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La grave malattia del pensare

Post n°32 pubblicato il 27 Aprile 2008 da sangelblog
Foto di sangelblog

Papalagi è il resoconto sugli usi e i costumi dell'uomo bianco (il

papalagi, appunto), fatto da Tuiavii, capo indigeno delle isole della

Samoa, dopo un suo viaggio in Europa agli inizi dello scorso secolo.

Qui sotto il capitolo sulla "grave malattia del pensare".



QUANDO il Papalagi pronuncia la parola «spirito», i suoi occhi si

fanno grandi, rotondi e fissi; gonfia il petto, respira profondamente

e si erge come un guerriero che ha battuto il nemico. Perché è

particolarmente orgoglioso di questo «spìrito». Qui non si tratta

dello spirito grande e potente che il missionario chiama «Dio», di

cui noi tutti non siamo che una povera immagine, ma del piccolo

spirito, quello che appartiene all'uomo e che fa i suoi pensieri. Se

da qui vedo l'albero di mango dietro la chiesa della missione, non

entra in azione lo spirito, perché lo vedo soltanto. Ma se riconosco

che è più grande della chiesa della missione, allora ciò è spirito.

Quindi non devo solo vedere qualcosa, devo anche sapere qualcosa. Il

Papalagi esercita questo sapere dall'alba al tramonto. Il suo spirito

è sempre come un tubo di fuoco carico o come un amo gettato. E perciò

prova compassione per noi, popoli delle molte isole, perché non

adoperiamo nessuna conoscenza. Secondo lui siamo poveri di spirito e

stupidi come l'animale della giungla.



È certamente vero che adoperiamo poco la conoscenza, quel che il

Papalagi chiama «pensare». Ma c'è da chiedersi se stupido è chi non

pensa molto, o chi pensa troppo. Il Papalagi pensa in continuazione.

La mia capanna è più piccola della palma. La palma si piega sotto la

tempesta. La tempesta parla con voce grossa. Così pensa: naturalmente

a suo modo. Pensa però anche a se stesso. Sono cresciuto poco. Il mio

cuore è sempre felice alla vista di una fanciulla. Amo molto

viaggiare. Eccetera.



Ciò è divertente e buono, e può essere che abbia anche una qualche

utilità nascosta per chi ama fare questo gioco nella sua testa. Ma il

Papalagi pensa così tanto che pensare per lui è diventata

un'abitudine, una necessità, addirittura un obbligo. Riesce solo con

difficoltà a non pensare e a vivere con tutte le sua membra insieme.



Spesso vive solo con la testa, mentre tutti i suoi sensi sono

profondamente addormentati. Anche se va in giro, parla, mangia e

ride. Il pensare, i pensieri, che sono i frutti del pensare, lo

tengono prigioniero. È una specie di ubriacatura dei suoi pensieri.

Quando il sole splende bene nel cielo, pensa subito: «Come splende

bene!». E sta sempre lì a pensare come splende bene. Ciò è sbagliato.

Sbagliatissimo. Folle. Perché quando splende è meglio non pensare

affatto. Un abitante delle Samoa intelligente



distende le sue membra alla calda luce e non sta a pensare niente.

Accoglie in sé il sole non solo con la testa, ma anche con le mani, i

piedi, le gambe, la pancia, con tutte le membra. Lascia che la pelle

e le membra pensino da sole. E queste da parte loro pensano, anche se

in modo diverso dalla testa. Il pensare sbarra il cammino al Papalagi

in molti modi, come un blocco di lava che non si può scansare. Pensa

lietamente, ma poi non ride; pensa cose tristi, ma non piange. Ha

fame, ma non coglie frutti di taro. È per lo più un uomo con i sensi

che vivono in inimicizia con lo spirito: una persona che è divisa in

due parti.



La vita del Papalagi somiglia molto alla situazione di un uomo che fa

un viaggio in barca alla volta di Savaii e che quando ha appena

lasciato il porto pensa: quanto mi ci vorrà per arrivare a Savaii?

Pensa, ma non vede il piacevole paesaggio che attraversa con il suo

viaggio. Ora gli si presenta sulla sinistra il dorso di una montagna.

E non appena il suo occhio lo coglie, non può fare a meno di

pensare: «Cosa ci sarà dietro la montagna? Ci sarà una baia profonda

o stretta?» Preso da questi pensieri dimentica di cantare insieme

agli altri le canzoni del mare; non sente neanche gli allegri scherzi

delle fanciulle. Si è appena lasciato alle spalle il dorso della

montagna e la baia, quando lo tormenta un nuovo pensiero: ci sarà una

tempesta entro sera? Proprio così, se entro sera ci sarà una tempesta.



