piace ancor meno veder bloccare iniziative valide per l’opposizione di uno o due Stati membri ai desideri della maggioranza.

5. La Corte di giustizia. Siamo attualmente in una situazione eccezionale, caratterizzata dal fatto che la Corte di giustizia non è competente in tutti i settori della legislazione dell’UE. Grazie al trattato di Lisbona, la Corte avrà finalmente piena competenza in tutte le questioni di giustizia, libertà e sicurezza, compresa la cooperazione di polizia e giudiziaria. Questo cambiamento introdurrà un controllo giurisdizionale in tutti i settori della legislazione, come avviene in ogni società democratica.

Attuazione incompleta. Alcune misure non sono state ancora attuate dagli Stati membri, o lo sono state solo parzialmente. Questo crea incertezza e rende difficile la cooperazione tra gli operatori del settore. E, in ultima analisi, limita la nostra capacità di proteggere al meglio i cittadini. In quanto "custode dei trattati", la Commissione avrà il potere di avviare dinanzi alla Corte procedure d’infrazione contro gli Stati membri inadempienti; l’esistenza stessa di questo potere è importante quanto il suo uso effettivo. Purtroppo, a causa di alcune deroghe, ciò sarà possibile solo dopo cinque anni dall’entrata in vigore del trattato.

6. Misure di salvaguardia. Unanimità per le azioni operative. Per garantire l’accordo di tutti i 27 Stati membri, è stato ovviamente indispensabile inserire nel nuovo trattato alcune misure di salvaguardia. Ad esempio, l’unanimità per le azioni operative o la clausola secondo cui, se uno Stato membro ritiene che una proposta di legge incida sugli aspetti fondamentali del proprio sistema giudiziario penale, esso può utilizzare come "freno di emergenza" l’opportunità di adire il Consiglio europeo.

7. La clausola di "opt-out". Il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca hanno addirittura scelto di non partecipare all’intero titolo Giustizia, libertà e sicurezza del trattato di Lisbona, il che va al di là della loro attuale clausola di "opt-out" in relazione alle questioni di migrazione e di sistema giudiziario civile. Questi Stati membri non parteciperanno più sistematicamente, come attualmente avviene, alla cooperazione di polizia e giudiziaria.

Complessità giuridica. Non possiamo negare che questo aumenta la complessità giuridica del nostro lavoro. Dovremo considerare le conseguenze della mancata partecipazione di alcuni Stati membri, conseguenze che riguardano loro, ma anche l’Unione intera. Ovviamente sarei favorevole alla partecipazione del Regno Unito, dell’Irlanda e della Danimarca alla politica comune, ma non a detrimento dei progressi conseguiti dal nuovo trattato.

8. Problemi relativi al periodo di transizione. Mi preoccupa il periodo di transizione previsto dal nuovo trattato, idea inserita nel dibattito solo nella fase finale dei negoziati: la Corte di giustizia europea avrà competenza per le decisioni assunte nell’ambito del terzo pilastro solo dopo cinque anni dall'entrata in vigore del trattato. In tal modo si indebolisce e si contrasta il grande successo conseguito con l’abolizione della struttura a tre pilastri.

Il Regno Unito. Le sentenze della Corte di giustizia in materia di cooperazione di polizia e giudiziaria emanate prima dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona non saranno vincolanti per il Regno Unito.

Irlanda e Danimarca. Sono lieto, tuttavia, che su questo punto l’Irlanda abbia assunto una posizione diversa da quella del Regno Unito. E mi rallegro del fatto che la Danimarca si proponga di emendare la sua costituzione nel 2009, per garantire di non escludersi dall’intero settore giustizia, libertà e sicurezza.

In conclusione. Vi lascio con una riflessione che riguarda la comunicazione. Dobbiamo essere sicuri di comunicare e divulgare le buone notizie in relazione al trattato. Dobbiamo persuadere i cittadini che le istituzioni europee possono contribuire a risolvere i loro problemi. Una comunicazione efficace non riguarda soltanto questi cambiamenti istituzionali (per quanto importanti), ma in generale l’effetto dell’azione dell’UE sulla vita dei cittadini. Se non garantiamo una comunicazione efficace, Internet, la radio, la televisione e i giornali si riempiranno di voci antieuropee. Quella che ci si offre è un’opportunità di migliorare l’Europa e di far comprendere ai nostri concittadini che cosa essa fa e perché è importante per loro. Per realizzare questa opportunità, tutti noi abbiamo un ruolo da svolgere.

da www.socialnews.it

 

Franco Frattini

Ministro Affari Esteri

 
 
 

Italia,vecchia signora

Post n°16 pubblicato il 24 Luglio 2008 da besson.maria

L’importanza dell’integrazione

 

 

