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IL SILENZIO DEL GOVERNO Non potranno dire di essere state dimenticate. Come si fa con un libro noioso o un oggetto messo da parte perché non ci piace. C’è una Calabria che non dimentica, reagisce agli appelli, e che, se cresce, può fare la differenza. Grazie all’iniziativa del Quotidiano, la “damnatio memoriae” è stata loro risparmiata. Il codice di mafia, che le vorrebbe vittime e carnefici, indissolubilmente legate alla “famiglia”, benché non abbiano mai potuto scegliere da che parte stare e quando l’hanno fatto sono state sopraffatte, per una volta è stato infranto. Considerato inaccettabile da ogni punto di vista. L’opinione pubblica ora sa la verità. Dimenticate no. Vittime di un destino cieco e funesto, questo sì. Quale dio, dea o vitello d’oro, potrà comparire al loro cospetto per spiegare la ragione di tanta sofferenza. Figurarsi le istituzione laiche, democratiche e vieppiù tecnocratiche. Preoccupato di spread e valori azionari - sempre badando a non calpestare i piedi alle potenti corporation che rappresentano l’ultima mostruosità del “capitale liquido” che vampirizza la politica - ma indifferente, rispetto all’umanità dolente delle donne contro la mafia, in questo Sud che più Sud non si può, lo Stato è come se non avesse parole. Afono su una questione che mina la qualità della democrazia non di una regione spesso giudicata colpevole prima del processo, ma di un Paese che è parte dell’Europa e in relazione ad un cancro ramificato nel mondo intero. Infatti, nessun ministro ha espresso un cenno di attenzione per Giuseppina, Maria Concetta e Lea. Tantissimi politici di primo piano hanno espresso solidarietà, ma gli inquilini di Palazzo Chigi hanno taciuto. Affaccendati in altre faccende, senz’altro. L’Italia li ringrazia per lo sforzo erculeo che prodigano per evitarle il destino greco, ma è anche vero che questo Stato per le tre donne, emblema di una reazione coraggiosa alla mafia ma anche di un Mezzogiorno sovraccaricato di emergenze sociali che rischia di scoppiare, è come se non avesse “cuore che gli batta in petto”. Suscita qualche riflessione questo silenzio verso donne costrette in un vicolo cieco in cui l’unico linguaggio è un codice violento e cacofonico. Ma qui, oggi e adesso, grazie al Quotidiano le tre donne le ricordiamo tutti e con loro ci sentiamo solidali. Non soltanto perché soggetti cruciali di un canovaccio raccontato in ogni foggia da storici ed esperti di mafia, ma perché loro, in un certo senso, sono una parte di noi stessi. Che il più delle volte non intendiamo neanche guardare, tant’è sconvolgente. Con cui evitiamo di fare i conti, perché ci spaventa. Queste tre donne sono lo specchio di una parte consistente della realtà in cui siamo immersi, nel bene e nel male. Sono parte dell’aria ammorbata che respiriamo; e se loro sono già finite nel cappio teso da una società diseguale e ingiusta, in fondo noi ci giriamo intorno. Sperando di farla franca. Lo sfioriamo quotidianamente quel cappio, e spesso lo scansiamo per un pelo. Per caso. O per la scaltrezza che discende dall’istinto di sopravvivenza che, per tenere a freno la coscienza, chiamiamo maturità. |
PONTE SI PONTE NO DUE TESI A CONFRONTO (IL QUOTIDIANO OTTOBRE 2011) di Romano Pitaro