Cerca nel cielo chiaro scure nuvole. Pensa sempre alla tempesta che

si potrebbe abbattere su di lui. La tempesta non arriva e raggiunge

Savaii senza danni. Però è come se non avesse compiuto il viaggio,

perché i suoi pensieri erano sempre lontani dal suo corpo e fuori

dalla barca. Sarebbe potuto benissimo rimanere nella sua capanna a

Upolu.



Uno spirito che tanto ci tormenta è un demone, e non capisco perché

dovrei amarlo tanto. Il Papalagi ama e ammira il suo spirito e lo

nutre con i pensieri della sua testa. Non gli fa mai soffrire la

fame, e quando i pensieri si divorano tra loro non lo rimprovera

neanche tanto. Fa molto rumore con i suoi pensieri, e li fa diventare

chiassosi come bambini maleducati. Si comporta come se i suoi

pensieri fossero preziosi come i fiori, le montagne e le foreste.

Parla dei suoi pensieri come se al confronto il valore di un uomo o

l'umore lieto di una fanciulla non contassero niente. Agisce come se

ci fosse da qualche parte un comandamento che obbliga a pensare

molto. Come se questo comandamento venisse da Dio. Quando le palme e

le montagne pensano, non fanno molto rumore. E sicuramente se le

palme pensassero con tanto chiasso e intensità come il Papalagi, non

avrebbero belle foglie verdi e frutti dorati (perché è un dato di

fatto, il pensare rende velocemente vecchi e brutti). Cadrebbero

prima di maturarsi. Ma credo proprio che pensino molto poco.



E ci sono ancora molti modi per pensare e tanti bersagli per la

freccia dello spirito. Triste è il destino del pensatori, che vanno

lontano con il pensiero. Cosa accadrà alla prossima aurora? Cosa avrà

in mente per me il Grande Spirito quando arriverò nel mondo di là?

Dove ero quando i messaggeri del più grande di tutti gli spiriti mi

donarono l'anima? Questo pensare è tanto inutile quanto voler vedere

il sole a occhi chiusi. Non va. E non è neanche possibile pensare

fino in fondo l'inizio e la fine delle cose. Se ne accorgono coloro

che ci provano. Stanno accovacciati sempre nello stesso punto come un

martin pescatore, dalla giovinezza fino all'età adulta. Non vedono

più il sole, il vasto mare, le care fanciulle, nessuna gioia, niente

di niente, e ancora niente. La kava stessa non ha più nessun sapore

per loro, e alle danze nella piazza del villaggio se ne stanno in

disparte e guardano per terra. Non vivono, anche se non sono morti.

Sono stati colpiti dalla grave malattia del pensare.



Questo pensare dovrebbe far grande ed elevata la testa. Quando uno

pensa molto e velocemente, in Europa si dice che ha una gran testa. E

anziché avere compassione di queste grandi teste, le ammirano molto.

I villaggi ne fanno i loro capi, e una gran testa ovunque arrivi deve

pensare pubblicamente, il che suscita in tutti un gran piacere e

ammirazione. Quando una gran testa muore tutto il paese è in lutto e

si levano molti lamenti per quel che è andato perduto. Si fa una

riproduzione in pietra della grande testa morta e la si mette davanti

agli occhi di tutti sulla piazza del mercato. Proprio così, si fanno

queste teste di pietra molto più grandi di quanto lo erano in vita,

in modo che il popolo le possa ben ammirare e ricordarsi della

propria piccola testa.



Se si chiede a un Papalagi: «Perché pensi tanto?» questi

risponde: «Perché non voglio e non mi piace rimanere sciocco». È

sciocco ogni Papalagi che non pensa; anche se invece è saggio chi non

pensa e tuttavia trova la sua strada.



Credo però che questa sia solo una scusa e che il Papalagi sia spinto

da un desiderio cattivo. Penso che il vero scopo del suo pensare sia

scoprire l'origine dei poteri del Grande Spirito. Cosa che egli

chiama in modo altisonante «comprendere». Comprendere significa avere

una cosa così vicina davanti agli occhi da ficcarci dentro il naso.

Questo ficcare il naso e frugare in tutte le cose è una brama volgare

e spregevole dell'uomo. Prende la scolopendra, vi ficca una piccola

lancia, le strappa una gamba. Che aspetto ha una zampa divìsa dal suo

corpo? Come era fissata al corpo? Rompe la zampa per misurarne lo

spessore. È importante, è essenziale. Stacca un pezzetto di carne

grande quanto un granello di sabbia e lo mette sotto un lungo tubo

che ha un potere misterioso e fa vedere molto meglio. Con

quest'occhio grande e potente guarda dentro ogni cosa, che siano

lacrime, un brandello di pelle, un capello, assolutamente tutto.

Taglia tutte queste cose finché non è più possibile romperle e

tagliarle.



