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CARDINI / UN MAESTRO INSOLITO

Post n°75 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da Pallavicini74
 
Foto di Pallavicini74

Miscellanea di saggi d'argomento storico e di diversa estrazione dedicati da alcuni allievi all' "insolito " maestro Franco Cardini. Vi troverete lavori su Bernardo di Chiaravalle e la Terrasanta, piuttosto che la vita del cronachista Villani o la storia della stamperia vaticana, e così via proseguendo, lavori quasi sempre assai godibili da leggere anche per quelli non proprio addentro alle cose storiche ( se ce l'ho fatta io...). Troverete anche una lunga intervista al maestro, una confessione che attraversa, dal suo punto di vista, tutti gli aspetti e le metodologie del mestiere di storico, riletti e rivisti dalla particolare specola di un'esistenza dedita alla ricerca sulle crociate, la cavalleria, l'Islam. La si pensi come si vuole sull' "insolito " maestro Cardini, trattasi di un bel documento adatto davvero a tutti, aperto a ogni tipo di esperienza, nonché emozione. Col passo riportato successivamente reco un esempio - con cui concordo e cui plaudo, da cultore dell'ermeneutica esistenziale - della scrittura cardiniana.

 

Oggi va di moda andare contro il relativismo: invece io sono molto relativista, perché penso che il contrario del relativismo non sia l'assolutezza ma il soggettivismo. Chiamiamo relativismo ciò che consideriamo lontano dalle nostre idee e che non coincide con la realtà obiettiva ma piuttosto con il nostro modo di vedere. Essere relativista vuol dire tenere sempre aperta la porta alle possibilità e doversi continuamente rimettere in discussione pur mantenendo fermi alcuni valori di fondo. [...] Ma per l'altro confesso che l'utopia scientista di una storia obiettiva, puramente scientifica, che riproduca il passato come voleva Von Ranke, << proprio così com'esso è stato >>, non m'interessa molto e in fondo la trovo inutile. La storia non è magistra vitae, anche se noi la interroghiamo cercando in essa insegnamenti. In fondo la modernità è stata proprio questo: avendo negato un senso al cosmo e alla vita, i moderni si sono abbandonati alla ricerca di un "senso" e di una "ragione" nella storia. Poiché sono convinto che essa non ne abbia, sono senza dubbio antimoderno ma, in quanto storico, non posso considerare una vittoria l'accettazione che essa non ce l'abbia.

 

 

da Cardiniana, in Un maestro insolito. Scritti per Franco Cardini, Firenze, Vallecchi, 2010, i saggi, pp. 316 - 317.

 
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SALVATORE / CORNACCHIA

Foto di Pallavicini74

Gradita sorpresa per il mio blog quella ricevuta da un giovane ma assai valente umanista - petrarchista, a dirla tutta - con la passione inveterata degli studi filologici. Tommaso Salvatore dipinge in poche righe una gustosa riflessione che prende in mezzo il concetto d'autore e di proprietà letteraria, i grandi mostri sacri della critica e questioni metodologiche affini. Buonissima lettura!

 

 

Di penne di paone e d'altre assai

vistita, la corniglia a corte andau;

ma no lasciava già per ciò lo crai

e a riguardo sempre cornigliau.

Gli aucelli, che la sguardar, molto splai

de le lor penne, ch'essa li furau:

lo furto le ritorn'a scherne e guai,

ché ciascun di sua penna la spogliau.

Per te lo dico, novo canzonero

che ti vesti le penne del Notaro

e vai furando lo detto stranero:

sì co' gli agei la corniglia spogliaro,

spoglieriati per falso menzonero,

se fosse vivo, Iacopo notaro.

 

Vat. lat. 3793, c. 146v

Vat. lat. 3214, c. 143v

 

Un po' di tempo fa, quando fu indetto il consiglio generale dei volatili, la cornacchia ci andò con addosso le belle penne del pavone e di altri uccelli variopinti. Ma non per questo pensò di camuffare il suo consueto verso, e, a differenza degli altri, continuava a gracchiare.

