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« GATTINO STRANGOLATO ... ...L U T T O »

MEDICO TRADISCE IL PAZIENTE

Post n°349 pubblicato il 31 Ottobre 2007 da psicologiaforense

La tutela del segreto ha come caposaldo la legge sulla privacy 31 dicembre 1996, n. 675 ("Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali"), la quale è stata subito integrata dalle disposizioni di cui al D.Lgs. 9 maggio 1997, n. 123, e di seguito da ulteriori normative. La salvaguardia del segreto professionale è oggigiorno materia che investe la disciplina deontologica ed il diritto penale (inteso sia come norma codicistica che come legge speciale) cui corrispondono diversi organi di sorveglianza nella corretta applicazione dei singoli disposti: gli ordini professionali, la magistratura penale, il Garante per la tutela dei dati personali (art. 3, D.Lgs. 123/97). Naturalmente i procedimenti disciplinari e le diverse pene irrogabili ai sensi della legge penale (reclusione fino ad un anno o multa da lire sessantamila a un milione secondo l'art. 622 c.p.; reclusione fino a due anni ma anche fino a tre anni se dal fatto deriva nocumento, pubblicazione della sentenza, sanzione amministrativa del pagamento di una somma da cinquecentomila a tre milioni ma anche da uno a sei milioni secondo la L. 675/96) sono fra loro interdipendenti e, di regola, il procedimento disciplinare deve accompagnare o seguire il procedimento penale o l'intervento del Garante. Non poche sono le differenze nella tutela penalistica e deontologica del segreto professionale. Mentre sotto il profilo deontologico ed etico al medico è sempre raccomandabile la massima prudenza nell'osservanza di tale obbligo professionale, sotto quello penalistico gli effetti si avranno unicamente nelle fattispecie contemplate dall'art. 622 c.p. e cioè nella attualizzazione o nella concreta probabilità di verificazione del pericolo di un nocumento, il cui apprezzamento è lasciato ovviamente alla discrezionalità del giudice. La norma deontologica, relativamente al segreto professionale, appare nel complesso più rigorosa e restrittiva rispetto a quella penale (e ciò anche con riferimento al nuovo codice di deontologia infermieristica approvato nel febbraio 19991). Ai fini dell'applicazione della relativa sanzione la legge penale esige che sia prospettabile il 'pericolo di danno'; la norma deontologica invece punisce tout court la rivelazione del segreto anche se non vi è effettivo pericolo di provocare un danno ingiusto al paziente: se ciò si verifica rappresenta una chiara aggravante (art. 9, c. 2, c.d.m.). La rivelazione, infatti, "assume particolare gravità quando ne derivi profitto, proprio o altrui, o nocumento della persona o di altri", lì dove il termine "profitto" viene giustamente a sostituire e a dilatare il termine precedentemente usato di "lucro".Il c.d.m., inoltre, non fa alcuna distinzione tra la rivelazione dolosa e quella colposa del segreto: massima cura pertanto dovrà essere rivolta alla conservazione e custodia della documentazione sanitaria riguardante i propri assistiti e nella comunicazione e diffusione di dati (artt. 10 e 11, c.d.m.). "L'art. 38 del DPR 5 aprile 1950, n. 221, prevedendo quali illeciti disciplinari degli esercenti le professioni sanitarie abusi o mancanze o fatti disdicevoli al decoro professionale, non descrive compiutamente le azioni e le omissioni vietate ­ a differenza delle norme penali, soggette al principio di stretta legalità ­ ma pone clausole generali, il cui contenuto deve essere integrato dalle norme di etica professionale, la cui enunciazione, interpretazione ed applicazione nei procedimenti disciplinari è rimessa all'autonomia dell'Ordine professionale".

Ricordiamo che le sanzioni disciplinari irrogate dall'Ordine sono:

a) l'avvertimento, che consiste nel diffidare il colpevole a non ricadere nella mancanza commessa;

b) la censura, che è una dichiarazione di biasimo per la mancanza commessa;

c) la sospensione dall'esercizio professionale;

d) la radiazione dall'albo.

Oltre alle giuste cause imperative (referti, denunce, notifiche e certificazioni obbligatorie), l'art. 9 c.d.m. annovera fra le cosiddette giuste cause permissive di rivelazione del segreto professionale (lì dove il 'permesso' venga comunque supportato dal binomio 'informazione-consenso' o dall'autorizzazione del Garante):

1) la richiesta o l'autorizzazione da parte della persona assistita o del suo legale rappresentante, previa specifica informazione sulle conseguenze o sull'opportunità o meno della rivelazione stessa;

2) l'urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi, anche nel caso in cui l'interessato stesso non sia in grado di prestare il proprio consenso per impossibilità fisica, per incapacità di agire o per incapacità di intendere e di volere (sarebbe stato a nostro avviso più opportuno parlare di incapacità di intendere 'o' di volere!);

3) l'urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi, anche in caso di diniego dell'interessato, ma previa autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali (qui il riferimento non è ad una specifica autorizzazione bensì alla citata Autorizzazione generale n. 2/1999).

Tale menzionato punto 3) ­ non previsto nel c.d.m. precedente ­ annovera le cosiddette giuste cause sociali, chiamate in dottrina a giustificare la rivelazione di un segreto professionale in frangenti estremi e con il fine di rendere servizio alla società ma sempre sotto il controllo dell'Autorità Garante. In proposito giustamente scrivono Introna e coll. che la " giusta causa potrebbe essere adoperata con senso critico e parsimonia dal medico saggio e prudente ma di essa abuserebbe il medico superficiale, sprovveduto o privo di scrupoli"2.

