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IL CODICE LEONARD (I parte)

Post n°38 pubblicato il 04 Ottobre 2010 da saydo

Leonard Chevalier, il famoso chef del famoso ristorante La belle morue nella famosa Rue des Cailles a Parigi, raggiunse ansimando la cucina per nascondersi nel forno, ma una voce alla Oliver Hardy alle sue spalle lo immobilizzò. «Non si muova.»
Chevalier si voltò lentamente e sgranò gli occhi inorridito. Ora si trovava faccia a faccia con il suo aggressore che lo minacciava con una pistola. «Me la dia e le risparmierò la vita» insisté la voce.
«Non! Per carità, non lo faccia!» supplicò Chevalier. «Ecco, prenda. E adesso mi lasci andare, s’il vous plaît.» Il suo francese era impeccabile, probabilmente perché era parigino.
Lo sconosciuto, detto ‘il norvegese’ perché nato in Sudafrica, era un tipo robusto, alto più di un metro e novanta, ma solo perché indossava scarpe ortopediche con un rialzo di trenta centimetri. Aveva la faccia incipriata di bianco che lo rendeva simile a uno spettro. Lesse il foglio datogli dallo chef. «Bene!» esclamò. «Gli altri tre hanno scritto la stessa cosa, ma adesso non potranno più dire niente.»
“Mon Dieu!” pensò Chevalier. I suoi tre cuisiniers préférés erano stati eliminati uno dopo l’altro, e senza il preavviso di almeno una settimana come da contratto.
«Mi spiace» proseguì lo sconosciuto, «le ho detto una bugia. Non bisogna mai fidarsi di un uomo cosparso di cipria, specialmente se porta le scarpe ortopediche. Fatto fuori lei, sarò il solo a conoscere il segreto.» Dunque prese la mira e fece fuoco. Chevalier fu colpito allo stomaco. Straziato dal dolore, ma ancora lucido, ebbe il tempo di raccontare l’ultima barzelletta sui camerieri, poi si trascinò a fatica nel retro della cucina. «Il dolore è buono, monsieur» sogghignò l’incipriato, che poi si dileguò nel crepuscolo.
Lo chef sapeva di avere i minuti contati e ora lo assillava un unico pensiero. “Devo trasmettere il segreto a qualcuno degno”. 