Gli uccelli la sentirono e la riconobbero, e non furono entusiasti che quella gli avesse rubato le penne. Il furto finì male, perché gli alati la spogliarono e si ripresero le loro piume...

Afferrata l'antifona, poetastro? Tu che usi le penne del Notaro e saccheggi le poesie degli altri:

come gli uccelli spogliarono la cornacchia, Giacomo da Lentini - magari fosse vivo! -, ladro imbroglione, ti spennerebbe!

 

Oddio, quante cose!

L'attribuzione: chi lo ha scritto? In alto dice "chiaro dauanţati": ma lo ha aggiunto qualcun altro dopo, e magari avrà scritto un nome a caso di uno che gli stava simpatico. E a chi è diretto? Chi è che ruba le parole a Iacopo notaro, Giacomo da Lentini? Fervido lentiniano è Bonagiunta, e infatti il Vat. lat. 3214 rubrica proprio «Questo mandò maestro Francesco a ser Bonagiunta da Lucca».

Le fonti: l'antico apologo della cornacchia (già in Esopo e Fedro). Menichetti sciorina un nutrito regesto di medievaloidi a me ignoti di cui mi piace riportare quidam Walter l'Inglese, perché sembra il nome di un vichingo di Asterix e Obelix.

Una questione "antropologica". Qui si accusa uno di essere un plagiario: di rubare i versi agli altri e scrivere poesie con parole altrui. Ma... esisteva il plagio nel Medioevo?! Ma nel Medioevo fanno poesie tutte tali e quali, Madonna vi dico qua, lo fino amore di là! E poi hanno il coraggio di venirsi a dire non mi copiare? Pensare che fino alla settimana scorsa dicevamo che la poesia dei trovatori è una poesia di forma, di cui il pubblico auscultava e riconosceva le modulazioni minime, le variazioni impercettibili rispetto a un contenuto che è pre-confezionato, sempre uguale e replicabile ad libitum.

 

Ma parliamo d'altro. In certi canzonieroni di lirica trecentesca (Redi 184 e BNC II IV 114, per gli appassionati) circola sotto il nome di Dante un sonetto rinterzato analogo, dallo stesso tema. Dice «Quando il consiglio tra gli uccei si tenne [...] la cornacchia maliziosa e fella [...] da molti altri uccei accattò penne [...] tutti gli altri uccei le fur dintorno [...] la pelar sì ch'ella rimase ignuda», etc. Ma ci vedete voi il Sommo Poeta, col suo faccione incollerito livido, che ce l'aveva a morte col papa e tutto l'ambaradan, che si mette a scrivere le poesie sulle cornacchie? E infatti nell'edizione Contini delle rime di Dante Quando il consiglio tra gli uccei si tenne figurava ultima fra le dubbie, laddove il criterio di ordinamento delle dubbie era dalla più plausibile alla più impensabile: dunque la più impensabile fra le impensabili. La cornacchia, con buona pace del travestimento dantesco, veniva ridimensionata nei suoi sogni di gloria, e più realisticamente attribuita sive sbolognata al sorridente canterino Antonio Pucci, che dal canto suo ringraziava cordialmente.

E invece ecco che sessant'anni dopo, con la nuova edizione critica delle rime di Dante in preparazione, De Robertis tirava fuori riscontri e riscontri a favore dell'autenticità del sonetto in un contributo significativamente intitolato «Riabilitazione di una cornacchia». Il sonetto appartiene a Dante. Uccelli che l'avete spogliata: prendete e portate a casa.

Io, che modestamente oramai un po' di esperienza in campo filologico ce l'ho, mi sento di poter avanzare una personale soluzione al problema, ed è questa. Fosse stata furba, la cornacchia anziché fra gli uccelli si sarebbe imbucata fra le rane. Hai voglia a dire CRA CRA CRA, l'avrebbe fatta franca.