Ci sono persone che provengono da territori dove il rispetto dei diritti e la democrazia sono spesso solo parole senza senso. Purtroppo nel nostro paese la possibilità che questo avvenga è dovuta alla scarsa rigidità che le istituzioni  applicano nella repressione ai crimini e alla malavita

 

In base soprattutto agli ultimi avvenimenti accaduti nel nostro Paese si è rafforzato nel pensiero che gli immigrati siano fondamentalmente dei delinquenti, nessuno escluso. è probabile che fra chi scappa dal proprio paese per cercare una vita migliore ci siano tante persone per bene e che i delinquenti che vengono da altre nazioni siano solo una piccola percentuale. Persone che non hanno avuto un’educazione appropriata, persone alle quali non è stato dato insegnamento alcuno in merito alle nostre leggi ed alle leggi in generale. Il problema è che questi, provenendo da territori dove il rispetto dei diritti e la democrazia sono spesso solo parole senza senso, pensano di poter continuare a vivere secondo la legge del più forte anche in Italia. Purtroppo nel nostro paese la possibilità che questo avvenga è dovuta alla scarsa rigidità che le istituzioni applicano nella repressione ai crimini e alla malavita. Il carcere è diventato un servizio rieducativo: giusto. Ma è giusto che persone che hanno massacrato, violentato e fatto soffrire famiglie intere debbano anche pagare per il crimine commesso, e che spesso questi individui difficilmente possono essere rieducati. Questo di certo fa sì che vi sia del malcontento che serpeggia fra noi cittadini. Un malcontento palpabile, che non tiene conto del fatto che non è possibile colpevolizzare chi non è stato messo in condizione di non commettere dei crimini.

Le leggi devono necessariamente esser fatte rispettare, ma la politica deve anche essere in grado di offrire soluzioni valide ed applicabili, cosa che per esempio non è successa a seguito del recente omicidio avvenuto a Roma per mano di un giovane Romeno a danno di Giovanna Reggiani. Il drammatico fatto ha portato ad un tanto assurdo quanto inutile accanimento nei confronti dei Rom. Queste persone sono state cacciate dall’oggi al domani dal luogo in cui vivevano, hanno pagato tutte per la grave colpa di un singolo. Si tratta di gente che era scappata dal proprio paese, di uomini e donne che morivano di fame e che qui da noi non hanno trovato ciò che si aspettavano. Persone senza colpa, buttate fuori dai loro alloggi e che oggi sono ritornate nello stesso posto da cui sono state cacciate e che proprio per questo vivono ancor più di prima nell’illegalità. Al giorno d’oggi abbiamo bisogno di grandi investimenti a livello di riforme in generale. Quando siamo nel gruppo diventiamo tutti egoisti, pensiamo esclusivamente ai nostri interessi e ci concentriamo su quello che potremmo definire il “nostro orticello”. In realtà è proprio questo il vero dramma, è proprio questo il nocciolo della questione: partiamo tutti dal nostro interesse e siamo poco o per niente disponibili a pensare ad un discorso fatto anche di collettività. Dovremmo invece darci una mano nel tentare di non essere accaniti nei confronti del singolo e dovremmo, piuttosto, provare a cercare un dialogo costruttivo e per l’appunto collettivo. Nel mio mestiere mi diverto ad interpretare la parte dell’avvocato, quando serve mi prendo delle colpe, ma soprattutto, cosa che faccio anche nella vita al di fuori dal set, lotto per quelli che sono i miei, i nostri, diritti di cittadini che non possono né devono essere mai calpestati. Quando ciò accade, non bisogna avere paura di alzare la voce, non bisogna avere paura nemmeno se ci si confronta con i cosiddetti “potenti” e bisogna trovare la forza di denunciare i soprusi alla dignità umana. In questo preciso momento, se penso al nostro Paese da qui a dieci anni, non riesco a farlo con tranquillità, con ottimismo. Ritengo che la nostra Italia sia un Paese ormai invecchiato, invecchiato nelle Istituzioni, nella mentalità. C’è però un fatto che mi fa credere che le cose potrebbero assumere una piega diversa e che mi fa presupporre che forse il futuro potrebbe essere più roseo: noto che nell’animo della gente comincia ad esserci una maggior presa di coscienza e questo di sicuro è un buon punto di partenza per iniziare a cambiare le cose. Quel che è certo, è che tutto ciò che facciamo dovrebbe essere condito dall’amore, perché nel nostro Paese è forse proprio l’amore che manca e che va coltivato. Manca quell’amore che è indispensabile per arrivare ad un dialogo aperto, ad un’educazione e “pulizia interiore” che, per esempio, ho riscontrato al ritorno di un mio recente viaggio ad Istanbul in Turchia, dove le persone che si apprestano ad entrare in Europa dimostrano di avere estrema consapevolezza di quanto sia importante integrarsi ed accedere onestamente ad una collettività.

