Creato da: ruconcon il 25/07/2005
Sul ritmo della pachanga i ricordi di un giovane 'rivoluzionario'

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Il dovere del rivoluzionario…

Post n°8 pubblicato il 31 Agosto 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

Arriva il Comandante Fidel Castro Ruz e lo posso vedere da vicino. In divisa militare verde-oliva, i gradi sono solo le losanghe rosso-nere del Movimento 26/7; un bell’uomo alto e robusto, penso che Garibaldi sarà stato così. Emana un fascino notevole, tutto particolare per noi giovani che gli siamo attorno anche perché è pure lui un giovane, a 33 anni è il più giovane capo di governo che ci sia mai stato. Chissà perché porta due orologi, ad entrambi i polsi? Particolare irrilevante, adesso inizia a parlare; sono le nove di sera e continuerà per quattro ore (è arrivato anche a sei) ma non ci si stanca di sentirlo: concetti chiari e sempre svolti e spiegati con ordine, parole semplici o rese ben comprensibili, oratoria affascinante. Questa sera vuole istruire i giovani latino americani, agli altri rivolge uno svelto cenno di saluto. I compagni vicini si accorgono che ho una buona facilità di comprendere il Castillano e ai passaggi più applauditi mi si rivolgono – che ha detto? – e quindi mi tocca seguire con attenzione per fare una sintesi e tradurre.
Beatrice, capace di tenere tutto in ordine, mi ha trovato nella scatola delle foto di famiglia un pacco di fotografie e carte varie di Cuba. Ci ritrovo dei ritagli dei giornali socialisti di Novara, con articoli miei, e di Mantova, con articoli del compagno Guizzardi, coi quali posso integrare i ricordi del memorabile discorso. Il centro del ragionamento è che non si può attendere che si verifichino tutte le condizioni per la rivoluzione, è lo stesso fuoco insurrezionale che può crearle. A Cuba non erano presenti le condizioni che i politici pseudo-rivoluzionari definiscono necessarie allo scoppio di una rivoluzione e tanto meno alla sua vittoria. Usa il termine pseudo-rivoluzionari come riferimento preciso; molti Paesi latino americani erano, infatti, governati da partiti ‘rivoluzionari’ nel nome e lo stesso Castro iniziò l’attività politica militando nel Partido Revolucionario ‘Ortodoxo’, che si contrapponeva a quello ‘Autentico’. “Eppure a Cuba”, ricorda Castro, “in pochi coraggiosi abbiamo iniziato la rivoluzione, abbiamo attaccato la dittatura; altri, sempre più numerosi ci hanno seguito, hanno combattuto e vinto con noi”. Passa all’analisi socio-politica: nell’America sottosviluppata il terreno della lotta armata deve essere fondamentalmente la campagna
. Segue però l’ammonizione: “Il rivoluzionario non deve fermarsi alle indagini sociali, ai problemi economici, né stare a discutere con chi allearsi, a valutare le forze che all’inizio saranno sempre inferiori a quelle del potere dominante”. E poi il richiamo alla dura realtà, “la Rivoluzione non può arretrare per timore del sangue che sarà sparso, della violenza e della morte che saranno subite ed inflitte”. Da parte USA sarà poi citata, come prova della volontà di Fidel Castro di esportare la rivoluzione cubana, l’esortazione “Per conseguire un reale progresso economico e sociale è necessario abbattere i privilegi, liberare l’America Latina dall’imperialismo yanqui, cacciare i governi ad esso sottomessi”. Il messaggio è indubbiamente chiaro: “andate e fate la rivoluzione nel vostro Paese; potrete vincere o morire, ma questo solo è il vostro dovere – se siete rivoluzionari”.
“Il dovere del rivoluzionario è uno solo: fare la rivoluzione”. Quattro ore di discorso si riassumono in questa frase.