 

 

 

 
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BATISTI / BENN

Post n°73 pubblicato il 05 Dicembre 2014 da Pallavicini74
 
Foto di Pallavicini74

Secondo impareggiabile contributo dalla sontuosa penna di Roberto Batisti che, questa volta, si cimenta con uno dei suoi poeti cardine, il teutonico Gottfried Benn, dandone una interpretazione non avulsa dagli stravolgimenti storico - letterari del periodo. Prendiamone e gustiamone tutti!

 

Torino

 

"Cammino con le scarpe rotte"

scrisse questo genio universale

nella sua ultima lettera – poi

lo portarono a Jena – psichiatria.

 

Non posso comprarmi i libri,

li leggo nelle librerie:

appunti – poi a prender l'affettato: –

questi sono i giorni di Torino.

 

Mentre la nobile muffa d'Europa

di Pau, Bayreuth, Epsom si nutriva,

lui abbracciava due ronzini,

finché il padrone non lo trasse a casa.

 

Turin

 

Ich laufe auf zerrissenen Sohlen,

schrieb dieses große Weltgenie

in seinem letzten Brief –, dann holen

sie ihn nach Jena –; Psychiatrie.

 

Ich kann mir keine Büchen kaufen,

ich sitze in den Librairien:

Notizen –, dann nach Aufschnitt laufen: –

das sind die Tage von Turin.

 

Indes Europas Edelfäule

an Pau, Bayreuth und Epsom sog,

umarmte er zwei Droschkengäule,

bis ihn sein Wirt nach Hause zog.

 

Gottfried Benn, da Statische Gedichte, Arche, Zürich 1948 (trad it. Poesie statiche, a c. di G. Baioni, Einaudi, Torino 1972).

 

Il Benn che scrive questi versi nel 1938 non è più il truculento espressionista che dette scandalo con Morgue (1912); è un lirico che affida le sue sconsolate riflessioni al nitore di strofette dalle rime impeccabili, dove il pathos più cupo si fa cantabile. In questa rigorosa cura formale, questo "smalto sul nulla" sta, anzi, l'unica speranza di riscatto: lo stile ("lo stile è superiore alla verità, porta in sé la prova dell'esistenza").

 

Benn era anche fautore (si pensi al suo "Chopin", incluso nella stessa raccolta) d'una poesia ritrattistica (Porträtgedicht) o 'statistica', cioè quella composizione che attraverso un montaggio d'elementi biografici in istile spoglio, quasi cronachistico, lascia emergere i contorni d'una figura esemplare (solitamente, una grande personalità artistica o intellettuale) e della sua parabola esistenziale, meglio di tante insistite disamine psicologiche. Detta tecnica è impiegata qui dal poeta tedesco per darci un ritratto dell'ultimo Nietzsche, quello di Torino, quello al limite del crollo e della catastrofe nervosa.

 

È ormai noto che il Nietzsche – checché si pensi delle sue idee, le quali sono ormai precedute dai loro clamorosi e storici fraintendimenti – era, nella vita, tutt'altro che il superuomo da lui invocato; somigliava piuttosto a un prototipico inetto sveviano, un nerd occhialuto e sempre malaticcio, imbranato e immaturo, spesso comicamente ignaro degli usi di mondo e fallimentare nei suoi rapporti con uomini e donne. Eppure proprio questa disarmante goffaggine nella vita di tutti i giorni non è senza rapporti con la profetica e penetrante acutezza della sua riflessione filosofica (istruttiva in tal senso l'avvincente biografia di Massimo Fini, Nietzsche. L'apolide dell'esistenza).

 

Ben diverso era il Nietzsche idolatrato (e non capito; di solito, neanche letto) dai nazisti, presunto eroico araldo della razza ariana. Benn, ormai disilluso nei confronti del regime – che l'ha, peraltro, messo ai margini – alla vigilia del secondo conflitto mondiale ci dà non a caso un Nietzsche tanto derelitto ed emarginato (lui pure) nella vita quanto genio universale, grande e inascoltato. Grande perché inascoltato.

