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Post N° 36

Post n°36 pubblicato il 10 Dicembre 2007 da suniz

Questa cosa mi è uscita un paio di settimane fa, e mi andava di condividerla. Non è niente di speciale, una storiella qualunque.
I riferimenti a cose e soprattutto persone realmente esistenti è del tutto casuale e piena di tanto, tanto affetto (per le persone, perché per una o due cose un po’ meno).

NON SI VEDONO PIU’

Un piccolo grande dolore da niente

Quand’erano bambini, Arturo e Federica trascorrevano un mese d’estate a casa dei nonni, in campagna. Non c’era niente di strano in questo; molti altri bambini lo facevano, o almeno così pensavano loro. Comunque fosse, per un intero mese i due bambini dimenticavano le grigie vie cittadine e il costante brontolio dei motori delle auto per smettere i panni di ragazzi di città e diventare due discoli con le ginocchia incrostate, il sedere incollato al sellino della bicicletta vecchia, le unghie delle dita piene di terra e i baffi di marmellata fieramente sbrodolata in faccia. Arturo seguiva il cane dappertutto, fino a sdraiarsi in terra sotto l’apecar dello zio, imitando la bestiola.
Nel cortile della cascina c’era tutto: due altalene, un vecchio carro rimesso a posto alla buona per far loro da casa dei giochi, un fienile stracolmo di attrezzi arrugginiti, il ping pong e il calcetto, due cani, una ventina di galline e tre piante su cui arrampicarsi. L’insieme delle cose era di per sé sufficiente a permettere loro di trascorrere giorni interi senza stare fermi e senza annoiarsi neanche volendolo, ma la campagna offriva molto di più: giovani coetanei cresciuti nei campi, centauri a due ruote ed abili conoscitori dei dintorni; un bosco facente parte del terreno di famiglia in cui era possibile avventurarsi senza mai sapere in cosa si poteva incappare –specie all’imbrunire, quando le cose si facevano più eccitanti- e che sfociava in altri terreni incolti fino a dove si poteva arrivare; un vecchio ed emozionante casolare abbandonato ormai in rovina, perfetto per le sfide di coraggio; e tutta una serie di nonnine e vecchietti brontolanti sempre pronti a sganciare una caramella.
Per questo, tutto sommato, quindici anni dopo, quando mamma Alessia si mise in testa di andare a vivere lì, nessuno dei suoi due figli ebbe minimamente da ridire: non abitavano più coi genitori, il che sicuramente li influenzava, e difatti l’idea di andarli a trovare nella casa di famiglia era così ancor più gradevole. Un modo per staccare la spina nei confronti del mondo, immersi nella campagna silenziosa e lontana da tutto.
I suoni, in effetti, erano la cosa che a Federica dava una più forte impressione, quando andava in campagna. Non erano solo suoni diversi da quelli della città, avevano  addirittura un’altra qualità; la consistenza stessa del rumore pareva cambiare natura. Ogni suono diventava netto, completo e percettibile. Mancava completamente il brusio di sottofondo che costituiva l’immancabile colonna sonora di ogni momento silenzioso della città: nella quiete dei campi il silenzio era vero, e su quello sfondo muto il minimo rumore risaltava con dignità ritrovata.
Arturo e Federica non ci facevano caso, da piccoli. Per cominciare erano troppo impegnati a divertirsi, inoltre non avevano proprio per la testa di sprecare tempo prezioso con banali riflessioni filosofiche sulla bellezza della natura: era lì, era normale. Per dei bambini l’istante presente è eterno, e quel che c’è non cambierà mai.
Non facevano caso a come il frinire dei grilli sembrasse quasi assordante, o al modo in cui il semplice uggiolio di un cane, in una cascina dall’altro lato della collina, risuonasse lontano nella notte taciturna. Ma c’era una cosa che Federica invece notava con ammirato stupore già da bambina, concluso il tempo massimo consentito per la televisione dopocena.
Le stelle.
La notte pareva trasportare in un altro universo. Sollevando appena il naso verso il cielo, i suoi occhi rotondi venivano bombardati da un’immensità di astri risplendenti in un nero terso e così nitido da dare l’impressione dell’infinita profondità di quello spazio senza fine. Il cielo non era più una volta grigia con appiccicati dei lumicini ma diveniva una res concreta, un luogo fisico inconcepibile ma presente che si dipanava per lunghezze impossibili da immaginare, acquisiva concretezza e si puntellava di magnifiche costellazioni formate di corpi celesti enormemente diversi tra loro anche ad occhio nudo.
