Creato da fiore.catherine il 07/02/2012

Riflessi e psiche

Riflessioni di una Psicoterapeuta - Dott.ssa Catherine Fiore - Via Giosuè Carducci,15 - San Giorgio Ionico (TA) - fiore.catherine@libero.it - 340 3994553

 

 

Tu chamale se vuoi...emozioni..!!!

Post n°11 pubblicato il 16 Marzo 2012 da fiore.catherine
 
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Solo le persone superficiali impiegano anni per liberarsi da un'emozione.

Chi è padrone di sè può porre termine a una sofferenza

con la stessa facilità con cui inventa un piacere.

Non voglio essere in balia delle mi e emozioni.

Voglio servirmene, goderle e dominarle

 

Oscar Wilde



 

Il termine “emozione” ha origine da “emotus”, participio passato di “emovere” che, letteralmente, significa “muovere da, allontanare”. In senso traslato, il verbo significa anche “scuotere, sconvolgere”. La sensazione di essere mossi da ciò che si prova, e che sembra provenire dal nostro interno, è una caratteristica fondamentale dell’esperienza emotiva.

Le reazioni e le esperienze emotive sono parte integrante della nostra vita. I piccoli piaceri o dispiaceri danno una coloritura emotiva alle nostre giornate.

Alcune emozioni sono piacevoli, come l’euforia che si prova dopo che la vostra squadra del cuore ha vinto una partita, mentre altre sono spiacevoli, come la paura che coglie chi sbanda con la macchina sua una strada sterrata d campagna priva di guard-rail.

Un’emozione può essere debole o forte: è possibile essere appena irritati per un’offesa di poco conto, o infuriati per un insulto personale che vi è stato rivolto in presenza di altre persone.

Le risposte emotive producono anche un’attivazione fisiologica, e la quantità di attivazione varia al variare della forza con cui si esprime l’emozione. Infine le emozioni possono essere piuttosto differenti per qualità: ad esempio la depressione è molto differente dalla sorpresa.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              

Tre sono i diversi livelli o sistemi di risposta attraverso i quali si manifesta l’emozione:

·    Il primo sistema, detto psicologico, comprende i resoconti verbali relativi all’esperienza soggettiva, come ad esempio: “ho provato una intensa sensazione di rabbia quando ......”.

·    Il secondo sistema, denominato comportamentale, riguarda invece le manifestazioni motorie dell’emozione, come ad esempio il comportamento di evitamento, di avvicinamento, di attacco e la fuga ecc., e le modificazioni dell’atteggiamento posturale e dell’espressione facciale.

·    Infine, vi è il livello fisiologico, prevalentemente rappresentato delle modificazioni fisiche: ad esempio negli effettori innervati dal sistema nervoso autonomo, quindi alterazioni della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, dell'irrorazione vascolare facciale (l’arrossire), l’aumento della sudorazione delle mani, o le modificazione del ritmo respiratorio. Tutte queste variazioni sono connesse con, e anche indotte da, modificazioni di tipo endocrino, per esempio del sistema ipofisi-corticosurrenale (ACTH e cortisolo) o della midollare del surrene (adrenalina e noradrenalina).


Nessuno di questi tre sistemi (psicologico, comportamentale e fisiologico) è prioritario rispetto agli altri, ma piuttosto ognuno risulta strettamente connesso agli altri in una globale risposta emozionale. I tre sistemi cioè interagiscono tra loro pur essendo parzialmente indipendenti.
Concludendo, l’emozione risulta essere un “insieme di risposte”.

  

L’effetto complessivo di questi cambiamenti fisiologici che si hanno in situazioni di paura, sono il risultato della predisposizione alla lotta o alla fuga.

A differenti emozioni corrispondono differenti risposte fisiologiche? Probabilmente si. Infatti, anche se la paura e la rabbia sembrano attivare le stesse risposte fisiologiche, la rabbia differisce dalla paura in quanto fa aumentare le temperatura della pelle.

E’ stato anche dimostrato che le reazioni di soggetti differenti allo stesso stimolo sono piuttosto differenti.  

 

L’emozione è accompagnata dall’espressione facciale. È ormai certo che alcune espressioni facciali delle emozioni NON siano apprese. I bambini ciechi dalla nascita, che ovviamente non hanno mai visto un sorriso o un espressione di disgusto, sorridono o si accigliano allo stesso modo degli altri bambini che vedono.

 

Vi sono tre tipi di comportamento espressivo che possono farci capire le emozioni espresse.

1-     Il primo è relativo alla postura: una persona felice e serena di solito sta e cammina dritta, una triste è fiacca, e una arrabbiata o impaurita assume una posizione contratta.

2-     Il secondo consiste nel trasalimento una risposta motoria rapida e automatica associata ad emozioni quali la paura e la sorpresa. (es. lo scoppio di un petardo dietro di voi a vostra insaputa).

3-     Il terzo comportamento espressivo che può manifestare un’emozione è dato dai comportamenti volontari. Ad esempio applaudendo, saltando di gioia oppure strizzando l’occhio.

 

Le emozioni trovano una rappresentazione anche nella consapevolezza o coscienza soggettiva. Noi sappiamo quali emozioni proviamo e possiamo farne oggetto di pensiero o discussione.

Quando qualcuno dice “Sono deliziato” oppure “Che schifo!” ci sta dando la descrizione di un qualcosa che soltanto lui sente.

Spesso pensiamo di poter capire i sentimenti di un’altra persona per empatia, o immaginando noi stessi nei suoi panni.

Un altro modo per comprendere le emozioni  e impariamo a parlarne è per mezzo delle metafore. Spesso sentiamo dire: “Venne schiacciato dal dolere”. “Hai ferito i miei sentimenti”, “Tocco il cielo con un dito”. Queste metafore vengono create per descrivere sentimenti per i quali non abbiamo parole precise per definirle.

 

Le emozioni sono il nostro strumento più importante per muoverci nel mondo. Riconoscere ciò che proviamo e dare un nome ci permette di dare un senso alle nostre scelte, alle nostre azioni. Troppo spesso ci capita di mettere da parte ciò che proviamo in qualsiasi contesto della vita, razionalizzando ciò che sentiamo.

Emozionarsi non è pensare l'emozione, ma sentire l'emozione che nasce nel nostro corpo e dargli un nome. Sentire le nostre emozioni signifca conoscere i segnali che arrivano dal nostro corpo, dare spazio a queste sensazioni anche se sono dolorose, e darci la possibilità di esprimerle. Molti dei disturbi psicologici nascono da emozioni represse, emozioni che non hanno trovato spazio per esprimersi, che sia la rabbia, il dolore, la gioia...


Impariamo ad ascoltarci, le risposte più importanti per noi sono nascoste nelle emozioni che non esprimiamo....Ogni emozione è un messaggio, il nostro compito è ascoltarle…

 



 

 

 

 
 
 

Un'emozione primitiva: la rabbia

Post n°10 pubblicato il 13 Febbraio 2012 da fiore.catherine
 
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Chiunque può arrabbiarsi: questo è facile.

Ma arrabbiarsi con la persona giusta, e nel grado giusto,

e al momento giusto, e per lo scopo giusto,

 e nel modo giusto:

questo non è nelle possibilità di chiunque e non è facile.

Aristotele

È una forza potente e travolgente che, all'improvviso, s’impadronisce di noi e ci spinge a dire o a fare cose che non avremmo mai pensato di poter dire o fare. Può travolgerci mentre siamo in coda alla posta, sul luogo di lavoro, durante una discussione con il partner o con i nostri genitori. E poi, quando si esaurisce e se ne va, è spesso troppo tardi per rimediare ai danni che ha provocato: è la rabbia.

Che cos'è la rabbia? La rabbia è un’emozione considerata fondamentale da tutte le teorie psicologiche. Essendo un'emozione primitiva, essa può essere osservata sia in bambini molto piccoli che in specie animali diverse dell'uomo.

Quando siamo arrabbiati avvertiamo un disagio e una tensione crescente che sentiamo di dover “scaricare” al più presto per ritrovare uno stato di benessere, una sorta di acme raggiunto che deve necessariamente regredire al fine di poter trovare equilibrio. Essa turba il nostro stato di equilibrio per avvisarci di qualche minaccia e per permetterci di attaccare la fonte di tale minaccia. Quando siamo arrabbiati “ci si annebbia la vista, non capiamo più niente, perdiamo il controllo” e questo è il motivo per cui la rabbia è un’emozione essenzialmente distruttiva se non viene gestita nel modo giusto e funzionale. La rabbia è un’emozione che può essere gestita e diventare, quindi costruttiva.

