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RACCONTI ITALIANI ONLINE - POEMI ITALIANI MODERNI - MARCELLO MOSCHEN
Post n°4 pubblicato il 08 Febbraio 2011 da raccontiitaliani
da L’OSTRABISMO CARA (1973) per il vestibolo agganciato male ebbe ottenuto le spesse maleodoranti fazioni della linea terraaria e s’innestò trangugiando il modesto parato di sozza battitura alla quale imponendosi piota aveva consumato. Ora s’intestava all’ammasso dei bachini, decidevano i sorci intesi se dare o meno metta! per il turbinio trasloca lettera a epistrofeo e il callifugo insulso più spalmato a dovere non resiste alla cottura scoccola * il frigio se lo dividessero perché azzardi con le mele del ragno, assediassero le prese se scorrerebbe il fagiano per il malocchio, Aldo, scontrava i corridori gelidi imbelliti che chiamava fustagno e fruste e fiori li consegui latrando Dickens lo allungavano a rispetto nell’ingressino del bromo * alla tua santità come e piove foraggi trintignando all’aggiunta del cielo, cospettoso esaurientemente intricatoti nel pesante folleggio, o compratore o assillante non c’è usura del pezzo e accontentarsi come i cespi del pelo volle la passionella ventilata agli avidi del parco, delle sedute non dirgliene al micio meglio la vetrice e il pannicello della coppia nera nel dietro aver calore che frustavo * decalcato dal gesso diventa un cominciamento religioso l’allontano perché sia incrementata l’erezione nel tipo e in contanti ebbi un apprendimento viperino del polveroso e sassuto impasto di Olghe la mezzana si è rapata quando ha celato con il gettone l’ora di frenetico poco * in canestro risale la mappa del duodeno affranta collimando i calchi del pantano del giocoliere si dice lesto il porno e per non discolparsi in interiora le mattine sciaguattano contendendo il làbora: tac Mimes al divenire fecola e inturbonisce si rigira come un talco passato allo sfiato delle carrette carillons del bebi tandis l’analfa intenerisce al trillare del maschio allora s’inturgidisce e scopre impalato la fede dell’uno a erre da L’AMORE DELLE PARTI (1981) alzassi i fiocchi e ti vedessi tana come quel forno alla … centrale marcia l’abbraccio amore … non ti dimentico … Mio ci cambiammo verso l’eterno fuori il sopore del vezzo assottigliato senza pletore e santi sentimenti. Tu che fingi la gente e mi hai scartato … ma poi mettendosi sulle tue facce quanti stenti frazioni (dell’immagine) … un osanna col battito allargato una falda completa. Oh nascondino oh pulcherrimo schianto oh sofficino sei tra le mie stampelle nella porpora * o saranno denaturati colori - il tuo John Cavalcanti – la trasmissione di orchi e rimorchi … fino al negozio in cui dici … " questa piega è bellissima. Lo fai?". Era lo stesso sibilante segno le posizioni contate l’odore ricordo le tue rogge – oh tuona ancora questo molle tenore dai le gocce . Mucilla . nel tuo plesso... E le scene s’abbassano a questo scarico … allegano i serpi nel cotto … ma che sanno! infilano doni? tarda! che fuso amabile * vieni nei cesti, ti presento Marina avrei immaginato … una riservata cosa sola una pertinenza dimessa … (" ho appena lavorato coi difetti … papè papè satàn …") e non i fiotti arretrati da dire è ritrovato è l’afrore o m’hanno accolto nelle matrici del bucato (sulle spianate lucide c’è la giostra): " la collezione s’è snaturata con gli anni … " (Ha criticato il tremito la perenne colonna … e così non mi allaccio … finché ah s’è bagnata!) * " … e un pedone intenso che dominava l’isola in pochi lassi seminò questo liquore di cui ora puoi contemplare le leggi …" col tasto m’ero allineato al peluche (ritempra) l’unico capo di scarso busto: irrora: sprofondavo reina nello scorcio vivido bianco succhio sì alla fine golosa della rapida … avrei operato … lo stesso calamitato flash in un manto di carne … Quando è stata cacciata la partenza! Dopo fatte le fauci scotti via … come lisci per sempre la tua cocca! * stingendo l’arsenale è concitata le volte s’è allargata conclamata la borra più smaltata sai la riga la riga aperta avvampa allampanata … Munto bianco filato attenuato ingorga il vischio arrossami … attraversami … la chiara scola un tempo sei arrivata * foss’anche