Robert Lindor, professore di ‘Simbologia delle Pietanze’ alla Harvard, si trovava nella sua stanza d’albergo. Si era appena appisolato dopo che uno degli addetti alla reception gli aveva canticchiato sottovoce la Marsigliese e rimboccato le coperte (un piccolo extra per cento euro in più a notte), quando il telefono prese a squillare. Si svegliò con un urlo per lo spavento, quindi allungò una mano verso il comodino annaspando nel buio, accese l’abatjour ed afferrò la cornetta. «Pronto?»
«Monsieur Lindor? Qui è la portineria, volevo avvertirla che una persona sta salendo da lei.»
«A quest’ora?» cercò di obbiettare lo studioso.
«E’ una persona très important, monsieur. Non ho potuto impedirglielo. Mi dispiace.» Riattaccò.
Lindor rimase seduto sul letto ancora insonnolito ripetendo tra sé la domanda che da anni si poneva ogni volta che si svegliava. “Dove diavolo mi trovo?” Poi lesse distrattamente una targhetta su una poltrona imbottita stile Luigi XV: ‘VERNICE FRESCA’. «Accidenti!», esclamò. Ci aveva appoggiato i pantaloni la sera prima. Si sentiva esausto. L’ultimo seminario, una monografia dal titolo Significati e simboli delle cotolette, tenuto in un centro di igiene mentale per chefs depressi, lo aveva stancato. Guardò lo specchio di fronte a lui e ciò che vide lo inquietò al punto da farlo rabbrividire. In effetti non si trattava di uno specchio ma di una riproduzione del famoso dipinto L’Urlo di Munch. “Hai bisogno di una vacanza, Robert. O almeno di una pollastrella che ti tiri su il morale.” Prese nota della seconda possibilità.
Qualcuno bussò insistentemente alla porta.
«Chi è?»
«Tenente Coquet, della polizia giudiziaria.»
“Polizia giudiziaria?” pensò allarmato Lindor. Era qualcosa di molto vicino ai Boy Scout. Andò ad aprire con una certa apprensione.
L’uomo che gli si parò davanti era talmente magro che gli si poteva fare una radiografia a occhio nudo.
«Mi scusi per l’ora poco conveniente» disse, «ma il mio superiore, il capitano Demi Nez, desidera incontrarla per una questione urgente.»
«Mi sembra un po’ tardino» replicò seccamente Lindor. Era davvero stanco, aveva gli occhi gonfi e la barba di un giorno che gli arrivava alle ginocchia.
«Lei aveva appuntamento con il famoso chef Leonard Chevalier quest’oggi, nel famoso ristorante La belle morue, n’est-ce pas?» chiese il tenente.
«Si, oggi era il giorno di riposo settimanale e mi ha invitato al ristorante, ma quando ho suonato non mi ha aperto nessuno. Poi ho passato il resto della serata chiuso in bagno, per via della stipsi, sa… Ma cos’è successo?»
Il tenente estrasse una foto polaroid e la mostrò a Lindor. Lo studioso soffocò a stento una grassa risata, poi però si riprese dandosi un certo contegno. «Mio Dio! Chi può aver fatto una cosa simile?»
«Questa cosa Chevalier se l’è fatta da solo, monsieur. La prego di seguirmi al ristorante.»
«OK, giusto il tempo di radermi e fare una doccia.»
«Vuole che l’aiuti a lavarsi la schiena?»
«Grazie, lei è molto gentile.»
Arrivarono dopo un quarto d’ora. Il capitano Demi Nez passeggiava avanti e indietro nervosamente. Aveva già ingurgitato un coscio d’abbacchio con patatine fritte più mezzo fiasco di vino rosso di Borgogna: un piccolo spuntino per ingannare l’attesa. Strinse la mano al professore facendogli scricchiolare le falangi. «Buona sera professor Lindor.» La sua voce aveva un non so che di lavandino otturato, un gorgoglio sgradevole. Stappò una bottiglietta di idraulico liquido e ne bevve avidamente alcuni sorsi. Scosse la testa con una smorfia. “Dev’essere colpa dell’abbacchio”. Fece il ruttino. «Mi scusi professore. Prego, le faccio strada.» Giunsero nel retro cucina e la scena che si presentò agli occhi di Lindor lo lasciò di stucco; ben altra cosa dalla fotografia. Prima di morire Chevalier si era travestito da grosso merluzzo, quindi si era steso a terra cospargendosi con generose manciate di prezzemolo e al suo fianco aveva sistemato una brocca di terracotta, poi con del sugo aveva scritto una frase enigmatica.

QUI ME PARLE? LE FORUM A L’EST

“Chi mi parla? Il forum a Est” tradusse mentalmente lo studioso.
«Cosa sa dirmi a proposito?» chiese il capitano.
«Mah, non saprei. E’ difficile da decifrare.»
«E di quelle?» Demi Nez indicò in alto. C’erano impronte di scarpe sul soffitto.
«Sempre più enigmatico.»
«Un messaggio in codice?»
«Probabilmente» rispose Lindor, che solo adesso si era accorto che Demi Nez indossava un paio di eleganti pantofole laccate.
«Lei conosceva Chevalier?»
«Soltanto di fama. La settimana scorsa ho ricevuto una sua e-mail dove diceva di volermi incontrare per discutere sul simbolismo occulto delle aringhe. Lui era il massimo esperto nel settore.»
«Capisco. E il modo in cui si è conciato le dice niente?»
«Strano, davvero strano. Non saprei dire altro. Tuttavia… mi ricorda qualcosa…»
«Cosa?» chiese il capitano.
«Ecco… mi sto sforzando, ma…»
«Si sforzi, si sforzi!»
«Ce la sto mettendo tutta, ma… No, non ci riesco.»
«Forza!» insisté il capitano.
In quel momento si udì il suono di un gong. «Mi dispiace» concluse rammaricato Demi Nez, «il tempo è scaduto.»
«Non c’è una domanda di riserva?» chiese Lindor.
«No, non c’è.»
«E lei si è fatta qualche idea, capitano?»
«Mmm!» rifletté Demi Nez, mentre si toglieva la giacca per infilarsi una più comoda veste da camera. «Vista l’ora del decesso e considerato che il ristorante era chiuso, abbiamo motivo di ritenere che Chevalier conoscesse il suo aggressore e...»
«Considerazione arguta, ma…»
«…e che abbia voluto lasciare un indizio attraverso simboli e linguaggi criptici.»
«Ma se Chevalier avesse voluto incolpare chi conosceva gli sarebbe bastato scrivere il nome dell’assassino.»
«Précisément» ammiccò il capitano. «Précisément.»

FINE I PARTE

 

 
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