Creato da maddablog il 23/12/2012
come sopravvivere in cucina (per single)

Dice il Saggio

Linda: "Ma tu ti cuoci solo cibi surgelati?" Allen: "Cuocerli? E chi li cuoce! Io neanche li scongelo. Li succhio come se fossero ghiaccioli!" (Woody Allen)

 

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Disconnessi

Post n°17 pubblicato il 06 Gennaio 2014 da maddablog
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Pare un assurdo, eppure è esattamente vero che, essendo tutto il reale un nulla, non v'è altro di reale né di sostanza al mondo che le illusioni (Giacomo Leopardi)

 

Siamo sempre pronti a mettere etichette soprattutto addosso alle cose che non comprendiamo.. Le definizioni si sprecano e se le nostre figlie assomigliano troppo alle nostre madri pensiamo subito al gap generazionale: un buco, un anello mancante che ci ospita e che non ci fa capire né le une, né le altre.

In sociologia la definizione di “generazione” raggruppa un insieme di persone che hanno condiviso le stesse esperienze all’interno di un lasso di tempo definito. Negli ultimi sessant’anni, siamo passati dalla beat generation, segnata dalla fine della seconda guerra mondiale, alla generazione y post muro di Berlino, dalla generazione x, la prima definitivamente libera dall’incubo della bomba atomica, all’internet generation, senza confini, ma spesso senza un’identità precisa; non una vera e propria generazione, ma piuttosto un insieme di vecchi, uomini, donne e bambini passati quasi tutti indenni attraverso i cambiamenti epocali, una moltitudine di persone che utilizzano la rete con modalità e tempi strettamente legati all’età anagrafica e che, nonostante il Web abbia portato il mondo più vicino, non ne avvertono quasi più l’odore attraverso lo schermo del monitor.

Gli ultimi scombussolamenti storici sono rimasti quelli della ricostruzione postbellica, del boom economico e della fine della guerra fredda, eventi che hanno totalmente coinvolto il mondo occidentale con le stesse paure e le stesse speranze, abbastanza lontani da capirne i meccanismi, troppo vicini per non avvertirne ancora gli effetti.

L’era digitale, invece, è stata stigmatizzata dalla tragedia dell’11 settembre, un evento storico non raccontato, ma seguito in TV e in streaming come fosse stato un telefilm pieno di polvere e dolore. La dematerializzazione del mondo come lo conoscevamo è cominciata davanti ad un dramma in diretta che ha determinato una contrapposizione tra occidente ed oriente con, da una parte, l’apparente libertà infinita di internet e, dall’altra, l’oscurantismo comunicativo bucato solo occasionalmente da qualche tentativo di rivoluzione.

Da quel momento in poi la nostra esistenza si è circondata sempre di più di schermi, quelli della TV, del telefonino, del pc, del tom tom, dell’MP3, del tablet, dell’Ipod e dell Ipad, della videocamera e della macchina fotografica; l’onnipresenza dei pixel ci fa vivere in una sorta di avvolgimento digitale in cui l’immagine non è più una rappresentazione, ma un vissuto, siamo eternamente connessi ad una realtà esterna che non tocchiamo e che rischiamo di considerare sempre più un videogame.

Assieme alla sensazione di poter raggiungere il mondo con un dito e di poterne conoscere tutti i segreti, l’era digitale nasconde un lato oscuro i cui contorni sono difficili da individuare compiutamente.

Non sappiamo ancora dove ci porterà la virtualità in cui stiamo scivolando, al momento possiamo solo cercare di individuarne e riconoscerne le inesattezze e falsificazioni dell’informazione, il potere nascosto e confortante dei motori di ricerca e dei social network, le vite parallele vissute in rete, poiché quelle reali non ci corrispondono, il pensare di essere politicamente ed eticamente attivi solo perché clicchiamo su un “mi piace” o un “non mi piace più” o perché firmiamo petizioni di ogni tipo, il furto di dati ed identità, i comportamenti scorretti dei nuovi capitani dell'impresa digitale, la concreta possibilità di essere osservati, valutati e trattati sempre più come “prodotti” e sempre meno come esseri umani.