Analogamente non vi è chi non veda come si versi fra le giuste cause permissive allorquando ricorra lo stato di necessità (art. 54 c.p.) o di legittima difesa (art. 52 c.p.).

Tuttavia, al di fuori dei casi predetti, il medico "non deve rendere al Giudice testimonianza su ciò che gli è stato confidato o è pervenuto a sua conoscenza nell'esercizio della professione" (art. 9, c.d.m.). Com'è noto, tra l'altro, lo specifico ambito è oggetto di norme penali e di procedura penale (art. 200, c.p.p.) le quali, in sintesi, dispongono che al medico non può essere fatto obbligo di deporre su quanto ha conosciuto per ragione della sua professione. Ciò detto si sottolinea che per quest'ultimo non corre l'obbligo giuridico di astenersi, in quanto il codice non proibisce di testimoniare, ma dà al medico la facoltà o meglio il diritto di astenersi; la norma deontologica, invece, è tassativa nonché perentoria in un divieto che può dirsi assoluto.

Massimo riserbo deve, poi, essere mantenuto nei confronti di terzi (e quindi anche dei familiari dell'assistito). Per l'art. 31 c.d.m., infatti, "l'informazione a terzi è ammessa solo con il consenso esplicitamente espresso dal paziente, fatto salvo quanto previsto dall'art. 9 [segreto professionale] allorché sia in grave pericolo la salute o la vita di altri". Inoltre, in ottemperanza con quanto previsto dalle norme sulla privacy, "in caso di paziente ricoverato il medico deve raccogliere gli eventuali nominativi delle persone preliminarmente indicate dallo stesso a ricevere la comunicazione dei dati sensibili"3.

Peraltro, il rapporto medico-paziente deve essere diretto e non mediato dai familiari del paziente. Le eccezioni contemplate dal vecchio codice deontologico del 15.7.89, relativamente a casi a prognosi grave o infausta, sono state cancellate già nel c.d.m. del 1995 con conferma anche nell'attuale c.d.m., dove è stabilito che "le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza" (art. 30 c.d.m.).

L'autorizzazione n. 2/1999 al trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, al punto 7 (norme finali), reca importanti indicazioni in tema di trattamento dei dati personali:

a) in art. 5, comma 2, della legge 5 giugno 1990, n. 135, il quale prevede che la rilevazione statistica della infezione da HIV deve essere effettuata con modalità che non consentano l'identificazione della persona;

b) in art. 11 della legge 22 maggio 1978, n. 194, il quale dispone che l'ente ospedaliero, la casa di cura o il poliambulatorio nei quali è effettuato un intervento di interruzione di gravidanza devono inviare al medico provinciale competente per territorio una dichiarazione che non faccia menzione dell'identità della donna;

c) in art. 734-bis del codice penale, il quale vieta la divulgazione non consensuale delle generalità o dell'immagine della persona offesa da atti di violenza sessuale.

Inoltre, vi è da dire che le cause di giustificazione di cui all'art. 622 c.p., a parte quelle imposte da norme di legge, sono quanto mai generiche, soprattutto per quanto attiene le cosiddette "giuste cause sociali"; in tal senso si è cercato di porre ordine o quanto meno di prevedere una più efficace tutela della persona attraverso norme di tutela della privacy ancora perfettibili in quanto non sempre chiare e tali da riservare ancora dubbi all'interprete. Ad esempio, nel citato provvedimento n. 2 del 29.9.99 "i dati idonei a rivelare la vita sessuale" non vengono definiti e delimitati rispetto a quelli atti a "rivelare lo stato di salute": da ciò può derivare pericolo di confusione e di ambiguità nel loro trattamento. In ogni caso l'Autorità Garante autorizza:

a) gli esercenti le professioni sanitarie a trattare i dati idonei a rivelare lo stato di salute, qualora i dati e le operazioni siano indispensabili per tutelare l'incolumità fisica e la salute di un terzo o della collettività, e il consenso non sia prestato o non possa essere prestato per effettiva irreperibilità;

b) gli organismi e le case di cura private, nonché ogni altro soggetto privato, a trattare con il consenso i dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale;

c) gli organismi sanitari pubblici, istituiti anche presso università, ivi compresi i soggetti pubblici allorché agiscano nella qualità di autorità sanitarie, a trattare i dati idonei a rivelare lo stato di salute, anche per il perseguimento delle finalità di rilevante interesse pubblico individuate dall'art. 17, c. 1, del decreto legislativo n. 135/1999, qualora ricorrano contemporaneamente le seguenti condizioni:

1) il trattamento sia finalizzato alla tutela dell'incolumità fisica e della salute di un terzo o della collettività;

2) manchi il consenso (art. 23, comma 1, ultimo periodo, legge n. 675/1996), in quanto non sia prestato o non possa essere prestato per effettiva irreperibilità;

3) il trattamento non sia previsto da una disposizione di legge che specifichi ... i tipi di dati che possono essere trattati, le operazioni eseguibili e le rilevanti finalità di interesse pubblico perseguite".

Devono essere considerati come disciplinati dall'autorizzazione n. 2/1999 anche:

"a) le informazioni relative ai nascituri, che devono essere trattate alla stregua dei dati personali;

b) i dati genetici, limitatamente alle informazioni e alle operazioni indispensabili per tutelare l'incolumità fisica e la salute dell'interessato, di un terzo o della collettività, sulla base del consenso ai sensi degli articoli 22 e 23 della legge n. 675/1996"4.

 
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