Anche se questo punto è senz'altro il più piccolo, è anche il più

essenziale di tutti, perché è l'accesso alla conoscenza suprema,

quella che possiede solo il Grande Spirito. Questo accesso è vietato

anche al Papalagi, e i suoi migliori occhi magici non ci hanno ancora

guardato dentro. Il Grande Spirito non si fa carpire mai i suoi

segreti.



Nessuno si è mai arrampicato più in alto della palma che si stringeva

tra le gambe. Una volta giunti in cima si deve tornare indietro:

viene a mancare il tronco per arrampicarsi ancora più in alto. Il

Grande Spirito non ama neanche la curiosità degli uomini, per questo

ha steso grandi liane senza inizio e senza fine su tutte le cose. Per

questo chiunque segua il pensare fino in fondo si accorgerà

sicuramente che alla fine rimane sempre come uno stupido, e deve

lasciare al Grande Spirito le risposte che non può dare lui stesso.

Lo ammettono anche i Papalagi più valorosi e saggi. Tuttavia la

maggior parte degli ammalati di pensiero non riescono a staccarsi

dalla fonte del loro godimento, e a furia di percorrere le vie del

pensiero l'uomo perde l'orientamento, proprio come se andasse per la

foresta vergine senza seguire nessun sentiero. Si perdono nei loro

pensieri finché improvvisamente i loro sensi non riescono più a

distinguere un uomo da un animale. Affermano che l'uomo è un animale

e che l'animale è umano.



È male e pericoloso quindi che tutti i pensieri, che siano buoni o

cattivi, vengano gettati immediatamente su sottili stuoie

bianche. «Vengono stampati» dice il Papalagi. Il che vuoi dire che

quel che quei malati pensano viene trascritto con una macchina

misteriosa e prodigiosa, che ha mille mani e la forte volontà di

molti grandi capi. E non solo per una o due volte, ma molte, infinite

volte, sempre gli stessi pensieri. Si pressano poi insieme, in fasci,

molte stuoie di pensieri - «libri» li chiama il Papalagi - che poi

vengono inviate in tutte le parti del grande Paese. Tutti quelli che

ricevono questi pensieri vengono subito contagiati. Divorano queste

stuoie di pensieri come fossero dolci banane; si trovano in ogni

capanna, se ne riempiono casse intere, e vecchi e giovani stanno a

rosicchiarli come topi la canna da zucchero. È per questo motivo che

in così pochi riescono ancora a pensare ragionevolmente, con pensieri

naturali come quelli di qualsiasi onesto abitante delle Samoa.



Allo stesso modo vengono ficcati nella testa dei bambini tanti

pensieri quanti ce ne entrano. Ogni giorno devono per forza ingoiare

la loro dose di stuoie di pensieri. Solo i più sani si sbarazzano di

questi pensieri o li lasciano passare attraverso il loro spirito come

attraverso una rete. I più però sovraccaricano la loro testa con così

tanti pensieri che non avanza più spazio e non vi penetra più nessun

raggio di luce. Questo si chiama: «formare lo spirito» e lo stato

permanente di tale confusione: «cultura», cosa ampiamente diffusa.



Cultura significa: riempire la propria testa con le conoscenze fino

all'orlo estremo. L'uomo colto conosce la lunghezza della palma, il

peso della noce di cocco, i nomi di tutti i suoi grandi capi e la

data delle loro guerre. Conosce la grandezza della luna, delle stelle

e di tutti i Paesi. Conosce per nome ogni fiume, e ogni animale e

pianta. Conosce tutto, proprio tutto. Poni una domanda a una persona

colta, e ti spara addosso la risposta ancor prima che tu chiuda

bocca. La sua testa è sempre carica di munizioni, è sempre pronta a

sparare. Ogni Europeo dedica la più bella età della vita a fare della

sua testa la canna da fuoco più veloce. Chi non vuole partecipare,

viene obbligato.



Ogni Papalagi deve conoscere, deve pensare. L'oblio - disfarsi dei

pensieri - non viene esercitato, quando invece sarebbe l'unica cosa

che potrebbe guarire tutti gli ammalati di pensiero; e quindi sono in

pochissimi a sapervi ricorrere. I più si portano dietro, nella testa,

un carico che affatica il corpo per quanto è pesante, lo indebolisce

e fa appassire prima del tempo.



Dobbiamo quindi, cari fratelli non pensanti - dopo quello che vi ho

annunciato in tutta onestà - emulare davvero il Papalagi e imparare a

pensare come lui? lo dico: «No!». Perché non dobbiamo e non possiamo

fare niente che non ci fortifichi il corpo e non renda migliori e più

lieti i nostri sensi. Ci dobbiamo guardare da tutto quel che ci

vorrebbe togliere la gioia di vivere, da tutto quello che mette in

lite la nostra testa con il nostro corpo. Il Papalagi ci dimostra con

il suo esempio che il pensare è una grave malattia, una malattia che

diminuisce di molto il valore di un uomo.

 
 
 
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