Le emozioni di base, fra cui la rabbia, sono filogeneticamente determinate, hanno una base innata e una funzione adattiva, tuttavia possono diventare causa di sofferenza per la persona quando la loro intensità è molto elevata e si protrae a lungo. Nel caso della rabbia, essa diventa disfunzionale, per la persona, quando la sua manifestazione ne compromette le relazioni sociali o la spinge a compiere azioni dannose verso persone oppure cose. 

La rabbia è un’emozione specifica che nasce da un senso di frustrazione, impotenza e oppressione che si manifesta attraverso aggressività rivolta verso gli altri, se stessi o verso oggetti. In quanto insita nella reazione primordiale di lotta e di fuga, la rabbia è radicata nei fondamentali meccanismi della sopravvivenza; essa, come il dolore, turba il nostro stato di equilibrio per avvisarci di qualche minaccia e per permetterci di attaccare la fonte di tale minaccia. Essa si manifesta solitamente quando si ritiene siano stati calpestati i propri diritti o violati i propri valori. La rabbia quindi è una reazione che consegue ad un determinato stimolo e si manifesta attraverso l’impellente necessità di attaccare l‘oggetto frustrante. Insomma ci si arrabbia quando qualcosa o qualcuno si oppone alla realizzazione di un nostro bisogno, soprattutto quando viene percepita l'intenzionalità di ostacolare l'appagamento.

Per quanto siano molto forti le pressioni contro la manifestazione della rabbia, essa possiede una tipica espressione facciale, ben riconoscibile in tutte le culture studiate. L'aggrottare violento della fronte e delle sopracciglia e lo scoprire e digrignare i denti, rappresentano le modificazioni sintomatiche del viso che meglio esprimono l'emozione della rabbia. Tutta la muscolatura del corpo può estendersi fino all'immobilità. Le sensazioni soggettive più frequenti possono essere: la paura di perdere il controllo, l'irrigidimento della muscolatura, l'irrequietezza e il calore. La voce si fa più intensa, il tono sibilante, stridulo e minaccioso. L'organismo si prepara all'azione, all'attacco e all'aggressione. Le variazioni psicofisiologiche sono quelle tipiche di una forte attivazione del sistema nervoso autonomo simpatico, ossia: accelerazione del battito cardiaco, aumento della pressione arteriosa e dell'irrorazione dei vasi sanguigni periferici, aumento della tensione muscolare e della sudorazione. Gli studi sugli effetti dell'inibizione delle manifestazioni aggressive sembrano indicare che chi non esprime in alcun modo i propri sentimenti di rabbia tende a viverli per un tempo più lungo.

La rabbia è sicuramente uno stato emotivo che aumenta nell'organismo il propellente energetico utilizzabile per passare alle vie di fatto, siano queste azioni oppure solo espressioni verbali. La rimozione dell'ostacolo che si oppone alla realizzazione del bisogno può avvenire sia attraverso l'induzione della paura e la conseguente fuga sia mediante un violento attacco.

Il punto importante da comprendere a proposito della rabbia, è che, nonostante sia spesso etichettata come emozione negativa, da evitare in noi come negli altri, di fatto, diventa negativa e distruttiva quando non è riconosciuta e usata al momento in cui emerge. Una rabbia repressa nel tempo produce conseguenze dannose non solo per se stessi, ma anche per gli altri.

Il problema è che fin dalla tenera età ci viene insegnato che è cattivo e sbagliato esprimere la collera; ancora oggi questa emozione viene considerata inopportuna, irragionevole, associata all’aggressività e al capriccio. La gente è spesso spaventata dalla propria rabbia: teme che la spinga a compiere qualche azione dannosa e, di conseguenza, ci si rifiuta di prestare attenzione alla collera degli altri e si esita a esprimere la propria. E’ importante quindi considerare che, se non ci siamo mai concessi di esprimere la rabbia, probabilmente ne abbiamo accumulata una montagna dentro di noi. Reprimendola, è più probabile che esploda in momenti inopportuni e soprattutto verso persone e situazioni che hanno poco a che fare con la causa originale della rabbia che ci ribolle dentro, ed è anche più probabile che ce la prendiamo con chi crediamo sia più debole di noi, non fosse altro che per avere un minimo di senso di potere. La rabbia repressa si ritorce contro noi stessi con attacchi depressivi e alimenta un sentimento d’inferiorità; inoltre, quando la mente non riesce più a gestire i conflitti, il corpo ne soffre. Numerose affezioni psicosomatiche come mal di schiena, ulcere, psoriasi possono essere legate al soffocamento della collera. E’ fondamentale dunque, per la nostra salute psico-fisica, imparare a esprimere la collera in maniera costruttiva e appropriata.

Senza rabbia si è privi di protezione, senza rabbia siamo alla merce' delle reazioni altrui e non possiamo prevenire tali reazioni dal riaccadere, per noi e per gli altri. La rabbia usata costruttivamente aiuta a sviluppare fiducia in se stessi poiché non è necessario che "monti" fino ad esplodere per esprimerla. E’ importante riconoscerla nel momento in cui emerge, per quello che è: un meccanismo di protezione che ci segnala che c’è qualcosa che non va, una reazione di insoddisfazione intensa, suscitata generalmente da una frustrazione che ci riguarda e che giudichiamo inaccettabile; dunque la rabbia, comunque venga espressa,  in modo esplosivo o in forma repressa, agisce come un segnale d’allarme. La nostra rabbia ci mette a conoscenza del fatto che ci fanno del male, che i nostri diritti vengono violati, che i nostri bisogni e i nostri desideri non sono soddisfatti.

Imparare a manifestare la propria collera significa conoscere i propri reali bisogni e intrattenere relazioni più autentiche con le persone che ci circondano.

Esprimere e riabilitare la rabbia non significa tuttavia lasciarsi andare a comportamenti irosi. Non c’è bisogno di urlare o di arrivare addirittura alle mani per esprimere la propria irritazione. L’arma migliore è la parola. E’ bene però utilizzarla consapevolmente per esprimere i veri motivi delle nostre insoddisfazioni. Dietro la collera si nasconde sempre una sofferenza. Adirarsi ad ogni costo e contro chiunque è un modo per sottrarre energia alla disperazione e non guardare in faccia il dolore. Perché il proprio malcontento sia preso seriamente in considerazione, è bene esprimerlo con la massima calma.

Chi reprime la propria aggressività, la propria rabbia, reprime al tempo stesso la propria energia e la propria attività. Molte persone preferiscono aggredire se stesse piuttosto che arrabbiarsi con gli altri, perdendosi in autorimproveri, autoaccuse di stima di sé che possono generare apatia, perdita del tono corporeo, stanchezza, mal di testa, inappetenza…

L’aggressività non rivolta all’esterno si tramuta in dolore fisico.

Dobbiamo porci nella condizione di ascolto del nostro corpo per capire cosa ci vuole comunicare, che cosa abbiamo tralasciato, trascurato…Quando siamo nervosi, arrabbiati, possiamo scaricare la tensione con attività fisiche: frequentare una palestra, praticare sport, urlare facendo il tifo per la propria squadra del cuore, lavorare manualmente, prendere a cuscinate una poltrona, ecc. Se ci sentiamo contratti, “legati”, può essere utile farsi massaggiare, qualunque sia la tecnica usata, con un buon rilassamento. Se il malessere tende alla cronicizzazione, significa che vi è un comportamento, uno stile di vita ormai consolidato su cui occorre lavorare più approfonditamente con una psicoterapia.

Ciò che si rende necessario, non solo nella gestione della rabbia, ma per tutte le sfumature emozionali è essere consapevoli il più possibile del nostro vissuto emotivo e nel costante dialogo sia all’interno sia all’esterno di noi. Quindi non dobbiamo reprimere la rabbia, ma parlare con essa....

 

 

 

 
 
 

Qual'č la differenza tra uno psicologo, uno psicoterapeuta e uno psichiatra?

Post n°9 pubblicato il 11 Febbraio 2012 da fiore.catherine
 
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Purtroppo, molto spesso non è chiara la distinzione tra queste tre figure.

Lo psicologo: è un professionista che ha conseguito la laurea in psicologia, ha superato l’esame di stato ed è iscritto all’Ordine degli Psicologi.

Le attività che può svolgere sono regolamentate dalla legge 18 febbraio 1989, n° 56 “Ordinamento della professione di Psicologo” Art. 1.

Definizione della professione di psicologo

La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alle persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.
Questo significa che l’esercizio della psicoterapia o di qualsiasi attività di tipo terapeutico o curativo non possono essere esercitate dallo psicologo. Lo psicologo dunque lavora in diversi contesti con diversi strumenti di intervento, valutazione, formazione e ricerca, può condurre colloqui clinici ma non terapeutici.