 

 
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Entusiasmo rivoluzionario

Post n°7 pubblicato il 30 Agosto 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

Fine luglio 1960 all’Avana. In coincidenza con la seconda celebrazione dell’assalto al Moncada si è tenuto il congresso della gioventù latino-americana, organizzato da Cuba. La Federazione Mondiale della Gioventù, con sede a Praga, decide di inserirsi ed invia rappresentanti europei ed orientali. L’aereo, cubano, casualmente (?) ritarda l’arrivo a Ginevra e ci porta all’Avana a congresso ultimato. La delegazione italiana, tra le più nutrite, comprende otto comunisti e quattro socialisti; io sono tra quest’ultimi. Ho 23 anni.

E’ il primo approccio della sinistra verso la rivoluzione cubana; per sostenerla -  credevo allora - o per inglobarla nel sistema comunista e controllarne l’allargamento, per imitazione, al continente sudamericano, come mi suggerisce il senno critico del poi? Qualcuno ha scritto che un ventenne deve essere rivoluzionario, sennò non sarebbe veramente giovane. Io ero giovane e mi sentivo rivoluzionario, come mi aveva insegnato il compagno Alberto Jacometti: noi socialisti siamo rivoluzionari perché vogliamo abbattere il capitalismo e cambiare la società, ma la rivoluzione non implica lotta armata e tanto meno dittatura, socialismo e democrazia sono inscindibili; il marxismo è la base teorica della lotta rivoluzionaria e il leninismo invece mira solo alla conquista del potere del partito comunista.

L’età giovane può giustificare il non saper vedere, o essere attenuante della colpa di non aver voluto capire? Perché l’entusiasmo rivoluzionario non consente di sviluppare l’analisi dei punti critici percepiti? Ma è giusto così e non è possibile diversamente; l’analisi vuole calma, distacco, freddezza e la giovinezza è invece calore, passione, sentimento, magari anche dolore. Chi nota tutti i difetti della persona amata e li pesa e li giudica, non è giovane, o non è davvero innamorato.

L’atto conclusivo del congresso si svolge in un grande stadio da baseball; Fidel Castro pronuncerà il discorso di chiusura. Entriamo in sfilata nello stadio, con le bandiere come nelle cerimonie olimpiche. Mi viene di salutare verso il pubblico e la telecamera alzando con passione il pugno chiuso; solo gli italiani mi imitano, ai giovani dei Paesi comunisti sarà stato raccomandato di non fare sfoggio ideologico. Sulla faccia degli spettatori cubani vicini vedo un’espressione interrogativa. Con la patetica commozione del ricordo giovanile posso vantarmi di aver per la prima volta a Cuba alzato il segno di saluto rivoluzionario, là ancora sconosciuto.

Sul terreno di gioco sono collocati il podio per l’oratore e una tribuna per gli invitati, noi, i rappresentanti della gioventù di tutto il mondo unita a sostegno della rivoluzione cubana! Questo è il sentimento che provo, e non mi sfiora alcuno sforzo di analisi.

 
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26 de julio

Post n°6 pubblicato il 29 Agosto 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

Cercando qualcosa ho notato che il giorno in cui ho fatto il download della Pachanga era il 26 luglio, massima ricorrenza rivoluzionaria a Cuba.  
E mi sono di nuovo commosso.