da www.socialnews.it

 

Sebastiano Somma

attore di teatro, cinema, televisione e fotoromanzi

 
 
 

Carnefici e vittime

Post n°17 pubblicato il 24 Luglio 2008 da besson.maria

Sicurezza e lavoro

 

 

Siamo uno Stato che vuole sentirsi all’altezza degli altri partner europei e detiene, invece, il solitario primato del “guinness” dell’insicurezza sul lavoro. L’inferno della Thissenkrupp è divampato a causa della scarsa concretezza e della mancanza di controlli: estintori scarichi, turni di lavoro massacranti. Non serve quindi solo modificare le norme della sicurezza. Occorre soprattutto creare una cultura di prevenzione. Le “morti sporche sul lavoro”, altro che bianche, sono davanti ai nostri occhi

 

A  ridosso del periodo natalizio siamo stati colpiti dall’ennesima tragedia annunciata. La strage della Thyssenkrupp di Torino ha fatto riemergere il dibattito sulla sicurezza sul lavoro nel nostro Paes a causa del quale si muore sempre più. La risposta a questa emergenza sociale non può essere certo quella di puntare tutto su un pugno di leggi che, di per sé, non possono abbattere infortuni, malattie professionali e morti sul lavoro. I fatti ci dicono che in questi ultimi anni si è lavorato sempre di più percependo salari da fame e in ambienti a sicurezza zero. Senza affrontare il tema della sicurezza nei luoghi di lavoro, la perdita di potere di acquisto dei salari, delle pensioni e dei diritti. Prodi è alla frutta. E fin qui niente di nuovo. Ma è imbarazzante come questo esecutivo di centrosinistra, con 15 sindacalisti tra Ministri, Viceministri e Sottosegretari, sia stato travolto dal problema e non sia in grado di fare nulla. Il messaggio è chiaro: nonostante le parabole raccontate fino ad oggi, questo non è un Governo amico dei lavoratori! Come dimostra il protocollo sul welfare e l’ultima finanziaria, la maggioranza è troppo impegnata a fare affari o dare risposte ai poteri forti da cui dipende. Scelte che meritano lo sdegno e la rabbia di tutti, perché non possiamo più accettare che vengano calpestate le vite di milioni di cittadini, che producono per il nostro Paese, e dallo stesso dimenticati. Le “morti sporche sul lavoro”, altro che bianche, sono lì davanti ai nostri occhi e ci parlano di un paese reale totalmente diverso dal paese mediatico di cui parlano i giornali o le arringhe politiche. Si muore per lavorare. Si muore per sopravvivere al carovita, ai prezzi impazziti, alla difesa degli standard di vita, sociali, scolastici, consumistici, per riuscire a pagare le rate di apparecchi elettronici e dell’auto, insieme al mutuo per la casa. Siamo uno Stato che vuole sentirsi all’altezza degli altri partners europei e detiene, invece, il solitario primato del “guinness” dell’insicurezza sul lavoro in tutto l’Occidente più industrializzato. Torino ci ha fatto capire che esistono ancora troppe lacune in materia di sicurezza sul lavoro, e che gli organi preposti al controllo di questi posti, molto spesso, al di là dalla retorica propaganda, si dimostrano poco vigili ed impotenti. Parliamo di chi cerca di difendere le ragioni del privilegio ideologico-sindacale ad ogni costo, senza tener conto dei risvolti mortali che le loro bizzarre scelte hanno sui cittadini. Il moralismo scuote, sorprende, affascina. Finchè si scopre che anche l’inferno della Thyssenkrupp è divampato a causa della scarsa concretezza e della mancanza di controlli: estintori scarichi, turni di lavoro massacranti in un settore estremamente pesante e pericoloso, il tutto consumato in una fabbrica in dismissione. Solo di fronte alla morte si sono cominciate a levare le prime prese di posizione.

 