 
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Homo Singularis

Post n°16 pubblicato il 01 Gennaio 2014 da maddablog
 
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A condannare un uomo alla solitudine non sono i suoi nemici ma i suoi amici. (Milan Kundera)

Non è così sicuro che il progresso ci salverà: un futuro positivista sembra ineffabilmente perdersi tra le mille sfaccettature di una società sempre più immateriale.

Forse ridaremo gambe di titanio agli storpi, occhi digitali ai ciechi, cuori coltivati in laboratorio ai cardiopatici; l’aspettativa di vita si allungherà anche se nessuno ci potrà garantire né felicità personale, né serenità relazionale: probabilmente sostituiremo  bocca e orecchie con uno smartphone e forse saremo più attenti agli strumenti di comunicazione che al messaggio da comunicare.

L’umanità iperconnessa si sta già perdendo in un caleidoscopio di informazioni, disinformazioni, immagini, software e, ultime nate dall’avvento dell’i-phone e dei suoi fratelli, application (app per gli amici)  per ogni necessità e per tutti i gusti; che la loro utilità sia reale, indotta o effimera non è facile da stabilire.

Con ormai centinaia di migliaia di app, anche scalando un buon 20% per quelle non funzionanti o venute male, ci si può chiedere se davvero l’umanità, oltre a nutrirsi, dormire, fare l’amore e/o riprodursi, lavorare, parlare, ascoltare, vedere, amare, toccare, annusare e usare le papille gustative, abbia davvero bisogno di farsi “semplificare” la vita da questi minisoftware  pronti a dare risposta ad ogni esigenza: messaggiare, giocare, fotografare o modificare foto, dipingere, leggere libri, ascoltare la radio, consultare una cartina, telefonare gratis, tradurre una parola straniera, consultare un quotidiano, trovare il Nord, ottenere informazioni turistiche ed enogastronomiche, consultare ricette, trovare un indirizzo, contare le calorie che si consumano in un giorno, sapere quanti giorni mancano all’inizio della scuola o alla fine della propria vita, capire dove si è, da dove si è venuti e dove si sta andando, certo non ancora dal punto di vista filosofico, ma almeno da quello spaziale.

In tutto questo delirio tecnologico bisognerebbe comprendere se davvero la parabola che va dal telefono fisso al tablet possa considerarsi ascendente o discendente.  Non è che più sentiamo e meno ascoltiamo, più guardiamo e meno vediamo e più ci connettiamo con il mondo intero e più ci sentiamo soli? Il dubbio è legittimo: la solitudine digitale la sperimentiamo ogni giorno quando, mentre parliamo ad un amico, questo messaggia con qualcun altro.

I suoni emessi dai nostri apparecchi, che siano sms o chiamate, sono un canto irresistibile di sirena; se li sentiamo, e forse bisognerebbe condurre uno studio sociologico sul significato intrinseco delle varie suonerie,  se li sentiamo, dicevo, inevitabilmente allunghiamo la mano verso il cellulare, poco importa se siamo ad un matrimonio, ad un funerale o stiamo facendo l’amore.

Le nostre interazioni sociali vengono ormai  regolate dai “mi piace” di social network che più ci mettono in contatto con il mondo, più ci allontanano dai rapporti umani, tutti sono amici di tutti, basta cliccare ed accettare, ma non è detto che poi gli stessi amici che abbiamo su Facebook o Twitter, ci salutino, almeno con un cenno del capo, quando ci incrociano per strada.

 

 
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SEMAFORO ROSSO

Post n°15 pubblicato il 29 Agosto 2013 da maddablog
 
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Passeggiando per la strada mi vengono incontro i segni della civiltà del XXI secolo. Il ragazzino imbronciato che incrocio, in barba alla mia avanzata età e al bastone che mi sostiene, si guarda bene dall’agevolarmi, così mi tocca scendere dal marciapiede e fargli strada – largo ai giovani!- Ci mancherebbe altro, dato che il futuro non sembra essere roseo per loro, che almeno gli si faccia spazio per la strada, no? Passandogli vicino cerco di  incontrare il suo sguardo, lui svicola e butta per terra la carta della pizza. Non posso trattenermi: - Ehi! Guarda che c’è  un cestino lì che aspetta te!- non mi risponde, forse shockato dalla mia uscita, forse troppo abituato al silenzio-assenso dei suoi genitori. Avendo perso la favella, alza la mano in un segno inequivocabile. Accetto il consiglio e, continuando la passeggiata, mi faccio i fatti miei.