Lo psicoterapeuta: è un laureato in psicologia o in medicina, che ha superato l'esame di stato e  ha conseguito una specializzazione della durata di almeno quattro anni e in una scuola riconosciuta ufficialmente ed è regolamentato dalla legge 18 febbraio 1989, n 56 “Ordinamento della professione di Psicologo” Art. 3

Lo psichiatra: è un laureato in Medicina che, dopo la laurea, ha ottenuto la specializzazione in Psichiatria. Essendo un medico, ha competenza per prescrivere farmaci. Questo gli permette di intervenire sui disturbi mentali dal punto di vista farmacologico. Lo psichiatra può essere uno psicoterapeuta se ha frequentato una scuola di specializzazione quadriennale in psicoterapia.

Esercizio dell’attività psicoterapeutica

1. L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti con le procedure di cui all’art. 3 del citato decreto del Presidente della Repubblica.

2. Agli psicoterapeuti non medici è vietato ogni intervento di competenza esclusiva della professione medica.

3. Previo consenso del paziente, lo psicoterapeuta e il medico curante sono tenuti alla reciproca informazione.

In conclusione è importante sapere gli ambiti e le competenze dei professionisti a cui ci rivolgiamo per evitare confusioni e collusioni nocive al paziente/utente e al professionista in questione.

In ogni caso quando ci si rivolge ad uno psicologo o ad uno psicoterapeuta bisogna sempre controllare se è iscritto all'albo degli psicologi e se è autorizzato e abilitato all'esercizio della psicoterapia.

In che modo funziona la psicoterapia ?

Scopo della psicoterapia è di alleviare, attraverso l'uso del mezzo verbale, corporeo ed esperienziale, le difficoltà del paziente, aiutandolo in un processo auto-conoscitivo, che gli permetta di capire e integrare pensieri, fantasie, desideri che a mano a mano si attivano nella relazione terapeutica.

Il processo psicoterapeutico è costituito da una fase iniziale di colloqui, definiti diagnostici, che hanno lo scopo di inquadrare il disagio della persona. Essi sono già "terapeutici" nel senso che aiutano il paziente a dare un primo significato psicologico al suo disturbo e al suo disagio.

In questo breve lasso di tempo, solitamente costituito da quattro-cinque colloqui, il paziente ha l'opportunità di farsi un'idea della persona del terapeuta e "sentire" se egli corrisponde alle sue necessità in termini di agio, accoglienza, ascolto ecc. Contemporaneamente, lo psicoterapeuta ha potuto formarsi un quadro della personalità del paziente, della sua situazione attuale interna ed esterna e di conseguenza anche un'idea del fatto che il paziente abbia bisogno o no di una psicoterapia.
In alcuni casi, infatti, la fase diagnostica è sufficiente al paziente per fare fronte al disagio che attraversa. In altri casi, invece, essa è la naturale premessa per costruire un progetto terapeutico insieme al paziente stesso ed iniziare un percorso di consapevolezza che avrà una durata nel tempo variabile in base al quadro clinico del paziente.
La cadenza dei colloqui, insieme alla durata del trattamento, ai costi ecc. vengono concordati con il paziente attraverso un consenso informato.

Quando ci si può rivolgere ad uno psicoterapeuta?

Tutti possono rivolgersi allo psicoterapeuta, sia per problemi gravi e conclamati, sia per disturbi di lieve entità che potrebbero compromettere lo stato di benessere ed evolvere verso sofferenze rilevanti. Per esempio i disturbi d'ansia, i disturbi dell'umore, i disturbi di personalità e i problemi di coppia.

La relazione terapeutica riveste in genere grande importanza per le persone che intraprendono tale percorso e può consentire di migliorare l'approccio del soggetto con se stesso, con il proprio ambiente e con la realtà sociale nella quale vive.
Accade frequentemente che, a causa della disinformazione o dei pregiudizi purtroppo ancora diffusi sulla possibilità della “cura dei problemi psicologici”, le persone non chiedano aiuto al professionista. A volte si preferisce rivolgersi ad altre figure professionali (il medico di famiglia, il proprio parroco...), o ad altre persone di fiducia, sperando che “parlando un po’ con qualcuno, confidandosi...”, ci si senta meglio. Sicuramente “parlare e sfogarsi può far bene”, tuttavia è ben diverso dall’affidarsi alle “cure” del professionista che possiede, per formazione ed esperienza, strumenti adeguati.  La consapevolezza di “stare male” è una buona base di partenza per intraprendere un percorso di cura, ma non è sufficiente per determinare il cambiamento.

Nel momento in cui “ci si sente pronti” a chiedere aiuto, o perché si abbia raggiunta una buona consapevolezza del disagio vissuto e della necessità di affrontarlo, o perché “le persone intorno a noi ci indirizzano verso un percorso di cura”, sopraggiungono i dubbi: qual’è il percorso più adatto per me e per il mio problema?, a chi chiedere aiuto?

Intraprendere una psicoterapia richiede infatti impegno e costanza, se si vogliono ottenere risultati soddisfacenti.

 

 
 
 

Il potere delle fiabe

Post n°8 pubblicato il 10 Febbraio 2012 da fiore.catherine
 
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"Il mondo della fiaba abbandonando il terreno della realtà ...

abbraccia un campo molto più vasto del perturbante,

 comprende questo nella sua totalità e altre cose ancora,

che nella vita non capitano mai".

Sigmund Freud

 

 

 

Il “C’era una volta…” apre le porte a paesi lontani, ad un tempo che non ha tempo, a situazioni dove reale e fantastico permettono di osservare la realizzazione dei vari passaggi della dimensione più consona al genere umano: il crescere, inteso come superamento delle varie difficoltà nel processo evolutivo.

Le fiabe riproducono tappe fondamentali dello sviluppo individuale e divengono metafore della storia dell’umanità, tracciando mondi e scenari in cui è possibile proiettare e far interagire paure, ansie, personaggi, conquiste, dilemmi e gioie. Le fiabe diventano, quindi, uno strumento potentissimo per superare paure e disagi. La paura fa parte dell’esperienza umana da sempre e la fiaba diventa elemento per il superamento della stessa attraverso il lieto fine. Il disagio, invece, è rielaborato grazie alla figura dell’eroe che supera in tempi successivi, molte prove, connesse ad aspetti differenti della vita e pian piano arriva alla maturità. Il futuro non è un blocco compatto da possedere o da cui essere schiacciati: è una montagna che deve essere scalata superando prove diverse, dalla paura del vuoto al vincere la sete. Le fiabe, quindi, indicano la via del superamento degli ostacoli: come affrontare i vari passaggi, come non temere la nostra ombra che, oscura compagna, si accentua proprio quando siamo più vicini alla luce.

Il raccontare diventa, dunque, un atto preventivo, perché metaforizzando il disagio, fornisce indicazioni su come riconoscere ed evitare inutili rischi. Addentrarsi nel mondo delle fiabe è paragonabile alla scoperta dei misteri di una bottega d’antiquariato. Il pungente profumo della cera, accompagnato dall’indefinito aroma del tempo, la carezza degli antichi velluti, i delicati ricami delle radiche sfumate, il contrasto di fregi, maniglie d’oro lucente e l’opacità di legni che le esaltano… Tutto questo è immerso in una magica atmosfera!

Il termine fiaba deriva dal latino fabula, divenuto fiaba nel latino parlato e in seguito fiaba. La fiaba si distingue dagli altri generi letterari per alcune peculiari caratteristiche. La fiaba è, innanzitutto un racconto breve. La brevità è una caratteristica molto importante. Deriva dai tempi in cui queste storie meravigliose, d’origine popolare erano tramandate oralmente, e presuppone che la narrazione possa farsi in un unico intervallo senza spezzare il racconto. Questa caratteristica è necessaria ai fini della struttura della fiaba. La brevità costringe il narratore a disegnare i personaggi nella loro essenzialità, descrivendone solo le caratteristiche funzionali e necessarie per lo svolgersi dei fatti, senza nessun approfondimento psicologico (Lazzarato, 1997). Più che personaggi, essi rappresentano “funzioni”, come ha acutamente osservato Propp in “Morfologia della Fiaba” (1966). Inoltre questi personaggi incarnano un archetipo: quello del re che detiene il potere assoluto, quello della madre amorosa pronta al supremo sacrificio, quello della fanciulla ingenua che è iniziata alla vita da adulta.

 Il meraviglioso è un’altra caratteristica essenziale della fiaba.  Non è una fiaba il racconto breve che rappresenta la realtà così com’è, senza introdurvi elementi meravigliosi e poco verosimiglianti. La fiaba rappresenta la realtà attraverso il fantastico ed esseri magici ed irrazionali come fate, folletti, maghi, streghe, ecc…

Un’altra delle caratteristiche particolari della fiaba è che la sua vicenda non è situata geograficamente e cronologicamente in un tempo definito. Questo è intuibile sin dalle prime battute: “C’era una volta in un paese lontano…”Una volta” si riferisce ad un passato che può essere recente o lontanissimo, ma, non importa esattamente quando. L’unica cosa certa è che non è adesso. Altrettanto si può dire del “dove”. Un paese può essere ovunque. Ma non è qui.