Dal 1952 Cuba era sotto il regime militare del dittatore Batista, ex sergente dell’esercito auto-promosso colonnello. Il 26 luglio 1953 un gruppo di armati, organizzati da Fidel Castro, tentò l’assalto ad una caserma di Santiago, il Cuartel Moncada. Molti morirono; per tutti gli altri, catturati, si attendevano condanne a morte. L’autodifesa di Castro La Historia me absolverà divenne il manifesto politico della sua azione rivoluzionaria. La data 26/7 divenne il nome del suo movimento politico.
La sentenza fu invece di 15 anni di carcere, amnistiati due anni dopo.
Nel trattamento particolarmente clemente qualcuno vide l’intervento, oltre che della borghesia locale (la famiglia di Castro era proprietaria latifondista), anche di ambienti democratici statunitensi, in particolare della Massoneria, alla quale Castro pare fosse affiliato. Il fatto non deve stupire: tutta la tensione rivoluzionaria vissuta nel Caribe dall’800, la classe dirigente e le strutture di governo di quei Paesi - notare alcune bandiere - furono di ispirazione massonica, così come nella storia degli Stati Uniti. All’Avana è oggi ancora attiva una Loggia.
Non ho l’intenzione di riassumere notizie ampiamente riportate su tanti testi storico-biografici. Voglio però fare qualche notazione.
La rivoluzione cubana non fu un episodio da film; i morti furono decine di migliaia. Alla prima fase di guerrilla condotta da pochi uomini mal armati, che colpivano bersagli limitati e sparivano, seguì una guerra di colonne militari dell’Ejercito Rebelde i cui obiettivi erano città ed intere province da conquistare. Questo grazie alla politica seguita da Castro. Da un lato si guadagnò l’appoggio morale, ma anche economico, della borghesia cittadina alla quale seppe proporre l’ideale di libertà e la prospettiva d’indipendenza dal potere economico yanqui. I combattenti affluirono però prevalentemente dalla campagna; ai campesinos - in maggior parte braccianti, impiegati solo per pochi mesi l’anno nel massacrante lavoro della zafra, il taglio della canna da zucchero - fu promessa la proprietà della terra. 
I combattenti rivoluzionari furono chiamati Barbudos, poiché avevano giurato di non radersi la barba finché Cuba non fosse liberata. Fidel non l’ha più tagliata, a significare che la costruzione rivoluzionaria non è mai ultimata. Un anticastrista direbbe invece che è perché Cuba non è ancora libera. Il che è purtroppo vero.

Memoria visiva: un villaggio, poche case di legno ed una tienda, tutte sullo stesso lato di una strada sterrata, ripida verso la Sierra. Di fronte un grande albero (non so come, ricordo che è una ceiba, ma Bea direbbe che m’invento i nomi delle piante). Da due rami, a destra e sinistra, pendono pezzi arrugginiti di filo di ferro. Il negoziante della tienda racconta che da una parte furono pendidos alcuni barbudos presi sui monti attorno; i fili dell’altro ramo servirono per i militi batistiani qualche mese dopo. Non conto il numero dei fili, ad occhio mi sembrano pari. Mi rimane il dubbio semantico, se pendido significhi impiccato o appeso.

Quel che dicevo dei campesinos mi desta un lampo di memoria: il capo delegazione cinese che spiega alla Brigata Internazionale di Lavoro Volontario come nel suo Paese la rivoluzione fosse fatta dai contadini, perché essi sono la forza della Cina e la guida nell’edificazione del comunismo; l’accompagnatore cubano che assente ed afferma che anche la sua è rivoluzione di contadini.
A pochi decenni di distanza, la Cina vive uno sviluppo economico ipercapitalistico che emargina i contadini e Cuba è ben avviata a tornare ad essere l’isola di turismo e prostituzione. Si ritrovassero i due, potrebbero ancora vantare la funzione rivoluzionaria della classe lavoratrice delle loro campagne?

 

 

 
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Camilo Cienfuegos

Post n°5 pubblicato il 29 Agosto 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

Nel luglio ’60 – un anno e mezzo soltanto dopo la presa di potere di Castro – ero in visita turistica al castello de La Cabana all’Avana, che al momento in parte fungeva da carcere, e da un bastione m’indicarono tra i prigionieri nell’ora d’aria in cortile tale Huber Matos, un comandante rivoluzionario che aveva minacciato di opporsi a Castro. L’accompagnatore voleva segnalare l’equanimità del Comandante in Capo nel risparmiare la vita al traditore. Dopo ventidue anni di carcere Matos poté espatriare, ed è tuttora vivente. Il suo nome non è riportato nella storia cubana, neppure in negativo. Semplicemente: cancellato, così come quello del Comandante Carlos Franqui.

Un altro comandante rivoluzionario, Camilo Cienfuegos, morì in uno strano incidente aereo già nell’ottobre 1959, poco dopo l’arresto di Matos. Sentii commentare che con la sua larga popolarità era secondo solo a Fidel e che avrebbe potuto essere un grande governante rivoluzionario.