Come quelle di un Piero Fassino, fautore del PD, che si è accorto che sono per lo meno dieci anni che non si parla di sicurezza del lavoro, che non si fanno inchieste, che i suoi alleati sindacati, per giunta, anziché responsabilizzare il loro lavoro, si son buttati a fare politica. (D’altronde, quando il sindacato cambia lavoro e si sostituisce alla politica iniziano i guai dei lavoratori). Eppure il concetto è ben scolpito nella Costituzione: la nostra Repubblica è fondata sul lavoro, che deve essere sicuro, dignitoso, giustamente retribuito e ragionevolmente garantito. Più presente di così! Veniamo a qualche dato imbarazzante. Secondo fonti Eurispes, la piaga degli incidenti sul lavoro in Italia ha causato più morti della seconda Guerra del Golfo. Si calcola che dall’aprile 2003 all’aprile 2007 i militari della coalizione che hanno perso la vita sono stati 3.520, mentre dal 2003 al 2006 i morti sul lavoro nel nostro Paese sono stati ben 5.252. Un incidente ogni 15 lavoratori, un morto ogni 8.100 addetti. Un dato “ impressionante”, cui va aggiunto che ogni anno questi infortuni costano alla comunità 50 miliardi di euro. Tanta carta e cavilli, ma poca sostanza. Le “morti bianche” e gli incidenti (non mortali, ma gravi) sul lavoro – ha detto Romano Prodi in occasione della tragedia sul lavoro consumata a Napoli nel 2006 - sono un’emergenza nazionale. Il ritmo degli incidenti e l’inconsistenza delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio non sono cambiati nei giorni a seguire. Nel 2006 ci sono stati un milione di incidenti e 1250 morti in 12 mesi: quattro al giorno, al netto dei festivi. Nei primi mesi del 2007, la situazione non è migliorata: oltre mille nei primi nove mesi. L’Italia ha il triste record, tra i Paesi dell’Unione Europea, di essere quello con la più alta incidenza sia di infortuni sia di incidenti mortali sul posto di lavoro. Alcune riflessioni. Questi dati dimostrano che non è sufficiente avere una legislazione. Occorre anche implementarla e soprattutto creare una cultura di prevenzione. Tutti i soggetti coinvolti in questo dramma, dalle autorità pubbliche ai datori di lavoro e ai lavoratori, dovrebbero affrontare questo problema concretizzando gli sforzi di prevenzione e traducendoli in impegni tangibili sulla sicurezza. Ma molto spesso queste esigenze male si coniugano con le esigenze della politica, in modo particolare con quelle di una maggioranza di sinistra debole, e sempre sull’orlo dell'implosione. Gli interessi dei lavoratori in questo eterno equilibrismo sono i primi a cadere.

 

In un Paese come il nostro la crisi della rappresentanza può generare danni difficilmente stimabili, in quanto nelle dinamiche legate al lavoro si insinuano delle logiche che poco hanno a che vedere con la democrazia. Si generano delle spirali di odio sociale che negli anni hanno prodotto disgrazie. Il sindacato, in modo particolare la Cgil che si è schierata al fianco di Prodi sin dalla campagna elettorale, oggi sta pagando il prezzo per aver accettato il mandato politico del Governo. La crisi di rappresentanza del sindacato va ricondotta alla politica spregiudicata del governo Prodi, che ha caricato impropriamente le parti sociali di un ruolo politico di rimpiazzo. Il sindacato dovrebbe prendere atto dell’evidenza: la logica del “governo amico” non permette di intercettare le reali esigenze dei lavoratori. Questo vuoto di rappresentanza sta colpendo in modo significativo il mondo del lavoro. Ecco perché è necessario pervenire, in tempi brevissimi, al codice unico sulla materia. Un sistema che rinchiuderebbe gli addetti ai lavori nella loro responsabilità e che abolirebbe le norme anacronistiche ed obsolete a favore di una normativa più chiara ed efficace, in linea con gli standard europei. Ancora, bisognerebbe regolamentare la normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro attraverso i contratti nazionali. Ad oggi i sindacati restano negligenti in materia: sia perché distratti dalla concertazione – tradotto, significa che si occupano di cose di competenza del Governo e della politica – sia perché non vogliono assumere direttamente l’onere del controllo della materia. Insomma, meglio giudicare, piuttosto che darsi da fare e sedere nei consigli di amministrazione – Inail – piuttosto che sporcarsi le mani. Severe dovrebbero essere anche le verifiche sul lavoro che andrebbero fatte in base alla Bossi-Fini – che si sta tentando di sopprimere – per controllare il lavoro di alcuni clandestini, disposti ad ottenere un lavoro a qualunque prezzo, anche se rischioso e nocivo. Oggi in nome di una flessibilità esasperata e di permessi di soggiorno “sotto banco”, gli extracomunitari sono costretti ad un ricatto perenne: non esistono esseri umani ma braccia e gambe da utilizzare, anche nelle condizioni più estreme. Le denunce della sinistra hanno sempre il sapore della propaganda e dei pochi fatti. A volte anche dell’indifferenza più lampante. Non dimentichiamo la formazione e l’informazione, strumenti strategici per fare crescere la cultura della prevenzione della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro, affinché diventi un valore reale per tutti i soggetti coinvolti. Le leggi che tutelano la sicurezza sul lavoro, bene o male, esistono. Tutte queste normative, però, continuano evidentemente a non essere rispettate. Per negligenza, per superficialità, per l’ignoranza che porta molti datori di lavoro a credere che si possa risparmiare sulla sicurezza dei lavoratori. Come investire i soldi del patrimonio Inail? Ovviamente in formazione piuttosto che in case o emolumenti. L’Italia ha bisogno di una “cultura” del lavoro e della sicurezza. Un concetto molto più importante delle dosi minime di cannabis promosse dal Ministro Livia Turco, o dei Dico o Cus che siano. Purtroppo, questo governo ha mostrato la sua più totale irresponsabilità e incuria nell’affrontare il tema. Più tasse e meno salari. Più doveri e meno diritti. La sinistra non è più con i pensionati, con gli operai, con i giovani. In questi ultimi anni abbiamo visto il sogno delle loro ideologie appannarsi sempre di più, a causa di persone che puntano solo a difendere quel posto che gli è stato consegnato. Un Governo che ha perso il contatto con la gente, che ha annacquato le proprie iniziative nei boicottaggi dei partiti di maggioranza. La vita delle persone non si può esaurire a causa dell’inefficienza dei Palazzi. Nelle Aule mancano i cittadini perché la sinistra in questi anni ha fatto credere che basta andare a votare e poi “ci pensiamo noi”, a tal punto che tutto tace, tutto dorme, e in tanti si muore. Questa sinistra non è di sinistra!

