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Agostiniani, 750 anni di cultura dello spirito

Post n°11 pubblicato il 11 Novembre 2006 da eleperci
 

Semplicità, moderazione e amore per lo studio i motivi del “successo” di uno degli ordini più diffusi al mondo

di ELENA PERCIVALDI

«Il motivo essenziale per cui vi siete insieme riuniti è che viviate unanimi nella casa e abbiate una sola anima e un sol cuore protesi verso Dio. Attendete con alacrità alle preghiere nelle ore e nei tempi stabiliti. Domate la vostra carne con digiuni ed astinenza dal cibo e dalle bevande, per quanto la salute lo permette.  Il vostro abito non sia appariscente; non cercate di piacere per le vesti ma per il contegno.  Si obbedisca al superiore come ad un padre, col dovuto onore per non offendere Dio nella persona di lui. Ancor più si obbedisca al presbitero che ha cura di tutti voi.  Liti non abbiatene mai, o troncatele al più presto; altrimenti l'ira diventa odio e trasforma una paglia in trave e rende l'anima omicida. Così infatti leggete: “Chi odia il proprio fratello è un omicida”». Poche, semplici direttive quelle dettate da sant’Agostino, ma che avrebbero segnato un’impronta indelebile nella storia della spiritualità dell’Occidente cristiano, fatte proprie da uno degli ordini religiosi più diffusi in tutto il globo, gli Agostiniani.

Correva più o meno l’anno 400 e Agostino, già vescovo di Ippona, da tempo era impegnato a chiarire e difendere i princìpi fondamentali della fede cristiana contro le dilaganti eresie che percorrevano il secolo. Erano tempi cupi, quelli, per la i cristiani e per Roma: manichei, donatisti e pelagiani negavano i principali dogmi del Cristianesimo, i barbari premevano alle porte dell’impero, di lì a poco l’Urbe sarebbe stata invasa e devastata dai goti di Alarico, un evento-choc  che avrebbe dato un volto alla crisi e reso per la prima volta davvero tangibile il senso dell’imminente fine di un’epoca.

Così, tra gli ultimi bagliori di un impero sull’orlo del precipizio (la fine ufficiale sarebbe giunta nel 476), Agostino dalle coste africane cercava, papiro e calamo alla mano, di salvare il salvabile tracciando in trattati, sermoni ed epistole, le linee guida per combattere il nemico. Primo, mettere ordine nel seno stesso della comunità cristiana. Già poco tempo dopo la sua conversione, avvenuta a Milano per merito di Ambrogio, era tornato nella natia Tagaste, l’odierna Suq-Ahras in Algeria, per iniziare una vita improntata alla preghiera, allo studio e alla contemplazione. Diventato presbitero, nel 391 era riuscito ad ottenere un terreno dove ospitare una comunità laica che condivideva i suoi stessi scopi: non un vero e proprio ordine religioso, ma un gruppo di persone che sceglievano liberamente di vivere secondo i princìpi dei primi cristiani di Gerusalemme. A questi, dunque, egli si rivolse in vari scritti – il “De opere monachorum”, i Sermoni 355, 356 e 423, e l’Epistola 211 -  nei quali, ispirandosi all’ideale della “fuga mundi”, la rinuncia cioè ai legami con i beni terreni, li esortava a riunirsi in comunità onde potersi aiutare spiritualmente a vicenda e superare insieme le tentazioni del secolo.

Nominato vescovo di Ippona, Agostino continuò ad ispirare le scelte dei chierici che vivevano con lui,  fondando in seguito anche un monastero femminile e dando così vita ad un modello tripartito di vita religiosa - maschile laicale, maschile clericale e femminile - che avrebbe avuto immensa fortuna nei secoli a venire. A decretare il successo della “regola agostiniana” (nel V secolo in Africa i monasteri agostiniani erano già 35) contribuì l’esodo di massa di monaci e sacerdoti (come Quodvultdeus, che da Cartagine si stabilì nei pressi di Napoli, o San Fulgenzio da Ruspe, arrivato in Sardegna) che, incalzati in Nordafrica dai Vandali, fuggirono sul Continente europeo portando ovunque i precetti dettati dal Santo. A favore della loro diffusione giocarono vari fattori, la semplicità innanzitutto, ma anche l’assenza di grandi mortificazioni imposte: il cibo, frugale, era però sempre sufficiente e gli abiti (tunica e mantello), per quanto modesti, erano comunque simili a quelli della stragrande maggioranza della popolazione dell’epoca. Niente a che vedere con gli eccessi degli eremiti del Vicino Oriente, che per umiliare i sensi e tenere a bada le tentazioni vivevano vestiti di cenci e mangiando locuste in remote grotte nel deserto, oppure facevano trascorrere i giorni abitando in cima a una colonna, restando esposti alle intemperie.

Figura chiave del sistema agostiniano era l’abate, vero e proprio “padre spirituale” della comunità – e infatti il termine deriva dall’aramaico “ab”, padre -, che aveva il compito di guidare i monaci, a lui vincolati dall’obbedienza, vigilando sulla loro osservanza della castità e della povertà. Compito preminente di ciascun membro era la preghiera, lavorando all’occorrenza, ognuno secondo le proprie possibilità, per il sostentamento della comunità.