la fatina delle sete con le mappe esteriori che attiravano lo struggente condotto e filamento … e scivolava il gallico frammento: nella striscia di labbra la celata tua che si scalda (ascolta l’incerata) si dischiude l’ascosa i bordi scremano … Oh sì aspirare il boccio la violenza e tu Lorenza … da PREGHIERA DEL NOME (1990) Il cittadino mi vede seduto sulla panchina che la prima luce imbianca, meravigliato si ferma e vuole che gli risponda. Dice che sono bianco in volto. * La volta che cominciasti a scuotere la villa e nel salone delle feste cadde il lampadario e lo stucco, grida furiose, due ospiti la Cresci e il suo amico finirono sotto, morirono, e si schiantò la parete di destra si lacerò come carta … Corsi da te, in fondo al parco volai dalla porticina a cercarti nella casina nella tua stanza. Dicesti: " Ma come fai ad amare uno che disfa tutto". * Avevano ragione a dirci: non spingetevi oltre, arrivate fino alla vigna grande e tornate. Guardate le cose che già conoscete, i tigli del viale, la fila dei salici lungo il fossato, l’orto della fonte vecchia, il boschetto, dopo compaiono le case di San Romolo e proseguite fino alla cappella e ai filari. Fate il sentiero di sempre, fate una passeggiata. * La Liliana di Corbetta fu la mia prima vera fidanzata, sgraziata ricordo una volta che per baciarmi scivolò sbatté la testa sulla tavola – pensi che meglio di me lo dice il narratore lombardo l’ultimo grande scrittore del Novecento, penso che sei vicino ma che ti manca la decisione – se è solo questo io vorrei portarla in India Liliana nei monasteri tibetani, ricordo un film che raccontava di una valle dove si vive il doppio, e dirle: "Ecco Liliana staremo qui per il resto dei nostri giorni". * L’intarsiatore pensa: ogni giorno arrivando in questa via ignota da una delle tante case a fare il mondo – qui faccio il mondo – e la gloria piove la gloria dalle vie che attraverso, dalle finestre delle vecchie case della mia città, dallo stesso cielo. * Sarà Biolcati il mio amore, di un paesino del varesotto in ate, nessun altro è stato, nessuno, e sarà il sogno di gioventù le rime ritrovate. Dice: "Scendi a prendere qualcosa per il mio stomaco", e io vado e mi trovo nella stazione di Varese, mai stato prima, ora vecchio spero che sia capace di scegliere presto la cosa buona, di gusto. Pensa, più nessuno che mi conosca. I genitori, gli amici e quei vantaggi tutti mi hanno lasciato. Morti. Gli amori tanto inseguiti furono niente. Oh parole, oh prole! Ora nessuno a cui parlare di me. Sono solo con Biolcati, il mio asciutto amore, non è fine il vestito, non si può certo pretendere altro che questo grande amore, anima silenziosa, secca, la sua, ora che riprende a correre il treno, quei monti di cristallo, attraenti, fantastici, ancora una volta li vedo, verso il confine. * Non mi fece un cenno decifrabile – le brevi mosse della testa o leggeri suoni con la bocca o le nari – ma scattò a correre, portandomi con sé, sempre più forte. Io stretto al suo corpo e in pericolo, potevo capire che intenzione aveva ora che calavano le mie forze e tra poco avrei lasciato la presa? Voleva farmi precipitare nell’immenso vuoto che si era aperto sotto di noi? No, non si capiva questa sua corsa furiosa, non era gioia, non era rovina, non era una cosa infinita, e fu qui che io lasciai la vita. * Penso ancora ai rischi di essere perseguitato, le mosse per sfuggire i pericoli se ho amato non seguire le regole, ma no, basta! lo prendo per mano il mio vecchio padre e ci mettiamo a correre, lui ride si scioglie in un riso pieno sereno, inciampa ma lo sostengo, vola, è leggero, un’anima esilarante la velocità aumenta il riso la stretta delle mani "portami con te", ma non è lui a dirlo povero vecchio sono io che chiedo ancora " portami nel tuo cielo". da L’OPERA LASCIATA SOLA (1993) […] " Ricordati che il maggior peccato è curare, e tu – mi riconoscesti, avevi ragione – sei un grande peccatore. " Erano anni che non ti incontravo, e anche quel giorno mi tenevo nascosto dietro i filari, ma tu con una corsa improvvisa mi balzasti addosso ruggendo come un leone. Mi costringesti a recitare con te: " Allontana da noi, Signore, ogni pensiero di