W. SHAKESPEARE - RE LEAR IV
così noi siamo per gli dei,
ci uccidono per gioco."
« veleno | Il ballo » |
Post n°441 pubblicato il 03 Settembre 2011 da nagel_a
La riemersione è straniamento, confusione. Una decompressione lenta e necessaria per ripristinare l'ordine delle cose nella "dimensione principale". "Dalla contemplazione del limite - di quel necessario perdersi, nascondersi, interrompersi della visione - la vita sembra nutrirsi, come l'uccello delle Upanishad che guarda il frutto senza mangiarlo."
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IL REGNO DEL SENSO PROFONDO
"Oltre alla realtà empirica e banale c'era l'ambito dell'immaginazione, costituito da quello stesso mondo percepibile grazie alla vista, al tatto e all'odorato, ma con in più le schiere infinite degli spiriti e delle ombre. [...] Allora non mi capacitavo del fatto che la maggioranza assoluta dell'umanità appartiene al regno del senso profondo non in virtù del proprio sapere - dono assai raro - bensì della vita, della raggiante, viva sostanza, e che, dunque, accusarli di ignoranza era sciocco e assurdo. Invece di interrogatori, inquisizioni e tormenti, avrei dovuto osservarli e comprenderli. Osservarli con tenerezza e comprenderli con intelligenza"
A. Zagajewski - Due città
La citazione è di un'intensità sottile quanto tagliente. Un abbraccio
Concordo pienamente con te, Nagel. Sebbene io sia capace di elucubrazioni pure complesse, a volte, non mi sento schiavo del compulsivo bisogno di scandagliare la realtà che mi circonda.
Come te, anch’io preferisco una linea di passi in bilico tra fantasia e ciò che tu chiami “dimensione principale”.
E anch’io soffro di quei traumatici ritorni al mondo, come stessi nascendo ogni volta in quel momento.
Ricordo chiaramente il giorno in cui per la prima volta la fantasia si mischiò alla realtà svelandomene la durezza. Erano tempi non sospetti e stavo leggendo. Fu in un giorno di maggio della mia adolescenza, che incontrai tra le righe delle Upanishad il mitologico uccello. Ne rimasi come folgorato. Ero lì, estasiato dalla sua eterea sfolgorante presenza quando all’improvviso, come richiamato dal mio pensare, si volse e mi riempì gli occhi di uno sguardo che comprendeva l’infinito. Chiesi timidamente:
“Svelamelo, ti prego. Svelami il mistero di ciò che è; Fammi saggiare il sapore del frutto che ti nutre.”
Allora vidi nel ventre bruno della Terra, e in quel buio brulicante di vita, una luce. “Ecco il frutto, disse una voce, ma non ne conoscerai”
Mi svegliai da quel torpore e cercando di capire quale verità volesse svelarmi l’uccello delle Upanishad e finalmente giunsi all’inevitabile conclusione: ciò che lo nutriva non era un frutto, bensì un tubero, una patata, per l’esattezza; e dalle Upanishad uscirono allora parole crude, di poco conforto, ma di grande verità:
“Ragazzo, sei messo male! Al nostro uccello, almeno, gliela fanno vedere!”