La morte gli ha consentito di non essere cancellato dalla memoria cubana: al suo nome fu intitolata la prima scuola rurale, costruita ai piedi della Sierra Maestra con l’aiuto della Brigata Internazionale di Lavoro Volontario e la mia modesta partecipazione.

 

 
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Post N° 3

Post n°3 pubblicato il 29 Luglio 2005 da ruconcon
Foto di ruconcon

L'italiano eroe del Granma

Avevo notato sul battello Granma la targa recante i nomi dei primi compagni di Fidel Castro, tra i quali un nominativo italiano; con l’intenzione di ricavarne un qualche orgoglio nazionalistico ne chiesi notizie agli accompagnatori, che sapevano ben illustrare tutti i fatti ed avvenimenti della rivoluzione: nessuno ne sapeva niente. Il tono infastidito della risposta era dubitativo, vuoi dell’esistenza del personaggio, vuoi dello scopo della mia domanda. Lasciai stare l’argomento.

Eppure l’italiano c’era, pochi anni fa lessi sul Corriere della Sera un articolo-intervista del giornalista Chierici sulla vita di un italiano, un veneto che era stato partigiano e nel dopoguerra era emigrato in America; in Messico aveva conosciuto Fidel Castro e si era unito alla sua spedizione. Fu tra i dodici sopravvissuti allo sbarco e pare che il Che dovesse la vita all’italiano. Entrato in clandestinità fu inviato negli Stati Uniti per ricercare aiuti e finanziamenti. Al trionfo della rivoluzione non rientrò a Cuba, perché aveva trovato lavoro e una nuova moglie a New York, e scomparve dalla memoria ufficiale.

Trovo l’articolo – pubblicato il 19.8.2001 – ma non posso entrare nell’archivio del Corriere. Tento allora una ricerca per trovare i nomi degli expedicionarios del Granma, con esito negativo e sconcertante: a Cuba nessun documento accessibile via Internet riporta i nomi degli 82 eroi. Chissà se almeno sul Granma c’è ancora la targa?

Un sito messicano ricorda che della spedizione, assieme a cubani, fecero parte l’argentino Guevara, un messicano e l’italiano Gino Donné. Da una biografia italiana del Che ho la conferma che, dopo lo scontro seguito allo sbarco, ‘tra i superstiti c'è pure Gino Donne Paro, un ex partigiano italiano che da Cuba si era unito al drappello rivoluzionario in Messico: riesce a arrivare a Santa Clara per partire alcuni mesi dopo alla volta degli Stati Uniti’.

Grazie ad Internet ho finalmente trovato il nome dell’italiano e, dopo tanti anni, posso mentalmente rendere onore a questo nostro eroico compatriota.

ruconcon@libero.it

 
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Cuba 1960. La memoria rivoluzionaria

Post n°2 pubblicato il 27 Luglio 2005 da ruconcon

La Pachanga era in gran voga nella Provincia di Oriente, Cuba, alla fine degli anni ’50, gli anni della Rivoluzione castrista. I combattenti, scesi dalla Sierra Maestra, si mossero ad occidente, verso L’Avana, conquistando gradualmente territorio e città. Le radio locali delle città liberate giocarono un ruolo propagandistico notevole, trasmettendo con la sigla FIEL ‘Frente Independiente Emisoras Libres’ e lo slogan ‘FIEL a Cuba, fiel (fedele) a la Revolucion’ ripetuto ad ogni annuncio. La Pachanga era trasmessa da tutte le radio FIEL; un semplice motivo popolare diventava la musica della Rivoluzione. Non un inno patriottico, come fu la Marsigliese, rivolto ad eccitare lo spirito combattente, ma un ritmo gioioso, una canzone, una danza; da ascoltare, cantare e ballare dopo la battaglia. Magari senza fiati ed altri strumenti musicali e con una cassa ed una latta al posto di timbal e maracas.

Alla conquista dell’Avana (1° gennaio 1959) era il più popolare ritmo di musica nazionale. Nel 1960 lo era ancora, con emozione d’onda musicale portata dalla Rivoluzione.