da www.socialnews.it

 

Gabriella Carlucci

parlamentare, segretario “VII commissione”

(cultura, scienza e istruzione)

 
 
 

Il dramma è non seguire le regole

Post n°18 pubblicato il 24 Luglio 2008 da besson.maria

L'opinione di Gigi Buffon

 

 

Dopo le polemiche sullo spot televisivo "a rischio infortuni" Gigi Buffon esprime il suo vero pensiero a SocialNews: “non è accettabile perdere la vita all’improvviso, proprio mentre si sta dando il meglio di sé. Non è accettabile che ad un essere umano, nel procinto di svolgere le sue mansioni, non sia concessa la possibilità di tornare a casa dai suoi cari”

 

Le cosiddette “morti bianche” riempiono con prepotenza le pagine di cronaca e fanno davvero male a tutti. Le notizie che arrivano dai telegiornali sconvolgono gli animi, suscitano sdegno e rabbia talvolta difficili da contenere. Tante le polemiche, tante le accuse, tanti i “ci dispiace” ed i “non accadrà più”. Promesse, parole che a poco servono quando una vita viene spezzata. Non servono a restituirla, né tantomeno a lenire il dolore di chi resta. Come è noto a tutti oggigiorno gli infortuni mortali sul lavoro non rappresentano più l’eccezione. Magari fosse così! Gli incidenti sono diventati un dato di fatto, appartengono alla realtà dei nostri giorni e sembra sempre più difficile riuscire ad impedire che certe disgrazie, forse evitabili, continuino a verificarsi a cadenza quasi regolare. Proprio la sensazione di non riuscire a trovare il modo per impedire che drammi simili a quello della ThyssenKrupp possano ancora accadere rende il tutto ancora più drammatico. Si lavora per vivere in maniera più agiata, per crearsi un futuro o per assicurarlo ai propri figli e, pertanto, non è accettabile perdere la vita così, all’improvviso, proprio mentre si sta dando il meglio di sé. Non è accettabile che ad un essere umano, nel procinto di svolgere le sue mansioni, non sia concessa la possibilità di tornare a casa dai suoi cari. Con il tempo, la cultura, le istituzioni, le esperienze dovrebbero rendere l’ambiente lavorativo sempre più sicuro come sempre migliori dovrebbero essere le cure mediche, l’istruzione, il rispetto dei diritti umani, la giustizia, ecc. L’anno appena passato invece è stato segnato da un numero elevatissimo di incidenti dall’esito drammatico soprattutto nell’ambito lavorativo. Da quanto apprendo dai media mi pare di capire che il problema non sia tanto legato alle norme quanto piuttosto alla mancanza della loro applicazione. Purtroppo il non rispetto delle regole è una consuetudine negativa che in Italia sembra diventata una prassi: abbiamo le leggi, tante e corrette, ma non sempre riusciamo a farle applicare. Forse se si riuscisse a far capire che questo è uno dei veri problemi italiani e si tentasse di risolverlo magari cercando di sensibilizzare in questo senso la popolazione, le istituzioni, le imprese, le associazioni, le cose potrebbero cambiare. Per quanto riguarda il mondo del calcio sono in molti a credere che il nostro, tutto sommato, sia un lavoro “protetto”, privo di insidie. Questo stereotipo è probabilmente originato dal fatto che al termine “calcio” si è soliti accumunare la parola “gioco” ed il gioco, lo si sa, diverte e non uccide. In realtà le cose non stanno proprio così perché anche nel mio lavoro c’è un livello elevato di rischio (anche se non credo lo si possa paragonare a quello di un operaio). Si tratta di uno sport dove è previsto il contatto fisico e questo talvolta può provocare traumi di varia entità. Personalmente mi auguro di aver regalato a tutti gli sportivi della Juventus e della Nazionale qualche soddisfazione. A tutte le famiglie che mi hanno seguito e continuano a farlo con affetto, ma in particolare a tutte le famiglie che malauguratamente si sono trovate o si trovano ad affrontare un lutto a causa di un incidente sul lavoro, non posso che mandare un messaggio di affetto e solidarietà. Vi sono vicino…