Nella fiaba gli eventi si snodano in quattro fasi, similmente ai quattro tempi di una sinfonia, di un sogno o di un dramma. La prima parte della fiaba riporta il luogo, il tempo, i personaggi principali, l’inizio dell'azione: un secondo tempo è dedicato allo svolgimento dell'azione, con intrecci, avventure, episodi, fatti d’ogni genere. La terza parte è quella della crisi, momento culminante in cui il soggetto si trova di fronte ad eventi catastrofici ed apocalittici che possono distruggerlo, e l'ultima parte è la "lisi" durante la quale il protagonista viene fuori vincitore e risanato.  

Le fiabe hanno il potere di divertire e educare allo stesso tempo. Il loro spirito particolare è che lo fanno in termini che parla direttamente ai bambini. Nell’età in cui queste storie sono maggiormente significative per il bambino, il suo problema principale è quello di mettere un po’ d’ordine nel caos interiore della sua mente per meglio capirsi. Un preliminare necessario per il conseguimento di una certa congruenza fra le sue percezioni e il mondo esterno. Un bambino si fida di quanto è detto dalla fiaba, perché la visione del mondo della fiaba concorda con la sua. Il bambino che ha familiarità con le fiabe, comprende che esse gli parlano nel linguaggio dei simboli e non in quello della realtà di tutti i giorni.  La fiaba comunica sin dall’inizio, con tutto il suo svolgimento e con il suo finale, che le vicende narrate non sono fatti tangibili e non hanno a che fare con persone e luoghi reali. In quanto al bambino, fatti reali diventano importanti per lui in virtù del significato simbolico che egli ritrova.

Il bambino avverte quale fiaba tra le tante si adegui meglio alla sua situazione interiore del momento e avverte anche dov’è che la storia gli fornisce dei punti d’appoggio per venire alle prese con un difficile problema.

Il bambino, quindi, attraverso la fiaba, fa qualcosa di tutt'altro che spensierato e deresponsabilizzante. Compie, in realtà, un preciso allenamento verso la conoscenza di sé e del proprio rapporto con il mondo. Egli manipola gli oggetti interni ed esterni di quel vissuto fantastico, in un dialogo interno, non interrogandosi consapevolmente sulla distanza tra la realtà e la fantasia. Compie simulazioni che hanno il significato di esperimenti sulle prove d'autore della propria personalità, situazioni preparatorie nel costante processo di crescita psicofisica. Egli non cerca di capire la fiaba, ma ci entra dentro con tutta la forza della sua immaginazione. Così facendo il bambino si racconta favole meravigliose, a cui molto spesso noi non abbiamo l'accesso, e compie invisibili correzioni di quelle che gli narriamo. Noi lo osserviamo muovere le proprie mani e gli occhi, sussurrare parole e incitamenti, parlarsi ripetendo stralci di storie già ascoltate dall'adulto o dal fratello maggiore, sapientemente farcite di qualche differenza! Per questo, più tardi da adulto, gli sarà così facile immedesimarsi, sempre inconsapevolmente, con il ruolo eroico, vincitore o perdente, di un personaggio di un film, modalità più travestita di raccontarsi ancora una bella fiaba, di riconnettersi ad una modalità antica di pensiero, quando essa era primitivamente funzionale alla scoperta del mondo. Il bambino attraverso un processo d’identificazione con i personaggi della fiaba, riesce a vivere pienamente tutte le situazioni conflittuali, angoscianti, ansiose che inconsapevolmente porta dentro di sé, di cui alla fine si libera.

La storia raccontata in una fiaba è la storia della vita psichica che, attraverso una serie d’eventi rischiosi, raggiunge una meta, un traguardo, un obiettivo. La fiaba diventa la metafora della storia della vita psichica: narra le vicende, le peripezie, i tormenti, i dolori attraverso i quali la psiche giunge, infine, alla sua piena maturazione. Questo processo avviene attraverso la liberazione dai complessi che l'avvolgono e che la mettono a dura prova. La psiche si nutre della forza degli archetipi che, invece di distruggerla, finiscono con il fortificarla, riportandola a vita autentica.

 

“I racconti sono la rivelazione più profonda del pensare e del sentire dei popoli. Non c’è altro luogo nel quale s’incontri tanto direttamente l’anima del popolo nelle sue occulte sofferenze, nei suoi poteri vittoriosi e nei suoi più puri rimpianti, come quando se ne ascoltano le fiabe. E’ come se una memoria primordiale fosse la sorgente di un ruscello che porta i motivi di generazione in generazione.”

Rudolf Mayer

 

 
 
 

Il sogno

Post n°7 pubblicato il 09 Febbraio 2012 da fiore.catherine
 
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“…e come i semi che sognano sotto la neve, 

il vostro cuore sogna la primavera.

Fidatevi dei vostri sogni, perchè in essi è nascosto

 il passaggio verso l’eternità.”

Kahlil Gibran

Che cos'è il sogno?

Sono state fatte numerose affermazioni in merito: per alcuni ricercatori è il guardiano del sonno, poiché difenderebbe il sonno dagli stimoli sensoriali; per altri, invece, è una specie di esercizio cerebrale a vuoto, utile alla fisiologia neurale. Ma l'aspetto più sconcertante è nella sua significatività: il sogno non risulta indifferente al sognatore, ed emozioni e impressioni dense di significato si affollano frequentemente in esso. Il sogno è strettamente personale, è come un’opera d’arte il cui significato può essere svelato solo dal sognatore!

D'altra parte questa verità è stata da sempre riconosciuta dall'uomo che da millenni affida al sogno stesso varie funzioni e significati riguardanti il destino dell'uomo, la sua profonda ed insondabile costituzione psicofisica e la sua situazione esistenziale, il contatto con il trascendente e con il divino, con il tempo e con lo spazio, con gli antenati. Spesso considerati strani, misteriosi, amati e temuti, i sogni da sempre sono stati visti come prodotti umani, e talora con implicazioni divine, pieni di fascino e di mistero. Molteplici, inoltre, sono state le ipotesi riguardanti la loro genesi, la loro finalità, i loro significati palesi e soprattutto nascosti. è per lo più riconosciuto che il sogno rende consapevole e comunicabile la natura e la complessità del mondo interno del sognatore, specie in un contesto, quello psicoterapeutico, in cui il paziente-sognatore esprime anche attraverso il sogno il desiderio e l'angoscia di conoscersi, proprio per potersi riconoscere e viversi in una pienezza di espressioni non limitata dalla sua malattia.

Sicuramente il sogno è un accompagnatore immancabile del nostro sonno. Molti di noi ricordano i propri sogni ogni mattina, altri riescono a ricordare i propri sogni solo quando hanno un contenuto emotivo molto forte, altri ancora non ricordano mai i propri sogni al risveglio. Tuttavia, come dimostrano gli studi degli psicologi e dei neuropsichiatri non è possibile non sognare. La fase del sonno in cui sogniamo, la fase REM (Rapid Eye Mouvement, a causa del fenomeno dei movimenti oculari che si verificano concomitantemente) si ripete ogni notte, con un ciclo di circa quindici-venti minuti ogni novanta minuti.

Dobbiamo ammettere pertanto che il sogno ha un valore ed un significato psicologico, che si interseca e si correla con quello fisiologico.

Per C.G. Jung i sogni hanno una struttura drammatica, possono essere considerati dei veri «dràmes intèrieurs», drammi interni, e possono essere analizzati nello stesso modo in cui si può analizzare un lavoro teatrale per scoprire la sua struttura nascosta. Una volta Schopenhauer disse che l'Io è il regista segreto dei sogni di una persona o anche, come disse in un'altra occasione: «Nel sogno ognuno è il proprio Shakespeare». Per Jung, quindi, l'interpretazione del significato del sogno si basa anzitutto sull'analisi del contesto, che comporta l'esame della struttura drammatica del sogno, la "storia" che viene raccontata; e inoltre poiché nella ricerca del significato delle immagini e dei simboli alle libere associazioni viene affiancata l'amplificazione, che consiste nella individuazione di similitudini e analogie tratte dalla vita spirituale dell'umanità intera, ossia dai miti e dalle leggende dei vari popoli, dalle fiabe, dalla letteratura.