Nel 1998, invece, nei negozi di dischi dell’Avana non ne trovai copia, né alcuna traccia nella memoria delle persone interpellate; solo un anziano elemento di un complessino musicale se ne ricordava, ma poi non si combinò per eseguirla. In tutto il mondo, i motivi musicali passano di moda, ma a Cuba la musica è vita, è cultura che conserva precisa traccia delle evoluzioni avvenute da oltre un secolo; non proprio di tutte, però.

Oggi sui siti cubani di musica non trovo citazione della Pachanga.

Il buco è conseguenza dell’esodo verso gli Stati Uniti, prodotto dall’instaurarsi del regime comunista, dei gusanos - vermi - i dissidenti (o semplice gente che pensava a campare), compresi tanti musicisti. E’ stato in pratica cancellato dalla memoria musicale collettiva, così importante per i cubani, quanto è legato ai gusanos.

Il fatto mi suscita un’impressione sgradevole, come quella che incontrai a Cuba già nel 1960 in casi affatto diversi. 

Se a qualcuno interessa, domani proseguo.

ruconcon@libero.it

 
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Post N° 1

Post n°1 pubblicato il 25 Luglio 2005 da ruconcon

La memoria.

Señores que Pachanga !

que rica la Pachanga

me gusta la Pachanga...

Ogni tanto mi suona in testa il ritornello della musichetta sentita (cantata? ma se sono così negato…) tanti anni fa a Cuba. E’ strano, perché la regola per me è di dimenticare subito anche il titolo, non solo il motivo musicale, di qualsiasi canzone ascoltata; invece la Pachanga me la ricordo benissimo, anche se è fin dal 1960 - ben 45 anni - che non mi capita di risentirla.

Voglio provare se ne trovo traccia su Internet. Già il primo tentativo di ricerca è un successo: commenti e riferimenti storiografici, un disco in vendita da Amazon. Sto per ordinarlo; ma se poi non è quello? Tento allora una ricerca sull’archivio da scaricare gratuitamente. Trovo diversi titoli, ne seleziono uno. Ci vuole tempo ma alla fine ‘download completed’ e provo ad aprire il file.

E’ proprio quella, è la Pachanga! E mi commuovo.

Sul ritmo della Pachanga mi vengono in mente tanti ricordi di quella che posso chiamare la mia avventura cubana. Luoghi, persone, avvenimenti ai quali da tanto tempo non riandavo e che adesso mi ritornano confusi, senza nostalgia né rammarico. Direi anzi che mi risvegliano una certa fierezza per il mio vissuto, anche se non ho da vantare eroismi, atti di coraggio o particolari valorosi: appartengo ad una generazione che non ha fatto la guerra né la Resistenza, perché bambina, e non ha partecipato al ’68 perché adulta. Ho però assistito e – mi lascio un poco andare – anche contribuito all’attestarsi di un evento storico del XX Secolo, la Rivoluzione cubana. Sia chiaro, un contributo minimo, quel granellino che ogni uomo dovrebbe portare perché i suoi ideali si affermino e consentano il divenire della Storia. A confronto di quel che ho dato, penso di aver ricavato un beneficio personale ben superiore: maturazione intellettuale e sentimentale, definizione di un orizzonte politico, inclinazione al dubbio ed al confronto – con la tendenza alla verifica delle ragioni di entusiasmo. Ma soprattutto la ferma fiducia in un mondo migliore.

Forse potrei raccontare le mie dieci settimane vissute a Cuba, scriverne una memoria; con la speranza che qualche nipote la legga, superi lo stile di scrittura burocratico acquisito negli anni di lavoro ed alla fine riesca a non confondere Che Guevara con un cantante. Non sarebbe un lavoro facile, anche perché non dispongo di un diario, che non ho mai voluto tenere, né di appunti dell’epoca; ricordo di aver conservato da qualche parte solo un foglietto su un incontro con Guevara. Grazie ad Internet potrei però fare delle verifiche storiche – ad esempio, non ricordo se in quell’anno era già Kennedy il Presidente USA – rintracciare riferimenti e trovare immagini per illustrare il testo ed alleggerirlo.

Avrei poi tutta la libertà di tempo che voglio, e nessuna scadenza.

 

 
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