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L'uccello delle Upanishad

Post n°441 pubblicato il 03 Settembre 2011 da nagel_a


Ammiro lo scivolare chiaro e limpido di certe dissertazioni logiche. Mi piace seguirne il senso, il rigore del metodo, la sequenzialità di tesi, antitesi e sintesi. Persino i paradossi che spesso provocano la scossa di un accostamento inusuale.
E pure se il piacere intellettuale è alto, cerco altro.
Ciò che in me induce a scegliere e distinguere, quel motore che interiormente spinge e costruisce ciò che siamo, mi porta altrove. Alla ricerca di spunti di pensiero che si traducano in emozioni, lungo linee di confine tragiche e assolute come un freddo siberiano.
Mi rapiscono solo le parole che creano immagini, che forgiano mondi. Allora mi accade, percorrendole, di dimenticare l'intorno e di immergermi in quello che si conforma come un viaggio totale. 
Solo una compresenza di scenari mi permette di cogliere prospettive nuove. Come se attraverso il paese delle meraviglie riuscissi a possedere un dettaglio in più del paese reale. Come fosse tracciato un percorso liminare lungo due baratri e solo questo affacciarsi facesse sentire vivi. Come si moltiplicassero i piani della realtà e la fantasia li rendesse paritetici: un ventaglio di possibilità aperte sul tavolo dinnanzi.

La riemersione è straniamento, confusione. Una decompressione lenta e necessaria per ripristinare l'ordine delle cose nella "dimensione principale".

"Dalla contemplazione del limite - di quel necessario perdersi, nascondersi, interrompersi della visione - la vita sembra nutrirsi, come l'uccello delle Upanishad che guarda il frutto senza mangiarlo."
(C. Campo, Gli imperdonabili)

 

 
 
 
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IL REGNO DEL SENSO PROFONDO

"Oltre alla realtà empirica e banale c'era l'ambito dell'immaginazione, costituito da quello stesso mondo percepibile grazie alla vista, al tatto e all'odorato, ma con in più le schiere infinite degli spiriti e delle ombre. [...] Allora non mi capacitavo del fatto che la maggioranza assoluta dell'umanità appartiene al regno del senso profondo non in virtù del proprio sapere - dono assai raro -  bensì della vita, della raggiante, viva sostanza, e che, dunque, accusarli di ignoranza era sciocco e assurdo. Invece di interrogatori, inquisizioni e tormenti, avrei dovuto osservarli e comprenderli. Osservarli con tenerezza e comprenderli con intelligenza"
A. Zagajewski - Due città

 

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