Nonostante la contrazione economica, che stritola l’Occidente in una crisi più lancinante di quella del ’29, il crollo dell’occupazione, le violente oscillazioni delle borse e la cupa prospettiva “di due o più anni di ristagno economico globale”, i pontisti non arretrano di un millimetro. Tengono strette le loro convinzioni (che il prof. Bruno Sergi, con cognizione di causa, espone nell’intervista accanto) e s’entusiasmano all’idea che la campata unica di 3300 metri per l’attraversamento stabile delle “epiche sponde”, sbriciolerà il primato del ponte di Akashi Kaikyo in Giappone di soli 1991 metri. Noncuranti, peraltro, della messa in discussione di uno dei principali atout del ponte: l’essere il terminale del corridoio “Berlino-Palermo”. Corridoio però cancellato, salvo ripensamenti, dall’Unione europea. Infatti, nella proposta di bilancio “Europa 2020” inviata dalla Commissione Ue il 29 giugno all’Europarlamento, la geografia delle grandi infrastrutture è stata sobillata. E nelle priorità infrastrutturali, all’ex vecchio Corridoio 1 “Berlino-Palermo” subentra il nuovo Corridoio 5 “Helsinki- La Valletta”, che a Napoli vira verso Bari, salta la Calabria e la Sicilia e rende superfluo il Ponte. I pontisti hanno, naturalmente, tante frecce nella faretra, per spiegare che l’infrastruttura è “l’occasione del Sud”; benché quando il Governo e le grandi imprese ricorrono ad espressioni così altisonanti, al Mezzogiorno dovrebbe venire l’orticaria. D’altronde appare esagerato il dilemma, ventilato dagli oppositore, secondo cui il Ponte addirittura è alternativo allo sviluppo del Sud. In sintesi, per chi lo considera imprescindibile, il Ponte porterà benefici indiretti legati al turismo, alla mobilità ed all’ampliamento dell’occupazione. Ed a supporto di siffatte tesi, si sottolinea che il Ponte non incide sulle finanze pubbliche, oltre ad essere una priorità di politica economica. Questa panoplia di punti di forza (che il prof. Domenico Marino confuta qui a lato) fa impallidire il più ostinato dei detrattori di un’infrastruttura su cui si disputa dai tempi dei romani. Stupisce, in ogni modo, l’indifferenza con cui si procede nell’iter realizzativo del Ponte (per cui finora sono stati spesi all’incirca 500 milioni di euro) nonostante il sisma e lo tsunami alto dieci metri che hanno sconvolto l’11 marzo scorso il Giappone: la seconda potenza economica e tecnologica del mondo. Quella tragedia non ha incrinato la determinazione a costruire, tra la Calabria e la Sicilia, regioni appollaiate su un’area sismica dove nel 1908 un terremoto di magnitudo 7.2 ha provocato 100mila morti, quella che per alcuni sarà l’ottava meraviglia del pianeta ( quantunque la definizione sia improvvida, vista la fine che hanno fatto le altre sette) e per altri, viceversa, un’opera che avrebbe l’unico merito di collegare due deserti. Sembra cancellato dalla memoria quel 28 dicembre di poco più di un secolo addietro e dimenticati i versi della poetessa lombarda Ada Negri, che esortava a prestare soccorso: “Fratelli in Cristo/ destatevi dal sonno/ andate a soccorrere con leve e pale/ con pane e vesti. Nelle lontane terre dell’arsa Calabria crollano ponti e città/i fiumi arretrano il corso/sotto case travolte le creature sepolte vivono ancora/chissà. Batte la campana a stormo. Pietà fratelli, pietà”. I termini della vexata quaestio sono noti. Si sa chi il Ponte lo vuole e chi lo aborre. Ma se il confronto, da cui è necessario espungere le visioni apocalittiche, tra sostenitori e detrattori, su un’opera che ha avvinto persino zio Paperone ( in un numero di Topolino il simpatico spilorcio lo costruisce per far soldi, ma poi glielo portano via con dei palloncini) e di cui si discute da quando il console Lucio Cecilio Metello intendeva far passare i 140 elefanti sottratti al generale cartaginese Asdrubale, non può che far bene alla discussione, restano tuttora senza risposta alcuni precisi interrogativi. Ad incominciare (punto primo) da chi dovrà erogare materialmente i capitali necessari (da 6. 