Federica crescendo scoprì di amare quel cielo così contrastato, nero e brillante, come poche altre cose. La riportava in qualche modo ad un contatto più reale con la realtà, e il buio della campagna restituiva una maggior spessore ad ogni cosa, rendendo al mondo la sua essenza più reale.
Quel cielo pece lei lo poteva osservare per ore. Qualche volta, intorno ai vent’anni, quando tornava dalla madre invitava a casa uno degli amici più intimi, soltanto per sedere in terrazza in silenzio e guardare le stelle. Non sapeva se loro capissero il perché, o se provassero quella stessa sensazione di muta ammirazione che i Romantici chiamavano sublime, mista di sbigottimento e meraviglia spruzzati d’inquietudine, o ancora se il loro pensiero, come il suo, si perdesse nei più remoti meandri dell’intimo: semplicemente la loro tacita compresenza li portava ad un livello più vicino di contatto.
Qualche volta invece capitava che i due fratelli si ritrovassero nella casa di famiglia nel medesimo periodo, e allora alla sera tardi, quando i genitori erano ormai addormentati, Arturo e Federica aprivano la finestra di una delle loro camere, nella notte priva di suono e colore, ed osservavano le fronde degli alberi perdersi in lontananza confuse al cielo, tra il canto delle civette e gli scricchiolii inspiegabili del bosco, e oltre la pianura distante, costellata di luci in fila, tanto più povere e insignificanti di quelle che splendevano sopra le loro teste. E con uno spinello tra le dita chiacchieravano, svelando confidenze di cui loro e il cielo sterminato erano gli unici testimoni.
Il mondo attraversava un’epoca incerta in cui il lume della ragione pareva talvolta aver abbandonato i suoi figli. L’attitudine all’onnipotenza degli uomini superava ogni vincolo che la logica avrebbe dovuto imporre e lo spirito frenetico di conquista e devastazione, frustrato dall’ormai apparente padronanza di ogni nuovo lembo di terra, si accaniva con feroce disprezzo su quella natura mai del tutto controllata. Mostri di cemento si ergevano al cielo in un dubbio inno trionfale e la fame di ricchezza spingeva ad ogni bassezza in nome del guadagno.
Era, dunque, l’inizio del terzo millennio della storia dell’uomo dopo la venuta di Cristo, tristo figuro la cui santa lezione di armonia era ormai stata annullata e sostituita dalla solenne pompa magna delle cattedrali. Il medio oriente veniva ciclicamente bombardato con pretesti messi insieme più o meno alla buona e le officine producevano automobili sempre più rapide che comunque non potevano correre alla velocità massima loro attribuita senza superare di almeno due volte il limite consentito in ogni stato del pianeta, il che rendeva perlomeno vano il dispiegamento di tanta potenza.
Tutto proseguiva nella norma, insomma.
Con il resto, anche le loro vite si dipanavano più o meno tranquillamente, punteggiate dalle normali incertezze e i consueti dubbi. Eppure Federica non si sarebbe mai dimenticata il fatal giorno in cui il cantiere aprì, o per meglio dire il giorno in cui lei tornò per la prima volta dall’apertura del cantiere.
Era una ben triste distesa di macchinari e cemento fresco, con alte gru e scavatrici piantate oltre le brutte transenne arancioni. Si prolungava per qualche chilometro rosicchiando la terra alla natura e ai proprietari, espropriati in favore del progresso comune senza essersi potuti granché esprimere in merito alla direzione che quel progresso nei loro sogni avrebbe dovuto prendere.
Li chiamavano centri commerciali ed erano ritenuti la nona meraviglia dell’umanità, ma in realtà si trattava di semplici palazzoni metallici e asfaltati innalzati al dio consumo. Non avevano niente di speciale e non servivano a molto, se non abbruttire il panorama. Semplicemente erano lì. Apparentemente.
A scavare sotto la superficie si scoprivano biechi interessi e comuni tentativi di sfrenato profitto, oltre che sicure fonti d’ulteriore inquinamento, ma non risaltava granché all’occhio; Federica stessa, fino ad allora, non s’era mai posta grandi domande in merito ai gemelli del gigante di calce che lentamente prendeva forma ai piedi della collina. Ma questa volta era diverso: l’intruso le compariva sotto casa, spuntato come un fungo velenoso alla base del castagno.
Provò a dir qualcosa agli amici e ai conoscenti, a far notare che era un abominio, un errore: le diedero ragione. Si mise in moto timidamente per alzare una voce che potesse raggiungere un uditorio più ampio, e fu più o meno allora che iniziò a comprendere la natura dei meccanismi di potere: le porte erano sbarrate, le bocche tappate, e i pochi temerari che avevano tentato il medesimo passo le sorridevano sconfitti da sopra il boccale della birra, raccontando con quieta rassegnazione dei loro fallimenti. Ritornò agli amici in cerca d’appoggio, per sentire di lavoro al supermercato, cassiere, libraio. Nemmeno poteva volerne loro: il sistema implacabile stringeva la sua morsa e l’opposizione, in silenzio, annegava.