La ricerca del significato dei sogni, in questo modo, viene riportata alla dimensione globale dell'esistenza del sognatore, ai significati che egli vive interiormente e le esperienze che ha attraversato. La totalità della psiche viene così riconosciuta nell'articolazione dei valori e dei significati, e nella varietà dei sentimenti e delle emozioni attraversate.

Esistono sogni di diverso genere, riconoscibili nelle fasi dell'interpretazione. La grande parte di essi riguarda la vita quotidiana del sognatore, con le sue vicende relazionali e psicologiche. Rispetto a queste vicende il sogno può essere una rilettura attenta di un episodio o di un evento, assumendo così un valore radiografico, e la sua interpretazione consentendoci di precisare meglio la conoscenza della nostra vita interiore. Ma il sogno può avere anche una funzione di compensazione, ossia può costituire un punto di vista che il sognatore non aveva preso in considerazione nella sua vita cosciente, permettendoci di arricchire e integrare la nostra posizione cosciente, speso unilaterale, riguardo una persona o un fatto. Rarissimi sono i sogni premonitori, capaci di gettare una luce che arriva fino agli eventi futuri. Infine, ci sono i sogni archetipici, o grandi sogni, capaci di una rilettura complessiva del senso della nostra esistenza o di una sua parte importante, che ci permettono di aggiungere una bussola agli strumenti che utilizziamo per orientarci nel cammino della nostra vita, facilitandoci nel processo evolutivo che vi è intrinseco e che Jung chiama individuazione.

Dice Jung: "… la vera e propria interpretazione del sogno, è di regola un compito arduo. Essa presuppone penetrazione psicologica, capacità di combinare insieme cose diverse, intuizione, conoscenza del mondo e degli uomini e soprattutto conoscenze specifiche che implicano tanto nozioni assai estese quanto una certa intelligence du coeur. (…) Bisogna respingere l'interpretazione stereotipa di motivi onirici; gli unici giustificati sono significati specifici, deducibili attraverso accurati rilevamenti contestuali. Anche chi possiede una grande esperienza in questo settore è pur sempre costretto a riconoscere la propria ignoranza dinanzi ad ogni sogno e, rinunciando a tutte le opinioni preconcette, a predisporsi a un qualcosa di completamente inatteso.(...)

E ancora:

Non tutti i sogni hanno la stessa importanza. Già i primitivi distinguono tra piccoli e grandi sogni. Noi diremmo piuttosto sogni insignificanti e sogni significanti. (...) Ho analizzato molti sogni di questo tipo e vi ho rintracciato spesso una particolarità che li distingue da altri sogni. Infatti in questi sogni affiorano immagini simboliche che incontriamo anche nella storia dello spirito umano. E' degno di nota il fatto che colui che sogna può perfettamente ignorare l'esistenza di simili paralleli. (…) Essi contengono cosiddetti motivi mitologici o mitologemi, che io ho definito col termine di archetipi. Si intendono con tale termine forme specifiche e nessi figurativi rintracciabili in forma analoga non soltanto in tutti i tempi e in tutti i paesi, ma anche nelle fantasie, nelle visioni, nelle idee illusorie e nei sogni individuali. La loro frequente presenza in casi individuali, come la loro ubiquità etnica, dimostra che la psiche umana è soltanto in parte unica e soggettiva o personale: per l'altra parte invece è collettiva e oggettiva.

Noi parliamo quindi da un lato di un inconscio personale, dall'altro di un inconscio collettivo, il quale rappresenta in certo modo uno strato più profondo rispetto all'inconscio personale, più prossimo alla coscienza. I grandi sogni, ossia i sogni ricchi di significato, provengono da questo strato più profondo."

 
 
 

Ipocondria

Post n°6 pubblicato il 09 Febbraio 2012 da fiore.catherine
 
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La parola ipocondria deriva dall’antico termine medico hypochondrium, che significa al di sotto delle coste, e rispecchia il comune sintomo addominale riferito da molti pazienti con questo disturbo.

L’ipocondria è un disturbo che si manifesta con un’eccessiva preoccupazione o convinzione di avere una grave malattia. Per essere diagnosticata deve durare almeno sei mesi e deve essere stata esclusa, attraverso degli accertamenti medici la reale presenza di qualsiasi malattia organica.

L’ipocondria, o ansia connessa allo stato di salute, è un disturbo mentale, classificato tra i disturbi cosiddetti "somatoformi", in cui il paziente manifesta la convinzione - basata su una errata interpretazione di sintomi fisici - di avere una malattia grave in assenza di una valutazione medica che giustifichi tali timori.

Le preoccupazioni possono riguardare le funzioni corporee (per es. il battito cardiaco), modificazioni fisiche di lieve entità (per es. una macchia sulla pelle) oppure sensazioni fisiche non ben definite. La persona ipocondriaca interpreta questi sintomi come conferma della malattia temuta e attiva suo malgrado una serie di meccanismi che causano il persistere dell’ansia e delle preoccupazioni relative alla salute fisica (per es. monitoraggio del proprio corpo, ricerca di informazioni riguardo alle malattie, rimuginazioni sulle salute fisica, consulti medici ripetuti, richieste di rassicurazione ecc).

In genere, le paure di chi è vittima di ipocondria si "concentrano" su malattie socialmente diffuse, come tumori o virus dell'HIV o infarti.

Tali meccanismi rafforzano ed alimentano le false interpretazioni, dando origine e stablizzando un vero e proprio circolo vizioso.

Poiché l'ipocondriaco teme di soffrire di malattie organiche che non ha, esso viene comunemente identificato come un “malato immaginario”. In realtà, le preoccupazioni ipocondriache causano, ai soggetti che ne soffrono, un disagio fortemente invalidante che può condizionare il normale funzionamento sociale e lavorativo intaccando sostanzialmente la qualità della loro vita (attenzione continua a ogni segnale del corpo, ripetute richieste di rassicurazione a medici specialisti e familiari con conseguente esasperazione degli stessi e logoramento dei rapporti, ecc); inoltre questi timori diventano l’elemento principale dell’identità di questi soggetti che in genere si percepiscono come persone più vulnerabili, deboli e tendenti alle malattie.

La vita familiare viene focalizzata intorno al benessere fisico del soggetto.

Le relazioni sociali vengono sconvolte perché l’ipocondriaco è preoccupato della propria condizione, ne parla in continuazione, si aspetta dei trattamenti speciali e si sente incompreso.

Nell’attività lavorativa spesso la preoccupazione interferisce con la produttività e causa numerose assenze dal lavoro.

Nei casi più gravi, I’ ipocondriaco, spesso, fa suo uno stile di vita simile a quello di un malato cronico o di un invalido.

Tra le cause di questo disturbo sono annesse in particolare l’esperienza personale di una malattia grave, la morte di qualche persona vicina.

Dietro l’ipocondria c’è comunque sempre una qualche forma di ansia che inconsciamente “scarica” sull’attenzione al corpo preoccupazioni di altra natura.

L’ipocondria può esordire in qualunque momento, ma si ritiene che l’età più comune di esordio sia la prima età adulta.

Per usare una metafora, un ipocondriaco è come una marionetta rotta con gli occhi rivolti verso l’interno che cerca sempre dentro se stesso, dimenticandosi dell'ambiente esterno. E chi cerca trova!! Nel caso dell’ipocondriaco, cerca e trova tutti i mali possibili. A volte è più facile cercare il problema dentro di sè, piuttosto che guardare fuori di sè ed effettuare dei cambiamenti....

La psicoterapia è possibile quando la persona che si preoccupa incessantemente di avere delle malattie si rende conto, almeno in parte, che le sue preoccupazioni sono eccessive e infondate.

 
 
 

Depressione: il dolore dell'anima

Post n°5 pubblicato il 08 Febbraio 2012 da fiore.catherine
 
Foto di fiore.catherine

Ti criticheranno sempre, parleranno male di te
e sarà difficile che incontri qualcuno al quale tu possa piacere
così come sei! Quindi vivi, fai quello che ti dice il cuore,
la vita è come un opera di teatro, che non ha prove iniziali:
canta, balla, ridi e vivi intensamente ogni giorno della tua vita
prima che l’opera finisca senza applausi…

Charlie Chaplin  

 

Capita a tutti , prima o poi di dire “oggi sono depresso”; bisogna capire però quando la depressione da stato d’animo negativo diventa una malattia.Questo avviene quando la sensazione di malessere perdura nel tempo e incide profondamente sul “funzionamento sociale”. Non è più quindi un malessere passeggero, che si risolve nel giro di pochi giorni, ma diventa una sofferenza che peggiora sempre più, facendo percepire alla persona la sua assoluta incapacità di trovare quelle risorse e energie autonome per poter tornare alla vita normale. Nella depressione, gli interessi sono bloccati, la vita si ferma.