La macchina è stata parcheggiata così bene che poggia solo una ruota sul marciapiede: non riesco a passare, così mi tocca circumnavigare il mezzo e mentre lo faccio mi chiedo se l’invadente automobilista, quando ritorna pedone, possa avere questo tipo di problema, ma forse lui/lei è automobilista dentro e se ne frega, forse prende l’auto per fare poche centinaia di metri in barba allo spreco energetico e all’inquinamento atmosferico e  se non gli interessa l’ecosistema e il benessere dei suoi simili come potrebbe interessargli la sua invasione di campo e la fatica che sto facendo?

Il mio bastone batte sul selciato e mi dona tutto il suo appoggio, mi avvicino al semaforo e spingo il bottone rosso. Da quando appare il verde  ho poco tempo per attraversare la strada, ogni volta mi sembra che ci siano meno secondi e cerco, come posso, di raggiungere la parte opposta fidandomi del codice stradale e affidandomi alla buona sorte.

La frenata mi fa chiudere gli occhi e affrettare ancora un po’ il passo.

- Ma ti vuoi muovere?- il conducente, parente elettivo dell’invasore di marciapiedi,  si sporge dal finestrino con aria arrogante, ovviamente dimenticando l’uso del “lei”, abbasso la testa e muovo il passo. Non appena gli è possibile mi sfreccia dietro sfrontato e smarmittato, pigiando sul pedale per farmi capire chi è il padrone lì. A nulla servono i miei capelli bianchi e l’incedere incerto.

Sembra che la strada non possa essere di tutti, ma solo dei prepotenti, dei maleducati e degli insolenti. Io cerco di ritagliarmene un pezzetto, quello della fermata dell’autobus, perché mi è sparita la voglia di passeggiare e spero che sul 56 barrato qualcuno mi ceda il posto a sedere.

 

 
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Fenomenologia del Cibo

Post n°14 pubblicato il 05 Aprile 2013 da maddablog
 
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"A tavola perdonerei chiunque, anche i miei parenti." (O. Wilde)

Che l’uomo sia ciò che mangia l’abbiamo sentito in tutte le salse, anche se mi chiedo che schifezze ingurgitiamo per essere così intolleranti, incivili, troppo spesso egoisti. Certo nel terzo e quarto mondo non sprecano tempo a farsi domande del genere, troppo impegnati a cercarlo, il cibo.

Oltre ad affamare i più poveri ed ingrassare i più ricchi, la globalizzazione sta ridisegnando la geografia delle nostre tradizioni culinarie e probabilmente l’integrazione alimentare si affermerà prima di quella umana, anche se l’incontro tra culture culinarie diverse può generare mostri: mi è sfortunatamente capitato di addentare un kebab e trovarci dentro delle patatine fritte.

Del resto, nel Medioevo europeo l’identità alimentare e gastronomica assistette allo scontro tra il pane, il vino e l’olio dei Romani e la carne, la birra ed i grassi animali della tradizione barbarica, creando un inedito modello di produzione e cosumo: “pane e companatico”, in contrapposizione la civiltà araba rifiutava nettamente sia gli alcolici, sia la carne grassa, ma introduceva nella dieta mediterranea le spezie e rivisitava il gusto dell'agro-dolce e del dolce-salato propri della gastronomia romana.

Veicoli di cultura e cambiamento sociale, gli alimenti rimangono un’ottima cartina al tornasole per distinguere nuove alchimie e identità di gruppo. Più immediato e facile della parola, il cibo ha sempre mediato gli scambi tra culture differenti, divenendo indice di quello che siamo stati, di quello che saremo. È l’unica identità culturale che trae forza dal suo percorso e non dalla sua origine.

Il nostro rapporto con il cibo, gli orari che lo regolano e i luoghi che scegliamo per consumarlo hanno segnato l’evoluzione umana e le sue contraddizioni. Anche il gusto è cambiato seguendo le mode e le esigenze dell’economia; la produzione di massa ha sacrificato il gusto alla quantità e al prezzo contenuto e la moda ci ha fatto fare il pieno di conservanti e coloranti.