E l’intruso cresceva, più alto, più ampio, con piedi di cemento e chiome di ferro. Fari immani illuminavano il terreno a giorno, ad ogni ora. Gli imprenditori si stringevano la mano compiaciuti e i mercanti di soldi annuivano soddisfatti.
Federica non era contenta, invece. Federica non aveva voglia di guardare il campi far posto ad un parcheggio piatto e grigio in perpetuo imbottigliamento. Federica, ad essere onesta, se ne sbatteva altamente del fatto che qualche amico avrebbe avuto un posto da cassiere con cui arrivare a fine mese; e se l’amico, chiunque fosse, avesse fatto mente locale e tentato di guardare le cose in prospettiva, probabilmente le avrebbe anche dato ragione. Federica sapeva, e non perché fosse particolarmente acuta ma perché le stava sotto gli occhi, che a guadagnarci, alla fin fine, sarebbero stati i soliti. Federica aveva voglia di piangere perché pensava ad un libro che aveva letto anni prima, la storia di un paesino di montagna mutilato e poi svilito fino all’agonia da un’autostrada enorme che ne spazzava via la fisionomia, col sindaco che era uno dei maggiori azionari. Federica, seduta in un bar qualunque in una via qualunque di una città qualunque distante centinaia di chilometri, sbatteva il bicchiere sulla superficie di legno e, in quella lingua straniera, raccontava con voce tagliente e gran sfolgorio di denti indignati la storia del suo centro commerciale. Era il suo nemico giurato.
Naturalmente era una guerra persa ancora prima di combatterla; il centro commerciale aprì i battenti in una normale mattinata di novembre e la folla si riversò al suo interno; per un paio d’anni la crescita economica era assicurata. E dopo, tanto, gli appalti erano già stati venduti. Che importava, ai soliti, se fosse fallito tutto? Ormai le loro tasche erano piene, come e molto più di prima. Per cui le casse trillarono e la svendita della vita incominciò.
E poi a Federica capitò di passare da casa. Prima, però fece una tappa dal fratello.
Arturo la andò ad aspettare in stazione, nella sua grande città poco distante. Tra le prime cose che le disse, quasi distrattamente, guardando fisso la strada come se qualcuno lo stesse costringendo, fu che adesso le stelle non si vedevano più bene. Si vedevano bene i fari, quelli sì, e il loro alone freddo a bianco si protendeva nel cielo, spingendo le sue propaggini slavate fino a metà altezza.
Federica pensò che non doveva piangere. Non era importante, erano solo stelle. Ma né lei né il fratello sorrisero, in quel momento, e Arturo cambiò marcia mormorando che era uno schifo. Non ne parlarono più per il resto della serata, né il giorno dopo, e quello dopo ancora, e Federica partì per la campagna come se non si fossero mai detti nulla.
Arrivò che il solo era già tramontato, trascinando in camera le valigie mentre i genitori la aspettavano in cucina. E la prima cosa che fece, senza dir nulla, con la percezione precisa e consapevole del dolore che si stava infliggendo, fu aprire la finestra e guardare il cielo notturno. Rimase immobile, con gli occhi spalancati e gonfi di lacrime silenziose e discrete, e guardò attentamente il grigiore del cielo con così poche stelle, quel cielo in cui di solito ne risplendevano tante da superare la fantasia, lo scrutò a fondo per imprimerselo nella memoria e poter odiare, ogni giorno, senza un obiettivo particolare. Singhiozzò in silenzio, una, due volte, mentre il suo stomaco si strappava da qualche parte e le faceva male d’impotenza. Osservò ancora la notte violentata fuori dalla sua finestra gridando dentro se stessa che un giorno qualcuno avrebbe pagato: non importava né chi, né come, ma avrebbe dovuto accadere, se solo c’era un po’ di giustizia. Se c’era.
E poi, chiuse la finestra su quella parte di se stessa che le veniva rubata e che nessuno le avrebbe restituito più. Si ripeté, un’altra volta, che non era grave, erano solo stelle. E le stelle non si possono possedere, l’uomo d’affari del Piccolo Principe era solo un buffone che contava tanto per nulla. Le stelle non danno profitto, non servono a niente.
Non si può neanche toccare, una stella. E’ soltanto un puntino bianco e lontanissimo che si può immaginare, non ha valore rispetto a ciò che è concreto, materiale, terreno.
Il mondo è vicino.

 

 

 
 
 
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