 

Schiaffo all'ideologia di cartapesta del Reich che aveva proibito la pubblicazione delle sue opere (Benn, com'è noto, si 'salvò' arruolandosi come ufficiale medico nella Wehrmacht) e rivendicazione del vero valore d'un pensatore per lui fondamentale, certo; e c'è qui anche il topos romantico del genio incompreso condannato dall'insensibilità dei contemporanei a una vita da bohémien fuori tempo massimo.

 

Ma certe risonanze sociologiche di questo testo, se tentiamo una lettura un po' diversa, lo fanno attualissimo anche per chi non fosse particolarmente interessato alla fin de siècle e alla filosofia della crisi.

 

Infatti, quanti giovani di buona istruzione umanistica, senza esser genii di livello mondiale (e neanche provinciale), possono oggi riconoscersi in questa miseria? Chi di noi non ha esperito esattamente questo, sfogliare nelle librerie volumi desiderati ma d'acquisto proibitivo? Chi di noi non teme segretamente di vedersi, un giorno, ridotto a quella follia che spingerà ad abbracciare, se non un cavallo (oggi più difficile a reperirsi) quantomeno, che so, un lampione?

 

Non serve, per questo, covare dentro di sé conflitti titanici, pensieri prometeici; il nichilismo è diventato, compiutamente, un fatto di massa. Democratizzato.

 

Benn, parlando dell'epocale crisi europea che le vibrisse sensibilissime d'un Nietzsche seppero anticipare già a fine '800, riesce – naturalmente al di là delle sue intenzioni – a parlarci della crisi d'oggi, e si ritrova – lui, lo sdegnoso reazionario – poeta del precariato (intellettuale, materiale, psico-affettivo, etc.).

 
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BATISTI / BOCCHIOLA

Post n°72 pubblicato il 02 Dicembre 2014 da Pallavicini74
 
Foto di Pallavicini74

Tra i pochi giovani studiosi capaci di condurmi al sollucchero, Roberto Batisti è di certo il più duttile e multanime: poeta, deejay radiofonico, tombeur de femmes, provetto grecista...nulla è precluso al suo sconfinato talento. Ve ne accorgerete in questa gustosa - un poco lunga per un blog, giammai prolissa - recensione dedicata alla pagina poetica di Massimo Bocchiola. Che dire? Applausi!

 

Nel Tardo Impero – I

 

Annunciata da presagi funesti

-         fiaccole in cielo, pianeti a cavallo -

la caduta in battaglia del sovrano

immemore della corazza, al soccorso

ovunque mostri di slabbrarsi l'armata,

è circondata da un corteggio di morti

più o meno illustri, che la precedono

e l'accompagnano in punta di lancia

mentre agonizza nella tenda: il fratello

tribuno delle stalle cui sarebbe

forse toccato l'Oriente, i supremi

capi nemici,

 

il Merena e il Noodare,

leviatani di guerra fra le ondate

vive e nere – dorsi di alte colline

dalle falde – che scuotono l'impero

per tutti i suoi confini, e qui un bendaggio

rigido, là l'intervento invasivo,

la resezione di province lontane

e consegnare storiche piazzeforti.

 

Nel Tardo Impero – II

 

Balzando sui cadaveri, difeso

dagli ultimi mostri marini, l'Augusto

già addormentato, cade di una freccia

che fa scempio di tutta l'armatura

e lo annida in eterno tra i soldati

semplici. Qui è più agevole trovare

i punti cardinali, alle sue spalle

il manto delle Prealpi, a sinistra

la lama del mattino, e dirimpetto

il fiume con la luce, che precipita.

 

Qui, mentre immerge la gran coda, per

un istante ala nera di farfalla,

nelle acque viscide, in un mondo diverso

illuminato dagli ordigni (fosforo,

fuoco greco),

 

ricorda (nel padiglione abbrunato

dopo il tempo passato a far la spola

lungo i confini dell'est suturando

ferite e varchi, sperando di infliggere

ai barbari la punizione esemplare)

ricorda di non avere mai visto

la capitale, di essere stato acclamato

-         come noi – in seguito a un dubbio dispaccio.

 

Massimo Bocchiola, da Mortalissima parte, Guanda, Parma 2007.

