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EDITORIALE DELLA NOTTE, MEDICINA, MIRACOLI, ESPERIMENTI, PERSECUZIONI, G.F. BORRI, CHIESA, INQUISIZIONE, PROTOMEDICO,

Post n°4584 pubblicato il 22 Agosto 2010 da psicologiaforense

L'EDITORIALE DELLA NOTTE

Miracoli, esperimenti e persecuzione di Giuseppe Francesco Borri, discusso guaritore
nella Roma del Seicento.

Un ciarlatano nella preistoria della medicina? 


Sessantuno anni dopo la messa al rogo di Giordano Bruno, piazza di Campo dei Fiori a Roma visse una nuova giornata di preti, eretici, fiamme e popolo. Lo spettacolo fu identico a quello del 1600, di pari consistenza il numero degli accorsi ed eguale l'intensità delle manifestazioni popolari di consenso al lugubre rito voluto dall'Inquisizione: ma del condannato, il contumace Giuseppe Francesco Borri, fu "abrugiato" non già il corpo bensì soltanto l'effigie. E chi fu mai questo Borri che - a dispetto di ogni sua intenzione, certo - provocò una così gran calca di popolani (nonostante si dovessero accontentare di veder avvolte dalle fiamme solo le sue immagini)? Non un filosofo. Nè il fondatore di un'eresia religiosa. Solo un protomedico, se così lo si può definire. Una di quelle figure del Seicento a cavallo tra chemiatria, alchimia e turlupinatura dei creduloni che posero le radici della medicina moderna. Nella Roma barocca e controriformista di Urbano VIII  mentre si preparava il grande Giubileo del 1650 (settecentomila pellegrini nella capitale, un record per i tempi), fu in quella Roma, in quel clima ad un tempo cupo e vivace che Borri fece parlare di sé.  Nato a Milano nel 1627, sua madre se la portò via la peste dei "Promessi sposi" nel 1630. E suo padre il nobiluomo Branda Borri, un "fisico collegiato" cioè anche lui un medico ante litteram, si tenne stretto a Santa romana Chiesa tanto che dedicò al cardinale Cesare Monti (successore a Milano di Federico Borromeo) il suo trattatello "De re medica". E alla Chiesa, o meglio alla scuola gesuitica del Seminario romano, affidò l'istruzione superiore del figlio quando questi nel 1644 ebbe compiuto i diciassette anni. Nel frattempo però Giuseppe Francesco Borri s'era appassionato agli studi chimici del padre e questo amore non lo avrebbe mai più abbandonato. Borri ponendosi alla testa della battaglia contro i "galenisti" che usavano come rimedi alla peste sostanze e ritrovati talvolta davvero astrusi: "sugna di porco maschio", "sterco di colombo", "fichi secchi", "mele crude con fior di farina", "carne di bue pestata", " galline o colombi squarciati vivi". Su un'unica cosa fu " ipergalenista" e si comportò come aveva fatto Galeno millecinquecento anni prima di lui: quando il morbo anzichè fermarsi si diffuse in una nuova ondata che travolse Trastevere, il ghetto e l'isola Tiberina mise in pratica il motto "cito, longe, tarde" ("Scappa presto, va lontano, torna più tardi che puoi") che qualche anno più tardi, nel 1665, sarebbe stato riproposto da Thomas Sydenham come rimedio alla epidemia che si sarebbe abbattuta a Londra: "Il modo migliore di prepararsi alla peste è di fuggirla". Borri dunque fuggì a Strasburgo la sua fama di medico prese a crescere, accompagnandosi però a quella di "avvelenatore". Ma fu ad Amsterdam che alcuni suoi successi, soprattutto in operazioni agli occhi, raggiunsero l'apice. I buoni esiti furono però anche qui offuscati da dicerie le quali volevano che egli "circuisse i più abbienti e i più ricchi in fin di vita, promettendo loro oltre alla medicazione di piaghe immedicabili e alla guarigione di mali inguaribili, una subitanea rigenerazione dopo la degenerazione corporea, cioè un'immediata riviviscenza oltretomba: una pronta resurrezione della carne senza dover attendere il Giudizio Universale". I pazienti uscivano dalla sala delle sue visite soddisfatti di essere stati ascoltati, rassicurati, "curati", e sentivano di star meglio, almeno per un pò. Ciò... contribuiva non poco alla sua fama di "curante", compensando in questo campo le insinuazioni e le maldicenze a suo carico delle quali s'è detto. E non c'era solo questo. Giunto alfine a Copenaghen alla corte di Federico III che già aveva un pregiudizio favorevole nei suoi confronti, Borri riprodusse nel 1666 su un'oca l'intervento agli occhi che quattro anni prima gli aveva dato grande notorietà ad Amsterdam. L'operazione riuscì a pieno. L'oca riacquistò la vista al punto da scansare ogni ostacolo che le veniva messo davanti. E per Borri fu il trionfo. Che si perpetrò fino alla morte del re nel 1670 nonostante altri interventi non avessero avuto lo stesso esito di quello sull'oca. Alla fine d'agosto del 1670,  Borri fu trasportato a Roma. In prigione. A dire il vero, non fu rinchiuso come avrebbe dovuto nelle carceri dell'Inquisizione, bensì nella fortezza di Castel Sant'Angelo, a disposizione del Papa. Che era Clemente X (al secolo Emilio Bonaventura Altieri), restò in carica ancora per sei anni, e impostò per il Borri un regime carcerario molto particolare. Destinato a durare quasi fino a quando Borri morì, dopo ben venticinque anni di questa vita, verso la fine del secolo, nel 1695. Ma la sua fama di "medico dei miracoli" non era affatto sopita, nonostante la sua segregazione dalla vita attiva. Così nel 1675 per un riguardo verso la Corona di Francia gli fu concesso di uscire dal castello e di visitare il conte d'Estrees a Palazzo Farnese: molta gente, saputo che Borri era lì, si ammassò festante sotto il palazzo e quando, a dispetto della prognosi infausta dei medici curanti, il conte si sentì meglio, grande fu l'eco di quella "guarigione". Talchè sempre più sovente fu permesso a Borri di "visitare" illustri pazienti. Ma quando nel 1691 divenne Papa (con il nome di Innocenzo XII) Antonio Pignatelli - il quale era stato nunzio apostolico a Vienna nel 1670 all'epoca in cui Borri fu catturato, e considerava un suo personale successo l'averlo fatto riconsegnare a Roma - per il nostro "medico ciarlatano" fu la fine del regime di semilibertà. Le porte di Castel Sant'Angelo si chiusero a doppia mandata. E in condizioni di totale segregazione attese la morte che giunse, come s'è detto, quando mancavano cinque anni agli inizi del Settecento.

 
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