La grande quantità di codici che conservano la “Regola di Sant’Agostino” mostra quanto essa fu diffusa e applicata per tutto il Medioevo, nonostante la “concorrenza” di altri regole monastiche, benedettina in primis. Ad essa guardarono molte comunità che, in epoca carolingia, la utilizzarono come base organizzativa. Ad essa si ispirarono, nel clima di riforma che si respirava subito dopo il Mille, monasteri e capitoli di cattedrali in tutta Europa, dai canonici di San Vittore a Parigi ai Premostratensi, ai canonici del Laterano. E ad essa si conformarono,  Cluniacensi e Cistercensi, i nuovi ordini religiosi che videro la luce nell’Europa del XII e XII secolo.

A farla propria in tutto e per tutto, però, furono gli Eremitani, ordine mendicante che, richiamandosi alla vita che aveva saputo condurre  Sant’Agostino, cercarono di conciliare la vita in comune con la pratica eccellente degli studi. Eruditi di fama straordinaria, si diedero da fare non solo per custodire il patrimonio spirituale e culturale ereditato dai Padri della Chiesa, ma anche per tramandare l’eredità classica ai posteri. Il loro primo atto di nascita viene fatto risalire alla bolla “Incumbit nobis” promulgata il 16 dicembre del 1243 da papa Innocenzo, che conteneva l’invito alla comunità di eremiti della Tuscia a riunirsi per costituire un unico ordine religioso secondo, appunto, la regola di Sant’Agostino, eleggendosi un priore generale e redigendosi le proprie costituzioni. Nel marzo del 1244, gli eremiti celebrarono un capitolo di fondazione a Roma sotto la guida del cardinale Riccardo degli Annibaldi, dando così vita all’Ordine degli Agostiniani.

La data però forse più importante è quella del 9 aprile 1256, quando papa Alessandro IV, con la bolla “Licet Ecclesiae catholicae”,  confermava l'unione degli Eremiti della Tuscia con quelli di Giovanni Bono, di San Guglielmo, di Brettino, di Monte Favale  e di altre congregazioni minori, tutte destinate a prendere il nome collettivo di Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino sotto il priorato del milanese Lanfranco Settala. In questo modo si poneva fine – in un processo iniziato già da Innocenzo III agli inizi del Duecento – al proliferare incontrollato dei gruppi  religiosi (che sovente si spingevano anche ai limiti dell’ortodossia), foriero di confusione e persino di sgomento nel seno della Chiesa.

Gli Eremiti agostiniani -  forti di 180 conventi tra Italia, Austria, Germania, Svizzera, Paesi Bassi, Francia, Spagna, Portogallo, Ungheria, Boemia e Inghilterra -  entravano così, con francescani e domenicani, nel novero degli ordini mendicanti.  Ma la loro identità, lungi dall’essere definita una volta per tutte, si sarebbe di lì a poco manifestata in tutta la sua complessità frammentandosi in una miriade di congregazioni, caratterizzate ora dalla predilezione per la vita austera, ora dall’amore per lo studio, ora dall’apostolato missionario, dando anche, in Estremo Oriente come nella Spagna della Guerra Civile,  numerosi martiri. Agostiniani furono santi come Nicola da Tolentino e Rita da Cascia, teologi come Gregorio da Rimini. E agostiniano fu anche Martin Lutero, oscuro monaco originario della Turingia, destinato, avviando  la Riforma che avrebbe preso il suo nome, a cambiare  per sempre il corso della Storia.

 

 
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IL SECOLO D'ITALIA  01 gennaio 2009 p.8 - RECENSIONE
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1 novembre, Europa tra sacro e profano

1 novembre, Europa tra sacro e profano. Ne hanno parlato al microfono di Giulia Fossà: Elena Percivaldi, giornalista e studiosa di storia antica e medievale; Flavio Zanonato, sindaco di Padova; Marino Niola, Professore di Antropologia Culturale all'Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli; Sonia Oranges, giornalista de 'Il Riformista'; Alberto Bobbio, capo della redazione romana di 'Famiglia Cristiana'; Ennio Remondino, corrispondente Rai in Turchia. La corrispondenza di Alessandro Feroldi sulle politiche dell'immigrazione a Pordenone.

ASCOLTA: http://www.radio.rai.it/radio1/nudoecrudo/view.cfm?Q_EV_ID=230636

 

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Volti, cerimonie rituali, frammenti di vita in seno ai templi delineano attraverso la fotografia i segni del ritratto di un mondo in cui le difficoltà morali, il fervore spirituale e la profondità d’animo vanno di pari passo con la gentilezza, l’allegria e l’immensa generosità.  Le suggestive immagini in bianco e nero, fortemente spirituali, della prima parte del volume si contrappongono alle intense fotografie a colori dedicate alla realtà di tutti i giorni (centri commerciali, prostitute) pubblicate nella seconda parte. Il libro è introdotto da un accorato messaggio di pace del Dalai Lama che pone l’accento sulla grande forza d’animo con cui il popolo tibetano affronta continuamente ardue prove nel tentativo di continuare a perpetuare l’affermazione delle proprie idee e della propria spiritualità.

 

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