 

 

 

 

Mi profitto di questo spazio gentilmente concessomi dal padrone di casa per pubblicare uno dei testi per me più significativi d'uno dei libri di poesia che più mi son piaciuti negli ultimi anni, e al contempo per cominciare a imbastire, tramite questo testo, una riflessione – quella sull'uso dell'erudizione (storico-letteraria, in ispecie) in poesia – che mi tocca da vicino.

 

Il pavese Massimo Bocchiola, benemerito traduttore di tanta importante letteratura anglofona (da Pynchon a Hornby), è anche un bravissimo poeta (nonché saggista e romanziere), di cui si parla apparentemente abbastanza poco, forse per un suo riserbo e una sua serietà nel tenersi ai margini del circo spesso assai poco edificante della nostra attuale poesia, anche se ha ricevuto i plausi, fra gli altri, di Giuseppe Genna (scrittore che invece, coi turgori apocalittici del suo stile, sembra polarizzare le opinioni, o lo si porta in palmo di mano o lo si detesta; ma non divaghiamo).

 

Tema di Mortalissima parte è il conflitto armato, spaziando per campi e trincee insanguinati di tutti i luoghi e le epoche, con particolare e partecipata attenzione al fronte italiano della Grande Guerra, dove la Storia s'intreccia coi ricordi familiari dell'autore. Davvero un libro “pieno di Ares”, come per Aristofane (Rane v. 1021) gli eschilei Sette a Tebe.

 

Nutritissima e propriamente sostanziata di letture, antiche e moderne, è la scrittura di Bocchiola: tra le fonti della raccolta in questione figurano (snocciolati dall'autore stesso in postfazione) classici italiani e stranieri, poeti moderni e contemporanei, ma anche storici (tardo-)antichi e bizantini come Giuseppe Flavio, Ammiano Marcellino e Niceta Coniata.

 

Proprio alla narrazione d'Ammiano attinge ispirazione la poesia (in due parti non consecutive) qui riportata; in particolare alla sciagurata fine della campagna persiana dell'imperatore Giuliano (tacciato d'Apostata dai cristiani e già ispiratore, con la sua vicenda, del notevole Giuliano (1964) di Gore Vidal), che dopo i brillanti successi iniziali, spintosi nel profondo del territorio nemico (in zona Desert Storm/Shock and Awe, antichissimi recessi già babilonesi, già sumeri), muore inopinatamente in battaglia per quello che oggi diremmo fuoco amico, lasciando il successore Gioviano a negoziare una pace umiliante. Storie da basso impero, quanto mai attuali.

 

In risvolto di copertina, Valerio Magrelli osserva come tecniche d'elezione di Bocchiola siano collage e cut up. Ed è vero: questi testi sono un virtuale montaggio di reminiscenze ammianee, a volte quasi citazioni puntuali, soprattutto dal libro XXV delle Storie (si divertano gli eruditi a rintracciarle; io l'ho fatto, con diletto), intarsiate con brevi flash di altri tempi e luoghi (le Prealpi…). Ma le linee di sutura non si sentono, la sintassi delle frasi e delle immagini non è frammentata, si evita la gratuità dello sfoggio o l'ostentazione avanguardistica del caos; di tessuto connettivo ce n'è esattamente quanto serve; e la sovrapposizione dei due piani storici non è pedante, serve bensì a far scattare illuminanti isomorfismi, in cui la pianura mesopotamica trasfigura sotto i nostri occhi in quella lombarda, il fuoco greco degli antichi nel fosforo bianco di Falluja.

 

Contenuta è anche la tecnica del name-dropping; ma si gustino quel Merena e quel Nohodares, rispettivamente generalissimo e magister equitum dei Sasanidi, squisiti nomi-glossa che si levano al di sopra del lessico 'medio' di questi testi come i loro portatori al di sopra della massa delle truppe. Ancora più preziosa dei nomi stessi è peraltro l'apposizione “leviatani di guerra”, che li fa svettare in una pittura fosca e icastica destinata a restar impressa; e d'altronde è curioso come in entrambe le sezioni della poesia serpeggi (è il caso di dirlo) il campo metaforico del capo d'armate come mostro marino, immane cetaceo, forse perché la guerra è un nero e procelloso oceano.