conservazione e di cura". Liberaci dalle professioni. I guaritori, il medico: quando passa questo a controllare la malattia, proprio come si va a visitare un piccolo possedimento di periferia: " Deve muoversi o il suo fisico avrà un invecchiamento rapido". L’ultima volta non ce l’ho fatta, è salita una risata irrispettosa, grassa: " Lei pensa che dovrei impegnarmi a ritardare le alterazioni organiche, il decadimento, la semplice conclusione del battito? … E il martirio allora? – mi sono messo a urlare fingendo un attacco di pazzia, spingendolo verso la porta – il martirio?". O l’altro, il geometra, che arriva e dice: " Qui bisogna alzare di due centimetri il livello del terrapieno per migliorare lo scorrimento dell’acqua …". Ma come si può, Dio, come si può dedicare la vita alle migliorie? " Sai – mi dicesti una volta in lacrime – è così fredda la fede, anonima, porta la lontananza con sé, reca l’indifferenza. Come la vogliono i miei fedeli, è la certezza del bene. E io sarei qui impiegato a rappresentare la divina bontà! Così non posso stringere i loro corpi, sentirne il palpito. La passione è intesa come un peccato. Per questo, amico mio, - ora sono io che mi confesso, ascoltami – di notte penetro nella chiesa, e nel silenzio alto del mondo compio l’inaccettabile. I danni agli arredi, alle pareti, all’altare, quei gesti vandalici di cui tanto si parla ogni domenica, facendo ipotesi, indagando senza costrutto, e intanto le distruzioni continuano … voglio che almeno tu sappia …" Abbiamo imparato insieme, preticello mio, che il movimento della terra – quello impercettibile della crescita dell’erba e dei rami, e quello devastante dei terremoti, dell’acqua e del vento – scuote l’anima dei trapassati e manda ai vivi parole indelebili. Ora l’autista, in assenza di ordini, ha preso l’iniziativa: ha fermato la corsa. Sono finite le scosse, il tuo corpo è inerte. Davanti a noi, alla fine dei campi, le mura della città turrita, immobili, lambite dall’ultimo chiarore: "Non è la città dove siamo nati", avverto il conducente con una voce secca, serrata. Lui cerca di convincermi. "Non è – insisto – per quanto somigliante, non è!". Allora lui balza indietro, come ferito, ha paura, mi guarda atterrito, come fossi un pazzo. Non riesce a credermi. Ha un’aria annichilita, indietreggia rigido, si allontana da me. Alla fine grida: " Non è irriconoscibile la mia vita!". Ha avuto paura della morte il conducente, scappa a gambe levate verso la città. Fa ridere. Non sa cosa l’aspetta. Crede di trovare i familiari, le consuetudini, i soliti conforti … Un balsamo ti conservasse per sempre! Ma per averlo dovrei agire, questa notte e domani, correre dagli specialisti in segreto, curare i preparativi, sfuggire alla curiosità, alle leggi! Adoperarmi per ottenere. Invece, senti il concerto che esce dal silenzio implacabile di questa notte. Prevosto mio, qualcosa di inimmaginabile sta accadendo. Io mi aspettavo che con la luce del mattino, e poi avanzando nelle ore del giorno, qualcuno intervenisse a riportare quest’auto abbandonata nei circuiti del mondo. Traslochi, accertamenti, interrogatori. Ma tanti che sono passati non hanno visto l’ambulanza ferma sul ciglio della strada: come se non ci fosse o fosse invisibile. Oh passanti, oh lettori! Chi di voi si fermerà ad ammirare l’invisibile, tralasciando chi vi aspetta? Chi spezzerà le catene del fare, per affondare e disperdere il suo sguardo nelle forme del vento? Chi passerà il suo tempo a cercare il punto dove scompare ogni figura, dissolta dalla luce? Chi abbandonerà il brusio assordante dei commenti, per accogliere in sé la voce dell’Inesistente? Oh, mi direte, la tua retorica! Ma un giorno, uno qualunque, mentre svolgete le più comuni mansioni, si spalancherà sotto di voi un abisso, un bagliore, un dolore vi abbatterà, acutissimo, così profondo da colpire il centro della vita, cercherete ancora di difendervi afferrando un oggetto, tentando una mossa. Sprofonderete. Dopo sarete una cosa inerte. Gli altri, intorno a voi, indaffarati subito a far sparire questo corpo immobile, in una fossa. da UNA COMUNITA’ DEGLI ANIMI (1997) La mente è la natura che ignora i moti degli animi * L’animo, folle, aspira