L’influenza dei mass-media, anche in questo caso, ha mietuto vittime, ci ha fatto credere che la Coca-cola creasse la felicità familiare e da MacDonald il Big-Mac fosse indispensabile per fare amicizia, qui come a Pechino.

Siamo arrivati probabilmente ad un punto di svolta che vede contrapporsi il cibo sano, biologico e la cucina priva di grassi e con poco sodio e quello proposto dall’industria alimentare, pieno di codici inspiegabili, contenuti misteriosi, lavorazioni che per accontentare l’occhio, ammalano il resto.

La rivoluzione alimentare sembra più vicina di quella sociale, a giudicare dai mille programmi di cucina e dalle mille pubblicazioni sull’argomento. L’ossessione per il cibo, quando non sfocia in bulimia o anoressia,  sembra il segno di una società che, non potendosi soddisfare altrove, lo fa almeno in cucina.   

 

 
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L'arte di assemblare (parte seconda)

Post n°13 pubblicato il 11 Marzo 2013 da maddablog
 
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L’impastare, di per sé, avrebbe avuto anche un certo fascino, affondare le mani dentro a quella melma bianchiccia che mano a mano diventa più dura e giallina, mi dava un brivido inconfessato.

Solo più tardi riconobbi questa mia sensazione come una delle mie prime pulsioni erotiche.

Fu un flash repentino alla vista di una scena di “Ghost”, che mi fece recuperare tutta la farina e le uova rimosse, mentre un’insensata voglia di cappelletti mi assaliva. Per intenderci la scena era quella in cui Demi Moore e Patrick Swayze confondono dita e anime nella creta, aggredendo di eros puro un vaso mai finito.

Ma non divaghiamo, la fatica veniva dopo: tirare una sfoglia enorme. Mia nonna andava a 12 uova a botta, quando la mia apertura alare di allora mi premetteva un raggio di azione minimo.

- Tan se mia buna, verda sat fè (1) , alla fine mi scocciavo e frignavo, mia nonna finiva il lavoro sporco e tirava la sfoglia sottile sottile, lanciandomi un pezzo di impasto per farmi star zitta

– …ma verda te Signur, sa go semper da tribuler! (2) -

Quello era il mio momento magico e la fine della mia tortura, insomma potevo plasmare la pasta come pareva a me e, soprattutto, senza doverla tirare sottile, sottile. Facevo nascere pupazzetti, faccette buffe, mini ciopini (3) di pane, ero l’artefice in stato embrionale di quello che sarei diventata dopo: una terrorista della cucina tradizionale.

Devo a queste vessazioni infantili, infatti, la mia avversione per la pasta fatta a mano ed il mio amore sviscerato per i surgelati ed i cibi pronti, se vivessi ai tempi dell’antica Roma, sul mio domestico altarino dei lari farebbe bella mostra di sé, insieme a tutti gli altri antenati, esclusa ovviamente mia nonna, un bastoncino di pesce impanato e congelato e l’altare avrebbe la forma di un microonde.

 

 

Non bisogna pensare che manchi la fantasia anche nel mondo ghiacciato del cibo sotto zero. Mi considero ormai abbastanza scafata da anni di sinlgetudine culinaria e la competenza che ho acquisito verte principalmente sull’assemblaggio:

Antipasto di vol au vent precotti riempiti di gamberetti e mayonnaise

Risotto al tartufo rigorosamente liofilizzato (in cucina non ammetto razzismi di sorta, anche il liofilizzato è una minoranza da difendere)

Quiche di Pasta sfoglia ovviamente pronta, riempita da una qualsiasi busta di verdure grigliate.

Insalata di pollo (direttamente dalla rosticceria), disossato e sposato a funghi misti (in vasetto)

Tiramisù  con crema (tra i dessert di qualsiasi marca si nascondono insperate prelibatezze) su letto di millefoglie solamente da estratte dal cellophane.

Su un’unica cosa rimango nella tradizione più integralista: la scelta dei vini, che devono essere rigorosamente bianchi e secchi.

 

 

 


  (1) (N.d.T.): non sei capace, guarda cosa fai.

 

(2) (N.d.T.): ma pensa te oh Signore, se devo sempre tribolare!

 

(3) (N.d.T.): coppiette di pane.

 

 

 
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