 

L'altro campo metaforico ricorrente è l'impresa bellica come intervento chirurgico, l'impero in preda alla decadenza come corpo malato. Ma si veda cosa accade qui: Bocchiola parte da quel che può essere una metafora banale e ne ricava un fraseggio che coniuga, spietatamente, la leggerezza con la tragica durezza; questa 'chirurgizzazione' dei gesti guerreschi, questi verbi soavi e micidiali nel disbrigare gli eventi (come la freccia fatale che “annida” l'imperatore trafitto nella mucchia ingloriosa dei caduti), danno l'idea di uno scontro osservato da lontano, un agitarsi di furibonde e sanguinarie marionette, tanto più tragico quanto più futile. Un modo di parlare del dramma che è la Storia, senza retorica.

 

E come l'erudizione è stata masticata e rifusa senza sforzo nei versi, così anche la metrica: endecasillabi franti e ricomposti, avari di figure di suono come si addice alla scabra materia, ma comunque un dosaggio d'asprezza e scorrevolezza che è funzionale, come nella migliore poesia, alla resa espressiva e non all'esibizione d'una preconcetta poetica.

 

Sarà ormai chiaro che il Bocchiola è, per me, esempio sommamente positivo. E su altre guerre, e altri fosfori, conto di tornare presto.

 
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BENIGNI, BASTA!

Post n°71 pubblicato il 30 Novembre 2014 da Pallavicini74
 
Foto di Pallavicini74

E ancora, Benigni, perché? Andrò controcorrente, eppure mi prende un mal di pancia continuo quando sento il prepararsi dell'ennesimo evento mediatico-televisivo propinatoci dal Roberto nazionale. Dico, non ti bastava essere un ben strano e particolare attore, uno splendido animale da palcoscenico, destinato a recitare divini camei in piccoli e grandi capolavori? Non ti basta, Roberto, vivere a fianco di una donna bellissima? Il successo, i soldi e tutte le varie amenità di ben poco momento? No, non ti basta! Ti sarà andata la Loren e il suo "Roberto!!!" emozionato, sventolato a mo' di mossa, alla testa. Resta il fatto che da quella sera sei partito per una tangente sfrantumante: tutto Dante ovunque, tv, serate in giro per l'Italia ( e sempre ressa ovunque, posso testimoniarlo, essendo incappato nei pressi di una tua lettura in piazza Maggiore, a Bologna), caroselli di critiche e peana sui giornali, pennivendoli pronti a incensarti come neanche il peggiore dei tirapiedi ad uso e consumo dell'imperatore di turno, il massimo dell'inattaccabile da ogni punto di vista: un uomo divenuto, fattosi icona, di più - e ben peggio - : un uomo in guisa di simulacro. Morto ormai, nel tuo essere prevedibilmente politically correct. Ora tocca ai Dieci comandamenti. E sommergerai l'etere con un profluvio di dolcezze (a volte encomiabili, più spesso banali e prevedibili), decreterai l'ennesimo trionfo, scatenerai il solito pandemonio d'acclamazioni. Eppure, viene da chiedersi - non te lo chiedi mai? - l'arte può essere così prevedibilmente pulita e buona? Gli eventi mediatici non sono un danno, un male non minore, per chi ama e propugna - come fai tu - la bellezza? Non è una diminutio, una semplificazione, un porre l'attenzione sull'evento più che sull'opera? Confesso che sto facendo una cosa che non si fa: rifletto a voce alta su qualcosa che da tempo ho cessato di seguire e che non seguirò. Esiste in me un sesto senso di protezione da alcuni vizi e difetti perniciosi, addirittura esiziali, quali l'ipocrisia, la banalità, il mellifluo e il prevedibile. Non credo tu lo faccia per quattrini, suppongo tu non abbisogni di elemosine, ormai; allora, Roberto, esci da quel corpo, esci da Sofia Loren...torna in te!

 
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