3 a 8.5 miliardi di euro) per la campata unica (da finire entro il 2017) lunga 3.300 metri, larga 60 e sostenuta da due piloni sui due versanti siciliano e calabrese. Se è in grado (punto secondo) un Paese disorientato e lentocratico come il nostro, che nel Sud ha un’autostrada in rifacimento da tempo immemorabile e il cui epilogo continua ad essere un mistero, aprire un cantiere così invasivo e chiuderlo in tempi record. Quando piuttosto è verosimile ritenere che ciò non avverrà. E che, invece, lo terrà aperto per un tempo insopportabilmente lungo, deturpando uno dei luoghi più suggestivi al mondo, per ricchezza naturalistica, storica e mitologica. Se (terzo punto) a conti fatti, non converrebbe, anziché spendere (ancora) cifre da capogiro per un’opera ardita e dagli esiti incerti, provvedere con sollecitudine a mettere in sicurezza il territorio di questa parte del Mezzogiorno a rischio frane e dissesto idrogeologico. Investendo sul risanamento delle coste e sul rilancio dell’entroterra abbandonato ad una desertificazione sociale galoppante, in cui s’insediano agevolmente, alla faccia dei cultori della democrazia liberale e dello Stato di diritto, la speculazione economica più spregiudicata e la criminalità organizzata.
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Enzo Ciconte “Banditi e briganti” Rivolta continua dal cinquecento all’ottocento Rubbettino pagg 191 euro 18
LA ‘NDRANGHETA NON E’ FIGLIA DEI BRIGANTI
di Romano Pitaro Apparentemente, un titolo distensivo. Un libro, “Banditi e briganti”, che un nonno può mettersi sulle ginocchia, per leggere al nipotino storie d’avventure nei boschi, di cui quelle canaglie erano padroni, e vendette truculente, imprese di uomini tosti, come re Marcone e Ninco Nanco, e leggende di donne arcigne che seguivano i loro uomini alla macchia. Un libro (Rubbettino editore) da regalare per Natale, che si fregia di meravigliose xilografie, stampe e degli acquarelli di Pinelli e d’altri autori che ritraggono i “filibustieri di terra”, li apostrofava così Stendhal, in pose eroiche; o mentre, dopo il consueto tradimento, rendono l’anima impiccati, squartati, fucilati e decollati. Libro che evoca fatti d’altri tempi, dal Cinquecento all’Ottocento, fattacci di sangue sì, ma che non spaventano più, e che, inanellati con maestria e confrontati ai pirati della Tortuga, sembra quasi che non vogliano disturbare la serenità del lettore. Solo apparentemente però. Perché lo storico della criminalità organizzata Enzo Ciconte, autore di una sfilza di volumi che investigano tra i misteri delle mafie, forse non ha messo nel conto il rischio d’infilarsi in un “malu passu”. Di cacciarsi in un guazzabuglio di polemiche. O lo sa troppo bene. E gli piace prendersi una pausa dagli studi sulla ‘ndrangheta, ora messa a soqquadro dalle inchieste “Crimine” e “Infinito”, e vedere chi, come e perché mangerà l’esca sul brigantaggio. Perché certe questioni non si possono dimenticare. Lo sguardo può essere equidistante su torti di secoli fa, ma alla condizione che siano stati, come un lutto, elaborati. E le parti in causa se ne siano fatti una ragione. Insomma, che una pacificazione storica sia intervenuta. Ma se il filo che lega banditismo, brigantaggio e disagio sociale dell’Italia dei nostri giorni con il Sud stritolato dalle mafie, non è mai stato spezzato. Anzi, se l’impressione è che l’eco della violenza esercitata sul Mezzogiorno, che lo privò di colpo di un’intera generazione di uomini e l’impoverì in ogni fibra soprattutto nei dodici anni post unitari, tuttora perduri, allora il discorso è tutt’altro che una fiaba natalizia. Pone interrogativi brucianti. Mica si può scordare che Nino Bixio, imperversando nel Meridione, andava dicendo che “al Sud i nemici non basta ucciderli, bisogna straziarli, bruciarli