 

da www.socialnews.it

Gianluigi Buffon

portiere della juventus e della nazionale campione del mondo

 
 
 

Il grande equivoco

Post n°19 pubblicato il 24 Luglio 2008 da besson.maria

La differenza tra top model e ragazze sottopeso

Il divieto di far sfilare modelle con una massa corporea inferiore a un certo limite serve certamente a tutelare chi fa quel lavoro: alcune modelle sono morte per anoressia. Ma le top, le vere top model, generalmente non sono affatto anoressiche. Sono invece stupende ragazze molto longilinee e molto in forma che certo staranno perennemente attente alla linea. Ma stare a dieta non significa essere anoressica

Per fortuna non ingrasso facilmente. Non sono una di quelle persone che guardano una pizza e prendono mezzo chilo e non riesco proprio ad “abbuffarmi”; mi piace mangiare e sono golosa, adoro i dolci ma non mangio mai troppo oltre la mia fame e se esagero è il fisico a chiedermi una pausa. Naturalmente se mangio troppo ingrasso, come tutti, e siccome odio sentirmi soprappeso (davvero odio), a tavola sto quasi perennemente attenta. Detesto il mio grasso, non quello degli altri, anzi confesso che negli uomini la pancetta non mi dispiace affatto. Cosi in embrione non escludo di aver avuto una tendenza all’anoressia e comunque ne capisco e ne ho provato i meccanismi psicologici, quella sensazione di essere totalmente padrona del proprio corpo, quella esaltazione che attraverso il digiuno ti fa sentire come se tenessi tutto sotto controllo: te stessa, gli altri, il mondo intero. Amori, dolori, frustrazioni, fatica, odio verso chi ti sta intorno a cominciare dalla famiglia. Tutto può essere apparentemente gestito attraverso il rifiuto del cibo, dimostrazione di forza e nello stesso tempo minaccia di sottrazione totale. Un’enorme vendetta contro chi non ci ama o ci ama troppo, contro un mondo che non ci ha dato o ci ha tolto quello che volevamo, in ultima analisi una vendetta contro se stessi.

 Ho provato consapevolmente questa sensazione intorno ai venti anni, quindi molto tardi rispetto all’età in cui in genere si scatena la malattia. Andavo all’Università e attraversavo un momento familiare non particolarmente doloroso ma certamente difficile, complicato, in cui mi attribuivo delle responsabilità improprie. Solo molto, molto più tardi ho imparato a difendermi, a non soffocarmi di sensi di colpa che nulla avevano a che vedere con la realtà e a tutelare me stessa per essere pronta a tutelare chi, venuto dopo,aveva davvero il diritto di essere tutelato: mio figlio. Così quando è esplosa la polemica sul modello estetico di estrema magrezza proposto dagli stilisti di moda con la richiesta, prima in Spagna poi da noi, di non far sfilare modelle con una massa corporea inferiore a un certo limite per non spinger le ragazzine verso una china pericolosa mi sono sentita coinvolta personalmente e mi sono chiesta se fossi d’accordo. Sì e no, ma direi più no che sì. Mi spiego: il divieto serve certamente a tutelare chi fa quel lavoro: alcune modelle sono morte per anoressia. Ma le top, le vere top model, generalmente non sono affatto anoressiche, sono invece stupende ragazze molto longilinee e molto in forma che certo staranno perennemente attente alla linea: ma stare a dieta non è, appunto, essere anoressica. 

Del resto se il modello estetico fosse davvero così prepotente il mondo occidentale sarebbe pieno di magri, mentre sappiamo che sono di gran lunga più numerose le persone soprappeso. Allora sì, assolutamente sì ai limiti di età. È vergognoso far sfilare bambine di 13 anni. Sì anche coinvolgendo i grandi stilisti a un controllo della vita e della salute di queste ragazze, troppo spesso lontane dalle famiglie, sottoposte a ritmi massacranti, a rischio droga e prostituzione. Ma cerchiamo sé e per sé. Quello che invece andrebbe fatto da parte di tutte noi, a cominciare dalle donne impegnate in politica, sarebbe una sorveglianza capillare su tutti gli episodi di discriminazione, di disprezzo, di insulto sulla base dell’aspetto fisico. Le donne sono la grande maggioranza ma non dimentichiamo che esistono anche uomini anoressici. A tutti gli adolescenti la società dovrebbe dire curati, migliorati, coltiva le tue ambizioni ma la bellezza non è un valore assoluto, è solo un dono come altri: l’intelligenza, la simpatia, la gioia di vivere valgono altrettanto. Accompagna la natura ma non sognare di piegarla, è troppo pericoloso.

