http://ricerca.gelocal.it/iltirreno/archivio/iltirreno/2013/03/03/LV_10_3.html Caso Marcucci e Lorenzini: articolo di gianfranco borrelli
L’autopsia mai fatta i resti dell’aereo distrutti
03 marzo 2013 — pagina 10 sezione: Viareggio
di Gianfranco Borrelli Una domenica di sole, di quelle che capitano anche d'inverno. Fredde ma secche, che si prende la scossa se hai le scarpe con le suole di gomma e che sono proverbiali per il rischio incendi. Per questo motivo quella mattina del 2 febbraio il Piper del servizio antincendi della Regione si alzò in volo per controllare il fumo che saliva al cielo da Campocecina. Per questo motivo ricordo il contrasto con la giornata di pioggia di quattro giorni dopo quando andai a cercare il tecnico dell'obitorio. «Vallo a sentire, vedrai ti dirà cose che per un giornalista sono interessanti», furono il suggerimento e l'invito di Mario Ciancarella, l'amico e collega nell'Aeronautica militare di Sandro Marcucci, morto in quel Piper precipitato nei boschi sopra Carrara. Lui dubitava dell'incidente e io però non avevo altre notizie che potessero spiegare la disgrazia in modo diverso da un colpo di vento o una manovra errata. In fondo nel frullatore della vita poteva anche essere una coincidenza che pochi giorni prima Sandro Marcucci avesse rivolto, da un'intervista al nostro giornale, un atto di accusa ai vertici dell'Aeronautica sulla vicenda di Ustica. E del resto proprio in quei giorni il caso era tornato prepotentemente alla ribalta per le indagini del giudice Priore mentre il settimanale l'Europeo si era attirato l'ira dei vertici dell'arma azzurra raccontando di una serie di morti oscure, con vittime testimoni o persone collegate alla caduta del Dc 9 dell'Itavia. Insomma, non ero molto convinto che davvero vi fosse qualcosa da scoprire. E quindi un bagaglio di disincanto mi aveva accompagnato lungo la strada e le pozzanghere che portavano alla camera mortuaria dell'ospedale. Di Franco Rebecchi, il tecnico dell'obitorio che si "prese cura" dei resti di Sandro Marcucci, ricordo poco. Del resto ventun anni non sono proprio un amen. Affiora alla memoria un uomo magro, poco loquace, un po' ruvido e forse disturbato per un'innata riservatezza dal dover parlare con un giornalista. Ma le sue parole, le sue osservazioni, i dubbi su quel che aveva constatato furono netti. Proprio non gli tornava l'odore di olio bruciato che aveva avvertito appena a contatto del corpo di Marcucci: non si spiegava con il carburante che brucia. Né si spiegava, se non con un'esplosione, come mai vi fossero frammenti di metallo infissi in profondità nel torace del pilota, o che un pezzo del cruscotto, semifuso, fosse con i resti umani nella "conchiglia" dei soccorritori e quindi destinato a essere rinchiuso nella bara. Era pronto a ripetere tutto ciò a un magistrato? Sicuro. Quel che apparve il 6 febbraio sul Tirreno tradiva il suo pensiero e le sue parole? No. È quel che disse due giorni dopo, aggiungendo che nessuno in pretura lo aveva chiamato per sentirlo, mentre già si comunicava che ufficialmente l'unica strada che seguiva la magistratura era quella dell'incidente per una manovra errata. Niente autopsia e distruzione dei resti del Piper, furono i passaggi successivi. Eppure quegli articoli del Tirreno che chiedevano di chiarire questi punti oscuri erano già allora nel fascicolo dell'inchiesta. Ma fare domande, chiedere verifiche, proporre versioni diverse, provocava anche un po’ di fastidio. A maggior ragione se evocavano trame o misteri. Già piuttosto imbarazzante per lo Stato a Massa era avere come comandante provinciale dei carabinieri un ufficiale comparso negli elenchi della loggia P2 di Licio Gelli, poi approdato a senatore di Forza Italia direttamente dalla divisa. Oggi, dopo 21 anni, Franco Rebecchi non c'è più e la sua testimonianza resta viva solo negli articoli mai smentiti di quei giorni, rintracciabili negli archivi. Di nuovo c'è però la volontà di un gruppo di persone e di un magistrato di provare a dissipare dubbi. Ancora una volta, come per molti, se non tutti i misteri italiani, succede a distanza di tanti anni, con testimoni e prove difficili se non impossibili da verificare. E questo non è uno dei quei casi in cui è la verità storica a confermare o sostituire quella giudiziaria. Cosa è davvero successo quella mattina di febbraio sui boschi di Campocecina avrebbe davvero bisogno di una verità accertata. Ma forse il ritardo di 21 anni non lo consentirà piú. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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