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Post n°483 pubblicato il 03 Novembre 2015 da meninasallospecchio
Concludo la mia lunga dissertazione linguistica parlandovi del linguaggio che uso per il blog e di tutti gli "errori" che commetto in modo perfettamente consapevole. Del resto anche l'Accademia della Crusca dice che l'importante è poter scegliere il registro più adatto a ogni circostanza, e questo credo di essere in grado di farlo. Ovviamente per il blog scelgo un registro linguistico piuttosto colloquiale, abbastanza simile alla lingua parlata, appena appena più ricercato nelle scelte lessicali. Uso talvolta il passato remoto, che nel parlato non uso mai. Sempre il congiuntivo, quando serve, ma lo uso correntemente anche nella vita quotidiana. Anche se... mi sono accorta che anch'io in certe situazioni trovo più "economico", per dirlo con la Crusca, l'indicativo. Sapete quando? Quando faccio sesso. "Voglio che..." seguito dalla richiesta specifica. All'indicativo. Non ci avevo mai fatto caso. Ma torniamo al blog. L'anacoluto lo uso; anzi, l'ho appena usato. Ma forse non è nemmeno più considerato un errore (a proposito, era giusto "più" in questa frase?), tanto è stato utilizzato anche dagli scrittori. Lo sapete cos'è l'anacoluto? E' l'uso ridondante del pronome complemento, quando esiste già lo stesso complemento nella frase. Quando dico: l'anacoluto lo uso, l'anacoluto è complemento oggetto, e il pronome "lo" ribadisce lo stesso complemento in modo pleonastico e teoricamente sbagliato. Il più classico degli anacoluti è "a me mi", che sembra un errore triviale, però nel parlato si fa spesso, magari non tutto di seguito così, ma mettendoci un pezzo di frase in mezzo. Ho scritto su Facebook: "A me Siracusa di sera mi fa impazzire", e sono stata subito redarguita. Ovviamente ero consapevole dell'errore, ma la stessa frase "A me Siracusa di sera fa impazzire", sinceramente mi sembra meno efficace. Ecco, il punto è esattamente quello: l'anacoluto aumenta l'efficacia e l'incisività della frase. Per quello lo usano anche gli scrittori. C'è un altro errore che faccio consapevolmente: l'uso del "che" causale, come nella frase: Sbrigati, che è tardi. In questo caso "che" ha una valenza avverbiale, come se fosse "perché o poiché, ecc.". In realtà è ammesso dalla grammatica, ma andrebbe accentato: "ché", a sottolineare questa diversa funzione. Io però mi rifiuto di accentarlo. Perché 'sto "ché" accentato mi sembra un toscanismo così pretenzioso e arcaico che mi toglie tutto il gusto di usare un avverbio profondamente colloquiale. Allora tanto vale. Invece il mio "che" deve suonare come lo direbbe un piemontese, con una "e" che di accenti non vuole proprio saperne. Discorso analogo per "gli" invece di "loro". Sono venuti degli amici e gli ho offerto da bere. Sarebbe: ho offerto loro da bere. Mi rifiuto. Piuttosto cambio la frase e non gli offro un cazzo, così imparano a venire due per volta, che mi costringono a usare pronomi desueti. Però mai "gli" al posto di "le", una signora merita un trattamento adeguato. Faccio invece quella cosa un po' pedante di scrivere 'sto con l'apostrofo davanti. La Crusca parla di incertezza normativa, quindi si può scrivere con l'apostrofo o senza. A me questa aferesi (si chiama così l'eliminazione della prima sillaba) sembra una forma colloquiale piuttosto estrema nello scritto, e quindi reputo di doverla apostrofare per rimarcare che, anche se parlo come mangio e scrivo come parlo, tuttavia non scrivo come mangio. Forse in definitiva mangio meglio. E poi ci sono i periodi sospesi. Perché lo so benissimo che non si fa una frase così. Senza la proposizione principale. Anzi, senza nemmeno il verbo. Però me ne fotto (questa era giusta, anche se dico le parolacce). Perché a me piace scrivere così. Mi diverto. Anche se adesso sto un po' esagerando. E infine c'è la punteggiatura. Col tempo sono scesa a più miti consigli, ma nei miei vecchi post non usavo quasi mai i due punti e il punto e virgola. Il fatto è che li trovo troppo... scolastici. Se voglio una pausa breve, metto una virgola. Per una lunga un punto. Altri amennicoli servono per costruire periodi lunghi e complicati, che a me non piacciono. Soprattutto nel contesto di uno scritto che si vuole far leggere in modo scorrevole, se possibile con un sorriso, e certamente senza causare mal di testa. Piuttosto il mal di testa me lo faccio venire io, leggendo cento volte quello che scrivo, per essere sicura che non si incespichi da nessuna parte. Ma a voi che leggete deve filare via liscio come l'olio, da arrivare in fondo senza manco accorgervene. A proposito, ci siete arrivati.
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