vivi a fuoco lento. E’ un paese che bisogna distruggere o almeno spopolare, mandarli in Africa a farsi civili”. Come si può scordare, mentre il Sud recrimina sulle ingiustizie economiche che l’Unità “fatta a mano armata”, come direbbe Pino Aprile, gli riservò dopo avergli sottratto il futuro e costretto le generazioni successive ad una fuga senza ritorno, che circa un milione di meridionali sono stati sterminati da quella guerra d’occupazione? Come dimenticare che la “conquista del Sud” procedette con stragi (Pontelandolfo è il simbolo di una rappresaglia nazista), esecuzioni in massa, donne stuprate, borghi incendiati, bambini uccisi, teste mozzate e issate sulle pertiche? Non basta asserire, a suggello del terzo giubileo dell’Unità, che l’Italia è “una ed invisibile”. Non per mettere in dubbio il valore dell’Unità ormai irreversibile, ma per far dimenticare ai meridionali le pene d’inferno sopportare quando le truppe guidate dal generale Cialdini misero a ferro e fuoco le case di un popolo recalcitrante al tricolore. Ci sarebbe stato bisogno di gesti di pacificazione coraggiosi. Per dire: i resti del brigante Gasbarrone, che campeggia con sguardo cupo nella bella copertina del libro, sono ancora esposti a Torino nel museo degli orrori “Cesare Lombroso”. Nessuno s’è degnato di restituirli al suo paese natio per una dignitosa sepoltura. Le conseguenze di quei soprusi, e il modello economico del nascente Stato unitario, che dopo aver rapinato quest’area del Paese puntò, con studiata strategia, sullo sviluppo del Nord, curando di fare del Sud un deserto civile e dei suoi cittadini degli emigranti costretti ad un’infinita diaspora ed a salvare i bilanci dello Stato con le loro rimesse, sono ferite aperte. Perché quando il popolo meridionale sente di non avere alcun peso specifico nell’agenda dei governi ed ascolta le invettive della Lega contro il Sud sprecone, s’accende di un’intemperanza che può traboccare. Col rischio che nelle sue viscere torni a prendere forma la protesta inconsulta ed il desiderio di “nuovi briganti”, come auspica il giornalista Lino Patruno in “Fuoco del Sud”. Altro che titolo distaccato quello di Ciconte. Nel premettere che intende descrivere soltanto il fenomeno del brigantaggio, per differenziarlo dal banditismo, ravviva un vulcano di risentimenti. Di quelli che esortano gli storici a modificare alcune valutazioni pregiudiziali, le case editrici a rivedere omissioni poderose nei testi di storia in uso nelle scuole e i politici a fare i conti con un passato che non è mai passato. Dodici anni di guerra civile o sociale per altri, ma sempre anni di furiosa repressione, ridanno freschezza a quella canzone scoppiettante di Eugenio Bennato: “Ommo se nasce, brigante se more/ma fino all’ultimo avimma spara’/ e se murimmo menate nu fiore/ e na bestemmia pe sta libertà”. E, anche grazie a questo nuovo approfondimento, ci invitano a non cedere alle semplificazioni. Asserire che la ’ndrangheta non è figlia del brigantaggio, per la verità è poco. Perché se pensiamo che la
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Un brillante saggio di Luigi Pandolfi inchioda i leghisti alle loro irresponsabilità democratiche (AGOSTO 2011) LA LEGA NORD UNO SCANDALO EUROPEO di Romano Pitaro La Lega Nord? Un mostro! La pietra dello scandalo della nostra democrazia. Il giudizio è tagliente. Così però si rischia di non capire chi e perché ha dato forza alla Lega in tutti questi anni. E’ germogliata in un Paese frastornato. Che, dopo lo smottamento della prima Repubblica, è ancora diviso in due. E non è stata colpa della Lega. Un Paese che non cresce. E calpesta il futuro di un’intera generazione di giovani. “La Lega Nord, un