 

Sulla depressione si è detto molto, ma raramente ci si interroga sul significato che questo stato dell’anima ha per le nostre vite e sul messaggio che dà. Tradizionalmente è vista come una disfunzione dell’organismo di origine incerta, che stimola l’idea del “male oscuro” senza rimedio, una malattia da temere e sfuggire. Fra i disagi psicologici è certamente uno dei più diffusi e meno compresi: s’insinua in modo lento e sottile, togliendo un po’ alla volta la voglia di vivere; inizia con la stanchezza, la malinconia, il bisogno di stare soli; si perde interesse per le cose della vita ed è faticoso prendersi cura di sé. La depressione nella sua dimensione di apatia, disperazione silenziosa, mancanza di progetti e speranza per il futuro, mette a contatto con il vuoto e con il non senso; non vi è malessere che ricordi così da vicino la morte: è un implodere nel passato, in cui non vi sono possibilità né per il presente né per il futuro.

La depressione  puo’ essere inattesa ed imprevista. Arriva un giorno all’improvviso, di colpo, oppure si puo’ insinuare piano piano, subdolamente, senza un motivo comprensibile. La persona depressa è spesso sola con se stessa anche quando è circondata dalla famiglia e dagli amici. Non si tratta qui della solitudine inerente ad ogni persona, che è il risultato della nostra singolarità (individualità), ma di un isolamento, di un allontanamento e di un abbandono della vita. La persona depressa non sa più stimarsi e trovare valore ai propri occhi. Non sa più come collegare la propria storia personale alla storia della società.

 La Psicoterapia della Gestalt, considera la depressione come una condizione di vita intimamente connessa alla storia personale; la sensazione di angoscia svela l’esistenza di una realtà passata o presente di cui non si è consapevoli o non si riesce ad accettare; affrontare questo disagio significa accogliere se stessi e la propria ferita per rinascere. Molte storie di depressione sono storie di risvegli. Il passaggio attraverso il dolore è paragonabile ad un rito iniziatico in cui si abbandona una parte di sé fatta di malessere e immobilità, per contattare le potenzialità sopite della propria personalità e fare emergere le risorse creative e le vitalità nascoste nel profondo del proprio essere.

A volte uno stato depressivo è conseguenza di un episodio di perdita o di grande mutamento: separazione, divorzio, morte di una persona cara, cambio di lavoro, trasferimento, adolescenza, nascita di un bambino, menopausa…; altre volte nasce da una mancanza antica non consapevole e mai elaborata. Nei due casi il processo psicologico è simile: vi è difficoltà e rifiuto a vedere la realtà e l’illusione di evitare il dolore. Alcuni raccontano di condurre una vita “normale”, soddisfacente, di aver avuto un’infanzia felice; apparentemente non hanno motivo per star male eppure sono malinconici e scontenti. Non vi è stato alcun evento scatenante, ma sentono la voglia di vivere abbandonarli giorno dopo giorno: sono questi i casi in cui la depressione nasce da una ferita antica e inconsapevole, mai contattata nell’età adulta. La ferita del non amore è un’esperienza infantile che ha segnato ogni essere umano, non occorre essere stati bambini maltrattati, abusati o ignorati per sentirla, poiché ognuno in diversa misura la porta dentro.

La depressione può arrivare anche quando la vita che stiamo conducendo non è consona ai nostri desideri e in questo senso non ci appartiene! Preferiamo ammalarci piuttosto di riconoscere che l’amore ricevuto non ci ha nutrito e le scelte affettive e di vita attuali sono altrettanto deludenti e richiedono una svolta; temiamo di non reggere il bruciore della ferita mentre è proprio dalla sua accettazione che i sentimenti d’angoscia e inerzia possono trasformarsi ed acquistare il sapore dinamico di una realtà in cui tutto crolla per essere ricostruito.

E’ difficile trovare le parole per descrivere l’esperienza del dolore poiché ognuno di noi in genere è molto più impegnato ad opporvisi invece di ascoltarlo e lasciarlo fluire. Siamo convinti sia pericoloso lasciare questo sentimento divampare internamente perché temiamo possa diventare distruttivo come un fiume in piena. Intravediamo nel dolore quasi una via di non ritorno, guardiamo con sospetto e paura questa esperienza umana così potente e cerchiamo di sbarrargli la strada, mettendo in atto svariate strategie per fare scudo; ma così facendo non ci rendiamo conto della prigione: rinunciamo a vivere una vita con tutti i suoi sapori preferendo il controllo sui sentimenti. Provare dolore è parte integrante dell’esperienza umana come la nascita e la morte, come la gioia, la rabbia e l’amore, rifiutandolo ci allontaniamo da noi stessi e dall’unica cosa reale in quel momento per noi, dal centro della nostra esperienza, fulcro dell’energia creativa. Opponendoci a ciò che siamo il risultato è lo smarrimento e la perdita di significato per ogni cosa, non riusciamo più a desiderare perché i desideri partono dal sentire; entriamo in una spirale di malinconia e paralisi; senza più fantasticare e progettare siamo senza speranza e tutto ciò fa percepire la morte molto vicina.

La capacità di reggere dolore e frustrazione è alla base di un buon rapporto con se stessi e con il mondo e si sviluppa in età infantile, nella prime relazione affettive; queste esperienze strutturano la stabilità e la sicurezza della persona e la conseguente capacità di sostenere le emozioni in quanto esse hanno un flusso energetico di apertura e chiusura e come l’onda trovano nel punto più basso la forza per risalire. Questo è un concetto psico-fisiologico riconosciuto e molto consolante. In effetti noi sappiamo da sempre, a livello sensoriale, che il dolore fa parte della vita in quanto fin dalla nascita ne abbiamo fatto esperienza, ma da adulti abbiamo perduto la forza per accettare questa realtà. La non accettazione del dolore, la non sopportazione della frustrazione ha una forza distruttiva e ci rende inefficaci nel qui ed ora. Paradossalmente nel contatto con la sensazione di annientamento si può trovare l’aggancio con la nostra energia vitale. Quando smettiamo di consumare tutte le nostre risorse per negare noi stessi, recuperiamo le forze per scegliere come vogliamo vivere, reagire agli stimoli del momento e mettere in atto delle scelte di trasformazione.

Per gli esseri umani la cui sopravvivenza dipende per lungo tempo dagli altri, instaurare rapporti intimi significativi costituisce una delle tappe basilari della vita collegata però al rischio di essere rifiutati. Nel momento in cui consolidiamo la sicurezza in noi stessi diventiamo capaci di reggere le esperienze difficili senza lasciarci abbattere dalle avversità e siamo in grado di sviluppare le potenzialità creative. Vivendo un legame affettivo forte e profondo e facendo l’esperienza di non doverci negare per essere amati, desiderati e attesi acquisiamo la capacità di distinguerci e metterci in gioco. Non possiamo vivere senza affetti e inesorabilmente, quando un legame si infrange ci costringe al confronto con la solitudine: essa da un lato fa riemergere i fantasmi del passato, dall’altro offre la possibilità di dare un nuovo senso all’esistenza e origine a scelte creative. Molti hanno il terrore della solitudine e la evitano non rispettando la loro stessa esigenza di avere spazi per sé; si frastornano, circondandosi di persone o oberandosi di cose da fare.

E’ indispensabile accettare la propria condizione di solitudine esistenziale ed allo stesso tempo instaurare contatti profondi e legami intimi perché hanno il potere di stravolgere l’esistenza, di offrire forza e coraggio per affrontare il mondo, di sconfiggere la paura e guardare la realtà a testa alta: una polarità dell’anima stupefacente. La creatività si nutre del ritiro in se stessi; una condizione di solitudine e inquietudine è la circostanza migliore per favorire il flusso creativo. A volte la solitudine fa paura perché porta con sé idee minacciose altre volte invece viene vissuta in modo positivo e diviene fertile di pensieri e progetti sollecitando gli aspetti migliori a patto che la persona lo desideri. Non esistono meccanismi automatici tra aggressività, dolore, creatività, ma è indubbio che vivere creativamente significa prima di tutto distruggere, fermarsi nel vuoto in attesa dell’input per ri-creare. A volte la scelta della solitudine è il desiderio di essere padroni della propria vita: vi è un atto di coraggio che porta ad isolarsi per essere intimamente fedeli a se stessi in quanto ognuno di noi è per sua propria natura diverso da ogni altro e questa originalità è fonte di ricchezza e attrazione.

