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IL DIFFICILE EDITORIALE DELLA NOTTE: SE DEVI MORIRE E' MEGLIO DIRTI LA VERITA' O RECITARE LA COMMEDIA DEGLI EQUIVOCI?

Post n°4300 pubblicato il 07 Giugno 2010 da psicologiaforense

IL MIO EDITORIALE DELLA NOTTE

 

Questo testo è coperto da COPYRIGHT by PSICOLOGIAFORENSE,  ogni violazione e/o manipolazione  sarà perseguita!

INFORMARE SINCERAMENTE E DIRE LA VERITA’ ANCHE AL PAZIENTE ONCOLOGICO TERMINALE?

LA CONGIURA DEL SILENZIO: IO MALATO SO CHE TU SAI MA FACCIO FINTA DI NIENTE....NOI PARENTI SAPPIAMO CHE TU SAI MA ESIBIAMO UNA OTTIMISTICA ALLEGRIA.... VA TUTTO BENE....! QUANDO TORNI A CASA? POTREMO ANDARE DI QUI, DI LA'........




Il fantasma provocato dal tabù del cancro - che molto spesso non corrisponde affatto alla realtà della malattia o delle sue conseguenze ­genera numerose reazioni psicologiche devastanti.

Da qui la necessità di porre particolare attenzione alle comuni­cazioni verbali ed extraverbali che si inviano al paziente.

Sempre e solo all'interno di uno stretto e proficuo rapporto cu­rante-curato, il malato deve ricevere tutte quelle informazioni che gli permetteranno di affrontare nel miglior modo possibile la malattia.

E’ superfluo ribadire, a tal proposito che il paziente non va mai lasciato in balia a dubbi, paure, supposizioni, sospetti che sono, per certo, un fattore negativo e distruttivo.

In questa stessa prospettiva si colloca anche il cosiddetto problema di tacere o schermare la verità al morente.

In molti Paesi questo non avviene più: al paziente si comunica la diagnosi vera, le probabilità di vita, il tempo presumibile di sopravvivenza.

Da noi permangono, al riguardo, comportamenti diversificati al­l'interno di una tendenza generalizzata a mimetizzare la realtà. E’ in­fatti esperienza comune il vedere il moribondo e quelli che lo circondano recitare tra loro la commedia del «nulla è cambiato », «la vita continua come prima », «tutto è ancora possibile ».

Sembra quasi che si voglia ripresentare, in forma moderna, un'an­tica concezione tabuistica secondo la quale pronunciando determinate parole (cancro, perdita della speranza, agonia, dolore,  sofferenza, morte , ecc... )si verrebbe a renderle «attive ».

In effetti l'annoso problema se dire o tacere la verità al malato appare più fittizio che reale.

Ogni paziente, infatti, fa caso a sé, non si può generalizzare: in alcuni prendere consapevolezza che il proprio organismo ha messo in atto un programma di morte può mettere drammaticamente in atto un programma di vita.

In altri il conoscere intempestivamente ed improvvidamente la « verità» può indurre a comportamenti suicidari, abbandonici, a ricer­care o a richiedere forme di eutanasia, ad abbandonare ogni terapia, a sprofondare nella depressione più cupa sprecando il tempo che resta da vivere prigionieri di un incubo fatto di vuoto e di solitudine.

Così impostato il problema, appare evidente che ad ogni paziente bisogna dire ciò che vuole e può sapere.

Pare chiaro anche che lo schermo difensivo che cerchiamo di eri­gere tra il paziente e l'idea della morte serve, in realtà, a proteggere più noi che il diretto interessato. Ma questa «commedia degli ingan­ni» snatura i rapporti tra malato ed operatori sanitari, ha alti costi psichici ed è fonte di non pochi effetti negativi.

In conclusione, è importante che il medico sappia porsi in una situazione di «ascolto empatico» e di «identificazione comprensiva» con il proprio paziente e che, dopo aver posto ogni cura nell'ottimiz­zare il rapporto curante-curato, risponda serenamente alle domande del malato, senza pericolose fughe in avanti, comunicandogli quella «ve­rità del momenta attuale» che desidera conoscere e che può soppor­tare.



 
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