da www.socialnews.it

Mariolina Sattanino

Giornalista, corrispondente Rai da Bruxelles

 
 
 

Il carnefice? A volte è donna

Post n°20 pubblicato il 24 Luglio 2008 da besson.maria

Immigrati e lavoro forzato

 

 

Sono oltre un milione le donne nel mercato della tratta internazionale. Vendute e scambiate per denaro, vengono da tutte le parti del mondo dove, insieme all’aria, si respira fame e povertà. Per chi le sfrutta ognuna di loro vale mediamente 110 mila euro all’anno, la maggior parte delle volte guadagnati  con lo sfruttamento sessuale

 

Spiace dover sempre ricordare le cifre. Eppure parlano da sole. Più di qualsiasi retorico commento su una realtà che secoli di lotte non hanno cancellato. In particolare oggi, nell’occasione di celebrazione della giornata contro la violenza sulle donne, le cifre quantificano i soprusi che in molti modi e in molti mondi le donne ancora subiscono. A spregio del secolo moderno o post-moderno in cui viviamo, a dispetto di anni di lotte per l’emancipazione femminile.

E a proposito di cifre sono oltre un milione le donne coinvolte in quel grande e vergognoso mercato che è la tratta internazionale. Vendute e scambiate per denaro vengono da tutte le parti del mondo dove, insieme all’aria, si respira fame e povertà. A tutte viene rubato il futuro, quello che gli viene promesso quando partono in cerca di lavoro e di speranza, senza altra possibilità che farsi ricattare. Spinte dalla promessa di un progetto di vita spesso trovano solo altra miseria. Ognuna di loro, sempre a proposito di cifre, per chi le sfrutta vale mediamente 110mila euro all’anno, la maggior parte delle volte (quasi in sette casi su dieci), guadagnati con lo sfruttamento sessuale.

 

Le vediamo spesso sul ciglio di una strada, adolescenti, ragazzine, truccate e svestite sui marciapiedi a elemosinare la vita mentre ne perdono un po’ ogni giorno.

Una violenza particolarmente amara quando il carnefice di una donna è un’altra donna. Come accade in alcuni paesi africani. Succede, per esempio, che molte di loro, arrivate in Italia o in Europa grazie alla mediazione di “protettrici” del loro stesso paese vengono spaventate a morte da queste ultime che chiedono somme di denaro sempre più ingenti per il viaggio che hanno favorito e organizzato. L’ingresso in Europa si trasforma così in una spirale di paura fatta di riti voodo, minacce e ricatti a cui poche riescono a ribellarsi finendo per ridursi in schiavitù. O come per le mutilazioni genitali femminile, un’altra pratica aberrante che non ha giustificazioni: 130 milioni di donne e bambine nel mondo hanno subito questa barbarie e 2 milioni ogni anno rischiano di subirla. La campagna internazionale “StopFgm”, che da anni si batte contro questa pratica, condotta dalle Ong Non c’è Pace Senza Giustizia e l’Aidos (Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo), ha portato una vera e propria "Carta dei diritti" delle donne africane: il Protocollo di Maputo, adottato dai Capi di Stato dell'Unione Africana nel luglio 2003, che non solo condanna espressamente le MGF come una violazione dei diritti umani, ma contiene una serie di disposizioni che concernono la vita civile e politica - ad oggi pressoché inesistente - delle donne africane.

 

Ancora di cifre, invece, è difficile parlare quando si parla culture tribali nel mondo islamico. Ho ancora nel cuore il mio viaggio in Afghanistan, nel 1997, durante il regime misogino ed oscurantista dei Talebani. Quel viaggio mi confermò le condizioni di vita disumane in cui vivevano molte donne, alle quali era proibito quasi tutto. Il burqa era solo il segno esteriore di annullamenti più profondi. Le donne non dovevano solo coprirsi il volto, il corpo ma anche l’anima, girando come fantasmi. Per loro non c’era istruzione, non c’era vita sociale, non c’era né presente né futuro. Neanche il diritto di cura. Per le più malate, ricordo ancora, solo un ospedale diroccato, senza luce né acqua. E’ per questo che ho promosso la campagna “Un fiore per le donne di Kabul”, per esprimere la solidarietà mondiale nei confronti di quelle donne senza voce né volto.