paradosso italiano in cinque punti e mezzo” ( il mezzo indica il federalismo hard): è il titolo del saggio di Luigi Pandolfi, intellettuale calabrese e uomo di sinistra. Ecco i tratti peculiari di un partito paradossale: la Lega, che una volta ce l’aveva duro. Quando moltissimi ritenevano che avrebbe umanizzato le istituzioni. Quando, lo ricorda Corrado Stajano nel “Disordine”, la votavano “schizzinosi banchieri, imprenditori, immobiliaristi, architetti di fama, giornalisti”. Tutto questo prima del botto di maggio. Una rasoiata. La Padania immaginifica s’è volatilizzata. E al raduno di Pontida i capataz verdi sono apparsi melliflui. Come un piccolo partito della prima repubblica, che ancora si ascolta perché i suoi voti pesano. E’ l’assunto del pamphlet di Pandolfi che suscita perplessità: “In qualsiasi alto paese civile e democratico del mondo, un partito come la Lega Nord sarebbe stato confinato ai margini del sistema politico”. Non è condivisibile, perché la Lega non è un mostro uscito dai tombini. Mostro sì: lo storico Enzo Ciconte in “Ndrangheta Padania”, spiega che “Nell’ultimo quindicennio la ‘ndrangheta ha conteso alla Lega il controllo del territorio padano. Esattamente nelle stesse località dove c’è un forte insediamento della Lega la ‘ndrangheta gestisce potere, agisce economicamente, fa investimenti, ha una presenza politica”. Senza dimenticare le aspirazioni di Miglio a costituzionalizzare la mafia. Sbolliti gli entusiasmi mal riposti, la Lega però è figlia di quest’Italia. Che l’ha vezzeggiato invece di sorvegliarlo. Investita da mutamenti profondi, figliati dalla globalizzazione, all’inizio dei ’90 è esplosa la fuga nel particolare e l’attenzione esclusiva al proprio vissuto individuale. La Lega nasce quando un Paese scosso, si convince che conta solo il mercato e l’arricchimento. In spregio alle regole ed ai controlli. Per capirla, e capire le oscurità italiane irrisolte, non va demonizzata. L’assunto sulla sua impresentabilità, deve confrontarsi con i guasti della realtà italiana. Pandolfi fa una ricognizione seria sul fenomeno leghista fin dalla sua comparsa; e offre un’interessante comparazione delle “sparate” dei vari dirigenti con quelle del Front Nazional di Le Pen, del Vlaams Blok, il partito nazionalista fiammingo, il Pro-Koln, l’ultradestra tedesca, e il movimento slavista russo di Vladimir Zhirinowsky. Il partito personale di Bossi, documenti alla mano, è a destra delle più estreme. Nel suo profilo identitario c’è l’odio verso l’Islam e la ricerca di unità d’intenti con l’inquietante accolita di razzisti di tutta Europa. Cinque le performance che la rendono un unicum. La sua appartenenza alla famiglia delle destre anticostituzionali; l’insopportabile contraddizione sull’immigrazione: parte essenziale dell’economia del Nord, ma oggetto di spregevole acrimonia da parte dei Leghisti; il contrasto evidente tra i suoi obiettivi e gli interessi nazionali; il suo richiamo alla legalità ed invece la realtà di compromissioni romane che l’hanno vista sostenere persino la legge sulle rogatorie, con cui s’ impedisce alla giustizia di avvalersi di prove preziose, e quella sull’abolizione del reato di falso in bilancio. Ultimo: il familismo amorale, i parenti del capo piazzati nelle Istituzioni e una serie di posizioni che stridono col suo “Roma ladrona!” Fenomeno reazionario, d’accordo. Ma c’è bisogno anche di un altro sguardo Anzitutto è stata, in un Paese esausto, uno dei tre fenomeni nuovi emersi con la fine della prima repubblica. E’ vero che Bossi, dopo avere intascato una tangente da Enimont, ha fatto giusto in tempo a sedersi in Parlamento dalla parte dei giustizialisti col cappio, ma è innegabile che abbia