Il rapporto terapeutico inizia con l’ascolto del dolore del paziente: il terapeuta si sintonizza sul livello emotivo costituente lo stato fenomenologico della depressione. Il solo fatto di poterne parlare offre la possibilità di familiarizzare con il proprio malessere, di riconoscerlo e di conseguenza di averne meno timore. In questa prima fase non c’è soluzione né consolazione da ricercare ma attraverso il sentire, le lacrime e il non senso, la persona è accompagnata gradualmente ad avvicinare il disagio per viverlo come realtà del presente, a riconoscere il flusso dei propri pensieri negativi, a prendere contatto con la corporeità immergendosi nelle sensazioni di oppressione e pesantezza. Un po’ alla volta egli entra in un tempo sospeso, un momento di vuoto dove inizia il processo di elaborazione del lutto, l’aggancio con una realtà non più solo passiva ma in cui trova la forza per una nuova responsabilizzazione.

E’ questo il momento in cui il paziente può decidere di affrontare il processo terapeutico attraverso la rivisitazione dei vissuti corporei. Egli ha bloccato e irrigidito le sue modalità difensive ed è importante che, chi lo accompagna in questo delicato percorso, gli dia il tempo di entrare nel dolore senza forzature e di divenire consapevole delle proprie strategie difensive perché per abbandonarle si troverà per un certo periodo vulnerabile e impaurito.

Un passaggio importante è anche l’espressione dell’aggressività repressa o passiva che la persona non osa esprimere per difendere la propria immagine, con il risultato di una grave perdita di energia vitale. La rabbia stimola la differenziazione e induce il coraggio per uscire dalla rassegnazione ed interpretare in maniera nuova e individualizzata ciò che l’esistenza offre, riconoscendo che questa vita è l’unica dimensione possibile in cui ricercare la propria realizzazione, creare relazioni e cogliere opportunità.

 

 
 
 

“Attraversare il ponte” - Gruppo di sostegno per l'elaborazione del lutto

Post n°4 pubblicato il 08 Febbraio 2012 da fiore.catherine
 
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“Solo coloro che si tengono lontani dall’amore

 possono evitare la tristezza del lutto.

L’importante è crescere, tramite il lutto,

 e rimanere vulnerabile all’amore.”

                                                                                                                                                       John Brantner

 

Quando perdiamo una persona cara, la nostra vita viene sconvolta. Ci sentiamo scossi nella profondità della nostra esistenza. I nostri sentimenti possono essere intensi e contraddittori, oppure ci possiamo sentire come congelati, completamente paralizzati. Inizialmente, i nostri parenti e amici cercheranno di esserci il più possibile vicini, di gestire con noi la quotidianità nonostante il grande sconforto e il vuoto che si sperimenta. Alcune persone intorno a noi si mostreranno imbarazzati, incapaci di accoglierci nella nostra vulnerabilità. E presto sentiremo degli inviti a “guardare avanti”, “riprendere a vivere”, “cercare di dimenticare”. Noi non siamo affatto in grado di farlo - ci sentiamo incompresi e ancora più soli

 Il processo di elaborazione del lutto è lungo e tortuoso; ciclicamente viviamo periodi di relativa serenità, per poi sprofondare di nuovo nella disperazione. Elaborare i vissuti della perdita e del lutto - che portano con sé disorientamento, rifiuto, panico, disperazione, rabbia, isolamento, depressione e sensi di colpa - e affrontare gli inevitabili e necessari cambiamenti interni ed esterni, comporta un travaglio difficile da superare da soli, in particolar modo in quei casi in cui accade tutto improvvisamente. Possiamo allora provare il bisogno di comprensione, di incontro con persone nella stessa nostra situazione con le quali condividere il nostro vissuto, e di un aiuto competente.

Il lutto è il lento processo di ridefinizione del nostro mondo e della nostra realtà privati della presenza di una persona che ci era particolarmente cara. Per questo ha bisogno di un particolare spazio-tempo che spesso è difficile trovare nella società frenetica come la nostra, ma che è possibile creare e trovare in un gruppo di sostegno.

Il gruppo si configura come la possibilità di recupero di una ritualità di elaborazione comunitaria del lutto, costituendo un moderno rito di passaggio che accompagna i partecipanti da una fase all’altra della vita. 

Ma perché proprio un gruppo per elaborare la perdita? Il gruppo ha un suo forte potenziale terapeutico. Quando si rivive l’esperienza della perdita insieme con altre persone, anche se sconosciute, ma che stanno affrontando lo stesso problema, lo si sperimenta in modo del tutto differente. L'impegno comune dei partecipanti consente un arricchimento reciproco e attiva un intenso campo psichico, che favorisce l’esperienza di un livello di coscienza più profondo, quale raramente da soli ci si concede nella vita abituale di fronte al dolore e alla perdita.

L’aspetto della condivisione e del contenimento, che il gruppo consente, è ben rappresentato dall’immagine del cerchio delle persone che si forma durante gli incontri e che sta a significare il senso dell'appartenenza a una comunità. Nel mezzo del cerchio si crea uno spazio libero e nello stesso tempo protetto per il rapporto con se stessi e gli altri, senza programmi e senza vincoli, se non quello della partecipazione e dell'ascolto, in cui ciò di cui si discute é qualcosa che ciascuno ha vissuto e sperimentato nella propria storia o all’interno del gruppo, e quindi può essere condiviso ed esplorato.

L’aiuto che si dà e si riceve all'interno di un gruppo non è certo un impossibile ritorno al passato o una difesa dalla sofferenza psichica, ma il far emergere il bisogno umano di comunicare, avvicinarsi ai propri sentimenti, porsi a confronto con le proprie emozioni, senza rimanerne imprigionati.

Partecipare a un gruppo di sostegno vuol dire avventurarsi in una nuova esperienza di vita. E’ un atto di coraggio, un mezzo per cercare una risposta vitale alla perdita di senso e di orientamento che si sta provando e per uscire da una dimensione di solitudine e di chiusura. Attraverso il gruppo si attiva un campo psichico, in cui emergono le parti sofferenti, malate e bloccate, le difese che attuiamo per contenere le paure e le angosce, ma anche le risorse, i bisogni, i desideri, le speranze verso forme nuove di vita, verso un cambiamento che si teme di non saper reggere o di non poter realizzare.

E’ l’incontro con il dolore, con il sentimento dell’abbandono, con la solitudine e con le paure di ciascuno, accompagnato anche dalla sfiducia nelle proprie possibilità di cambiamento. Nel gruppo infatti le persone si permettono di esprimere il loro pesante carico emotivo, spesso non dicibile all’esterno, poiché familiari e amici non lo tollerano troppo a lungo. In questo modo fin dal primo incontro il gruppo diventa il contenitore delle storie di vita di ogni partecipante e anche il contenitore della storia del gruppo.

La condivisione delle esperienze personali e il confronto dei propri vissuti e delle reazioni psicologiche con le altre persone del gruppo permette di cogliere, pur nella diversità delle storie, un’intima somiglianza dei problemi da affrontare o già affrontati e la possibilità di un rispecchiamento reciproco, che aiuta a riconoscersi negli altri, a fare dei collegamenti tra le diverse situazioni e a elaborare le proprie esperienze. Nel gruppo ciascuno può utilizzare l’esperienza degli altri non solo rispetto alla propria vita passata e alla relazione con il defunto, ma anche rispetto al presente, alla conoscenza di sé, alle amicizie e relazioni attuali, anche quelle che si sperimentano all’interno del gruppo. Nel gruppo ci si rispecchia nelle paure, nei limiti, nelle angosce, nelle colpe, nei rimpianti, nelle sofferenze degli altri, ma pian piano anche nel bisogno di «salvarsi», «aprirsi di nuovo», «farsene una ragione», «uscire dall’isolamento», recuperare il proprio «equilibrio» non solo per se stessi e per i figli, ma anche per le altre persone che ci vivono intorno e «che amiamo».

Inoltre attraverso il gruppo si apprende che ci sono modalità differenti per contenere e modificare le proprie difficoltà e le proprie paure, per dar loro un senso e per trasformarle in atti e azioni vitali. Si scopre attraverso l’esperienza dell’altro che rimanere attaccati al passato, ai dolori e ai traumi vissuti, pieni di risentimento o di sensi di colpa, impedisce il proprio processo di crescita, oppure che trattenere egoisticamente qualcuno che sta morendo o rimanere legati solo a qualcuno che è morto diventa un impedimento alla propria trasformazione e crescita personale.

Attraverso la condivisione delle proprie esperienze e dei vissuti  emerge quel potenziale di elaborazione e trasformazione dell’esperienza emozionale, che determina importanti modificazioni nelle capacità comunicative e relazionali di ciascuno.

 

 

 

 
 
 

Attacchi di Panico

Post n°3 pubblicato il 08 Febbraio 2012 da fiore.catherine
 
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Conquista te stesso, non il mondo.

René Descartes

Solo chi ne soffre sa quanto è difficile conviverci. Possono portare ad isolarci e a non avere una vita normale. Ritrovare un equilibrio e una capacità di gestirli può realmente significare tornare a vivere.