a opporsi al flusso della materia. La mente è materia, conosce l’inarrestabile corso e gioca fino alla fine. * La forza che prende e lascia il corpo, mai vista, narrata come ardimento, vitale tenacia, volontà, non rappresentata avrebbe il segno della divinità, farebbe una comunità degli animi. * A cercarsi i viventi, a darsi nomi, a porre sui presenti sentimenti e onori, a colmare distanze per incontrarsi, voler raggiungere la certezza dei cuori. La mente rimane ferma, con i suoi segni millenari, non va in cerca, sa che non c’è altra vita. * L’assedio, la malattia, i tanti nomi usati per quelle poche azioni, mentre il vento spirava e portava via la voce dei feriti e dei moribondi. Il luogo del farsi male si pulirà con il cielo azzurro. Finirà l’assedio. * Non è persona, non è figura, è giorno. Non assomiglia agli uomini, ai loro trasalimenti, ma ben oltre le astrazioni, le parole neutre, i segnali anonimi, è lo spazio alto, incolore, è una fascia, infinita, vuota, imparagonabile a segni, a forme, è la fede, ma non quella benintesa tra Dio e gli uomini, bensì quella impercorribile, statica tra sera e sera. * Finita l’apparecchiatura umana con gli stimolanti, i veleni, rimane il prato come è sempre stato. Il perdente, arrivato con febbrili idee di conquista, è l’ultimo a lasciare il luogo: si fa il suo passo conforme al riposo degli animali, al maestoso silenzio dei boschi. * Non volano gli anni, è l’uomo che si affanna a misurare con il tempo i cambiamenti della carne, del cuore. Infinito dolore lo lega al paradiso perduto senza rimedio. Attimi di gioia, idea dell’eterno, invenzioni, appelli continui per contrastar la discesa. O abbandonarsi e rendere dolce la resa. da SILENZIO DELL’UNIVERSO (2000) […] Chi continua a smarrirsi nel fare, o parimenti si perde in seno alla natura, rimane nella fede. Ma oltre, lasciato l’amore, abbandonato ogni valore, escluso ogni fautore o mediatore, è luce, luce, luce, luce della Verità, luce del mattino. Il cuore sia il Creatore – non si perda in bontà o in amore. Il battito, la forma, la materia non siano altro che sé, non siano funzione o descrizione; siano solo quel che da sempre sono: la propria creazione. Ora non c’è preghiera pronunciabile, non c’è cura: nell’essere che non si rivela ritorni, dove è sempre stata, la creatura. Il niente dell’esistenza e della storia disveli l’immensa gloria. Prima di arrivare al proprio essere, ha fatto parte di silenziose esplosioni stellari, era niente ma ha distrutto, con un contatto minimo, una grande massa infuocata, è sempre stato invisibile, inavvertibile, ora si può dire: infinito. Non c’è spazio: procede intatta la creazione nella continuità, nella pienezza, tutto è indistinto niente. Niente, movimento assente. Inganna la natura quando promette il luogo della nascita o dell’amore: e quando, con la veemenza dell’istinto, porge salvezza al cuore. Invece, da sempre, si addensano i corpi neutri della creazione, ogni tratto va a comporsi nell’unione. Nell’unità si ricompone tutto il visibile, tutto il dicibile. Restano le differenze ma scompaiono, e non ci sono distanze di corpi o rilievi di costruzione, ma irrisori spostamenti nella creazione. Niente al di fuori di quello che è. Niente può uscire dal tutto, amore semplicemente è essere, essere parte di questo insieme. Non più vedere il flusso che si ricompone, ogni sostanza e presenza trovando compatta posizione; e nemmeno sentirsi dentro questo fluire a contatto con la varietà degli elementi, caduti tutti gli orientamenti, ma essere nel flusso, essere nel flusso. Quale storia delle imprese, o dei popoli! Non è storia quella delle azioni umane, non c’è indagine nella permanenza della creazione, l’unico decorso lo dà l’eternità. Non si distinguono nel presente, non restano in alcuna memoria atti, eventi: con i collegamenti e gli assidui contatti nel colmo dell’aria ogni cosa straripa, si perde nel vuoto delle forme, nel pieno infinito. Si direbbe avvolgimento o distesa sconfinata, o meglio pienezza, dove i movimenti, i rivolgimenti non sono che unica pura pienezza. Niente più si distingue, parola o cosa: eterno riposo riposa. |
Inviato da: chiaracarboni90
il 31/05/2011 alle 11:36