 

La violenza sulle donne è antica e dura da sconfiggere. Non ne è esente neanche la nostra “civilissima” Europa. In Italia, per ritornare alle cifre, secondo i dati dei centri antiviolenza, dall’ottanta al novanta per cento della violenza sulle donne si consuma dentro le nostre mura domestiche. Non esiste una ricetta per cambiare. Le ragioni della violenza sulle donne si perdono e si rintracciano nei secoli, nella storia e nelle storie. Le trasformazioni culturali sono spesso lente ma talvolta alcune leggi sono capaci d’innovare la società in maniera anche dirompente. In Italia, lo ha fatto la legge sul divorzio, cambiando la forza contrattuale della donna nel matrimonio, o quella sull’aborto. Eppure strada da fare ce n’è. La più importante in questo senso è una maggiore presenza delle donne nelle Istituzioni. Le donne hanno un vissuto comunitario importante, una capacità di dialogo e una pazienza esercitata nei secoli, una flessibilità più forte delle pure logiche del potere e della competizione. Una società meno violenta non può che passare attraverso governi dove la presenza femminile non è solo simbolica.

da: www.socialnews.it

 

Emma Bonino

 
 
 

Post N° 21

Post n°21 pubblicato il 25 Luglio 2008 da besson.maria

Gi obiettivi di “Ci penso io”

 

Essere disabili è essere consapevoli che la compassione non aiuta a vivere, e nemmeno l’illusione di una guarigione che probabilmente non arriverà mai. La vita da vivere è questa. Qui. Ora. Ed è giusto che sia una vita splendida, nonostante tutto.

 

Essere disabili è ridere di cuore con qualcuno e sorridere di cuore per qualcuno, anche quando la vita a te non sorride e non ti risparmia un nuovo dolore che si somma al grande fardello che hai nel cuore. E’ gioire nel profondo delle gioie degli altri anche quando sotto sotto vorremmo che quella fosse anche una gioia per noi stessi. Essere disabili è volere, nel proprio piccolo, cambiare il mondo per renderlo un po’ più comprensivo, meno cieco di fronte alle diversità, più profondo. E’ sentirsi persona in mezzo a tante persone. E’ essere consapevoli che la compassione non aiuta a vivere, e nemmeno l’illusione di una guarigione che probabilmente non arriverà mai. La vita da vivere è questa. Qui. Ora. Ed è giusto che sia una vita splendida, nonostante tutto.“Ci penso io” nasce con e per questi principi. E con la convinzione che lo sport sia un’esperienza sana, positiva di per se stessa, ed anche un mezzo efficace per integrare le persone disabili in un contesto variegato, socialmente stimolante e formativo. Come associazione sportivo-dilettantistica, quindi, a fianco delle associazioni sportive iscritte al Comitato Italiano Paraolimpico Provinciale, si impegna a sostenerle e a creare nuovi obiettivi per semplificare un futuro ad oggi troppo incerto. In particolare, “Ci penso io” si impegna a sostenere le associazioni e gli atleti della provincia di Bologna che si sono candidati per rappresentare l’Italia ai giochi Paraolimpici di Pechino 2008, realizzare campi estivi di avvicinamento allo sport per disabili, creare borse di studio per disabili presso l’Università di Bologna, lavorare fianco a fianco al Comitato Italiano Paraolimpico per poter strutturare al meglio ogni evento legato alla disabilità e rendere più agevole la vita di tutti i giorni con nuove proposte per l’abbattimento delle barriere architettoniche.“Ci penso io” ha festeggiato la sua nascita al Carlton Hotel di Bologna con una cena di beneficenza, allietata dall’allegria di Veronica e Malandrino, durante la quale si è tenuta un’asta di beneficenza a favore del Comitato Paralimpico Italiano. La serata ha inoltre permesso alla nostra atleta paraolimpica Silvia Veratti di esporre il problema che potrebbe impedirle di gareggiare alle olimpiadi di Pechino 2008: come fantina di dressage, infatti, si trova senza cavallo per infortunio dello stesso. “Ci penso io”, così, si vuole impegnare in un’opera di sensibilizzazione per poterla aiutare, e proseguirà nel suo intento in occasione dello “Sganassau in tour”, il 27 luglio al Parco Battonelli a Marzabotto, gran varietà condotto da Barbara Chiappini e Natalie Caldonazzo, in una kermesse che vede tra gli altri artisti Duilio Pizzocchi, Giuseppe Giacobazzi, Paolo Cevoli, i Turbolenti e tanti altri.Questo evento, come gli altri che “Ci penso io” realizzerà, permetterà di perseguire gli obiettivi prefissati a favore dei disabili, nell’ottica di valorizzare le risorse, le potenzialità e la voglia di vivere una vita che si possa percepire il più possibile autentica e ricca di effettive opportunità.

 

da www.socialnews.it

Katia Ricciarelli e Aida Yespica, madrine alla nascita dell’associazione “Ci penso io”, Valentina Tommaso e Davide Donadi di “Ci penso io”

 
 
 
 
 

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