Un attacco di panico è un episodio di intenso malessere che compare improvvisamente, con o senza preavviso, e dura mediamente 10-20 minuti. Nel cosiddetto “disturbo di panico” i singoli attacchi si ripetono nel tempo.

Gli attacchi sono improvvisi, inaspettati e, spesso, ricorrenti e, nella maggior parte dei casi, si associano alla paura di trovarsi in luoghi o situazioni dai quali può risultare difficile allontanarsi oppure nei quali non si può essere soccorsi (agorafobia).

Ecco allora che non si entra più nei ristoranti, nei negozi affollati o nei posti pubblici, non si sale sui mezzi di trasporto cittadini e privati.

Nei casi molto gravi la persona praticamente si “confina” nel proprio domicilio senza avere più una vita di relazione fuori casa.

Peggio della paura c’è solo la paura della paura. L’attacco di panico e la paura di averlo.

La medicina non sa spiegare esattamente cosa siano gli attacchi di panico. A livello medico non c’è nulla che non va; eppure, quando si manifestano, la nostra mente percepisce un imminente pericolo e ci fa vivere sensazioni fisiche molto forti: sudori freddi, debolezza, giramenti di testa, svenimenti. Possiamo provare da un leggero disagio ad un vero e proprio terrore.

 Da dove vengono?

Spesso gli attacchi di panico emergono in momenti chiave della nostra vita: dopo la scomparsa di una persona cara, nella fase di transizione dalla scuola al lavoro, dopo un licenziamento, dopo la fine di una relazione sentimentale; insomma, dopo eventi che cambiano la nostra vita in maniera significativa.

Questi eventi provocano in noi forti emozioni che il contesto sociale in cui viviamo, la nostra formazione culturale o le nostre credenze personali ci inducono a considerare “inopportune”. Spesso si tratta di quelle emozioni comunemente considerate negative: tristezza, rabbia, dolore, disperazione.

Gli attacchi di panico possono manifestarsi a distanza di mesi o di anni dall’evento traumatico, quando la vita sembra tornata alla normalità. In realtà queste emozioni, cui in passato abbiamo negato la naturale espressione, sono rimaste bloccate e si sono accumulate dentro di noi, manifestandosi oggi come ansie e attacchi di panico.

L’attacco di panico può manifestarsi in diverse maniere:

-a livello fisico crea palpitazioni, forte sudorazione, vertigini, tremori, spasmi muscolari, difficoltà a respirare, nausea;

-a livello psicologico ed emozionale provoca una grande confusione mentale e paura, spesso terrore, che da un momento all’altro si possa star male, svenire, perdere il controllo, impazzire o addirittura morire.

 Ciò che spaventa di più è la sensazione di non poter far nulla per evitarlo. Si prova quindi una profonda paura non tanto di ciò che sta accadendo al momento, quanto di qualcosa che potrebbe accadere. Da qui iniziano una serie di proiezioni su un immediato futuro negativo: è a questo punto che il panico prende il sopravvento. 

 Cosa fare nell’immediato?

Per riuscire a gestire un attacco di panico nell'immediato:

 - respirare profondamente

  - radicarsi

  - rimanere nel presente

 - riconoscere la paura e concedercela

 - occupare la mente con mantra positivi, evitando che prenda il sopravvento

Nel giro di pochi minuti, solitamente, l’attacco passa.

E’, inoltre, importante sapere che il panico non è una malattia, ma una reazione errata ad un allarme che il corpo ci invia e proprio per questo motivo è possibile porvi rimedio grazie alla psicoterapia, che può insegnare a mettere in atto dei comportamenti funzionali, interrompendo invece quelli disfunzionali che nel caso del panico, come per altri tipi di problematiche, contribuiscono a peggiorare le cose.

 
 
 

Il tuo corpo ti parla

Post n°2 pubblicato il 07 Febbraio 2012 da fiore.catherine
 
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Non esistono parole più chiare del linguaggio del corpo,

 una volta che si è imparato a leggerlo.

Alexander Lowen

Il nostro corpo può raccontarci tante cose su di noi: sentimenti poco chiari, impulsi ambivalenti, emozioni represse, il nostro essere nel mondo. Ma troppo spesso capita che non ascoltiamo i segnali che il nostro corpo ci manda. Perchè se è vero che con le parole possiamo mentire, il corpo non mente mai...

Il nostro corpo parla, non soltanto con la mimica o con la gestualità. Parla tramite la pelle, con la temperatura, la sudorazione, la salivazione. Parla con il respiro e con la pressione sanguigna, con i battiti cardiaci e con la stanchezza. Ma anche, e soprattutto, con la sua struttura esterna: la postura, la localizzazione di depositi di grasso, l’immagine che trasmette al mondo di noi stessi.

Il corpo è dunque il più potente, fornito ed attento strumento di valutazione delle situazioni che ognuno di noi possiede.

Eppure, nonostante tutto questo, la cosa più difficile per noi è ascoltarlo.
Esso ci invia continuamente dei messaggi, dei precisi segnali che noi, noncuranti del loro significato, abitualmente tendiamo ad eludere se non addirittura a reprimere.
Guarire la mente, dunque, per guarire il corpo, star bene con se stessi per stare bene con gli altri, accettare le emozioni per accettarsi.

Questo è il vero significato del potere del nostro corpo. Spetta a noi assumerci la responsabilità di scegliere se recepirli o meno perché emozioni vissute ed Io corporeo (cioè l’immagine che abbiamo e che diamo di noi stessi) sono, una volta ancora, indissolubilmente collegate.
Ciò non significa soltanto che le nostre emozioni danno origine a fenomeni che si ripercuotono sul piano fisico ma anche che, se lo vogliamo, possiamo dare una lettura diversa ad alcuni aspetti che caratterizzano il nostro corpo per capire quale può essere l’emozione che li ha generati.

J.I.Kepner ritiene che spesso i sintomi somatici, le tensioni muscolari e alcuni movimenti e posture ormai divenuti abituali, siano l’espressione di una resistenza psichica: integrare il lavoro corporeo con la consapevolezza psichica è l’unica via per rendere il soggetto libero dalla “gabbia fisica” che lo blocca e lo limita nel suo essere nel mondo con dolori fisici, tensioni muscolari e sintomi di vario genere.

E’ infatti attraverso il nostro corpo e il movimento che entriamo in contatto con l’ambiente, che entriamo in relazione con gli altri e che ci permettiamo di esprimere le nostre emozioni. Lo stesso termine emozione deriva dal latino e-movere (muovere fuori), ne deriva che per poter esprimere un sentimento, un’emozione, dobbiamo compiere un movimento dall’interno del nostro corpo verso il mondo esterno; ma, alle volte, per adeguarsi alle richieste implicite o esplicite dell’ambiente, siamo costretti a rinunciare all’espressione di alcuni sentimenti e con essi anche ai rispettivi movimenti.

E’ qui che nasce l’atto bloccato, inespresso che trova posto solo in una struttura corporea fissata e in abitudini posturali spesso impenetrabili da un trattamento puramente psicologico o puramente fisico. Noi conserviamo in larga misura l’esistenza degli aspetti rinnegati del Sé attraverso il legame che essi hanno con le funzioni ed i processi del nostro corpo.

Ci sono contrazioni antiche, oppure indotte da particolari posture o da esperienze traumatiche o cronicizzate, che sembrano addirittura opporsi alla parola, alla consapevolezza mentale, quasi a ribadire una richiesta di qualcosa d'altro: la dimensione corporea e quella mentale si rispecchiano e risuonano costantemente l'una nell'altra anche quando sembra proprio il contrario.

Quindi... non guarire le emozioni ma guarire con le emozioni che passano attraverso il corpo.

 
 
 

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Post n°1 pubblicato il 07 Febbraio 2012 da fiore.catherine
Foto di fiore.catherine

Ma in fin dei conti....sto imparando dalla vita...come tutti...

Questo blog nasce con l'intento di diffondere la cultura psicologica, di condividere pensieri e riflessioni sull'importanza della psicologia nella vita di tutti igiorni.

Andiamo sempre di fretta, dimenticandoci a volte, spesso, dell'aspetto emotivo della nostra vita....ecco questo blog ci può permettere di fermarci ogni tanto a riflettere su quello che sta accadendo, dandoci la possibilità di ricaricarci e ricominciare...

Spero di farvi compagnia con i miei pensieri e le mie riflessioni...

Dott.ssa Catherine Fiore

www.catherinefiorepsicoterapeuta.it

 

Io credo nei segnali. Io credo nel destino,

credo che le persone abbiano tutti i giorni

una possibilità di sapere qual'è la migliore

decisione da prendere riguardo a ciò che fanno...


 
 
 

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