rappresentato la speranza di riformare la politica. Dopo il crollo della prima repubblica, nell’Italia ingessata in un sistema gerontocratico, partitocratico e clientocratico, nascono, a destra, il fenomeno leghista e il berlusconismo prima maniera, premiato elettoralmente perché si riteneva potesse spezzare l’ assetto della politica dominato da un gruppo ristretto di politici a vita e riformare, con più merito e più concorrenza, un capitalismo di relazioni ancora oggi vivo e vegeto. La Lega come reazione al non rinnovamento della classe dirigente di un Paese ancora tutto da riformare, come denuncia l’ex governatore Draghi nelle sue “Considerazioni finali”. In Spagna in 30 anni di democrazia sono stati consumati quattro leader prestigiosi; in Francia nella V Repubblica si è avuto il gollismo, il mitterandisimo ed il sarcosismo; in Germania: Khol, Schroeder e Merkel e in Inghilterra dopo la Thatcher, Major, Blair e Gordon Bown. La seconda Repubblica italiana, viceversa, ha ereditato i guasti della prima e ne ha aggiunto altri. Nello sclerotizzato sistema politico la Lega, spiega Ilvo Diamanti, ha favorito l’accesso di categorie divenute periferiche nei partiti di massa. Il leghismo e il berlusconismo hanno introdotto linguaggi nuovi, un stile diretto. Rispetto a tutto ciò, l’esperimento prodiano è parso come una reazione difensiva. A distanza della caduta della prima repubblica, dopo il crollo dell’esperimento dei sindaci eletti direttamente, sopravvive il vizio nazionale, che prescinde dalla destra e dalla sinistra, all’autoriproduzione delle classi dirigenti. Siamo una società vecchia, corporativa e localista. Che quando non sa come spiegare l’immobilismo corporativo, dà in pasto all’opinione pubblica l’idea falsa di un Mezzogiorno zavorra del Paese. La lezione che si coglie, è che la politica, di cui la Lega è parte, in fondo riproduce ed enfatizza i limiti di un Paese disunito nei fatti. La sconfitta della Lega è sancita nelle “Considerazioni” di Draghi (i sette nodi) e dalle rivoluzioni sulla sponda Sud del Mediterraneo, che hanno messa a nudo la natura della Lega: spaccona e minacciosa a parole. Ma impotente a governare la complessità. Piccoli leader arroganti con i deboli e ossequiosi con i potenti. Se però ora non la contestualizziamo, rischiamo di illuderci che a bonificare la ”gigantesca palude” che è diventata l’Italia, possano riuscirci un’opposizione litigiosa e una sinistra che, nonostante i traumi storici, non ha prodotto novità. Ancora oggi non siamo in grado di consentire l’accesso nella politica e nelle istituzioni di componenti nuove; né di applicare seriamente le quote rosa e quelle verdi (l’inserimento di giovani al di sotto dei 35 anni); né di dare il diritto di voto ai sedicenni ed agli immigrati. Uno come Obama, da noi farebbe la fila nello studio di Rutelli, D’Alema, Casini. Tuttavia ciò che più avvince il dibattito sui media è se Berlusconi lascia e chi sarà il candidato premier tra Bersani e Vendola. Invece dobbiamo interrogarci su come rendere possibile, prima che si verifichino fratture e ribellioni, che le donne ed i giovani diventino protagonisti. Il libro di Pandolfi è un ottimo incipit, per capire com’è stato possibile che un Paese nato dal Risorgimento, dalla Liberazione e dalla Costituzione, si sia affidato per così tanto tempo a un politico come Bossi che una volta disse: “Con il tricolore mi ci pulisco il culo!”. Fortuna che c’era un giudice a Cantù che lo condannò a un anno e quattro mesi; quando parte dell’opinione pubblica, sinistra inclusa, lo riteneva “uomo nuovo”, la cui carica eversiva poteva far saltare il tavolo di un potere chiuso.
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