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Post N° 10

Post n°10 pubblicato il 06 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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Da quindici anni abitiamo la stessa casa.
Conosci il mio odore, il mio passo, il modo in cui tocco le cose, la mia voce priva di squilibri, conosci i lati morbidi del mio carattere e quelli ostili, talmente irritanti da diventare indifendibili.
Non so che idea ti sei fatta di me, ma posso immaginarla.
L'idea di un padre responsabile, non privo di un sardonico senso dell'umorismo, ma troppo appartato.
Sei legata da un sentimento saldo a tua madre, iroso a volte, ma vivo.
Io sono stato un completo da uomo, appeso a lato della vostra relazione.
Più che la mia persona, di me hanno raccontato le mie assenze, i miei libri, il mio impermeabile all'ingresso.
E' un racconto che io non conosco, scritto da voi con gli indizi che vi ho lasciati.
Come tua madre, anche tu hai preferito sentire la mia mancanza, perchè avermi forse ti costava fatica.
Tante volte uscendo al mattino ho avuto la sensazione che foste voi due insieme, la vostra energia, a spingermi verso la porta di casa per liberarvi del mio ingombro.
Amo la naturalezza della vostra unione, la guardo con un sorriso, voi, in qualche misura, mi avete protetto da me stesso.
Io non mi sono mai sentito "naturale", mi sono impegnato per esserlo, tentativi striduli, perchè impegnarsi per essere naturali è già una sconfitta.
Così ho accettato il modello che mi avete ritagliato nella carta velina dei vostri bisogni.
Sono rimasto un ospite fisso a casa mia.
Non mi sono indignato nemmeno quando in mia assenza, durante le giornate di pioggia, la cameriera ha spostato il stenditoio con i vostri panni accanto al calorifero ne mio studio.
Mi sono abituato a queste umide intrusioni senza ribellarmi.
Sono rimasto sulla mia poltrona senza poter allungare troppo le gambe, ho posato il libro sulle ginocchia e mi sono fermato a guardare la vostra biancheria.
Ho trovato in quei panni umidi una compagnia che forse superava quella delle vostre persone, perchè in quelle trame sottili e candide io catturavo il profumo fraterno della nostalgia, di voi, certo, ma sopratutto di me stesso, della mia latitanza.
Lo so, Angela, per troppi anni i miei baci, i miei abbracci sono stati goffi, stentati.
Ogni volta che ti ho stretta, ho sentito il tuo corpo scosso da un fremito d'impazienza, se non addirittura di disagio.
Non ti ci trovavi, ecco tutto.
Ti è bastato sapere che c'ero, guardarmi in lontananza, come un viaggiatore appeso al finestrino di un altro treno, scialbato da un vetro.
Sei una ragazza sensibile e solare, ma di colpo il tuo umore cambia, diventi rabbiosa, cieca.
Ho sempre avuto il sospetto che questa ira misteriosa, dalla quale riaffiori sconcertata e un pò triste, ti sia cresciuta dentro per causa mia.
Angela, a ridosso della tua schiena incolpevole c'è una sedia vuota.
Dentro di me c'è una sedia vuota.
Io la guardo, guardo la spalliera, le gambe, e aspetto, e mi sembra di ascoltare qualcosa.
E' il rumore della speranza.
Lo conosco, l'ho udito affannarsi negli occhi delle miriadi di pazienti che ho avuto davanti, l'ho sentito fermarsi in stallo tra le mura della sala operatoria, ogni volta che ho mosso le mie mani per decidere il corso di una vita.
So esattamente di cosa m'illudo.
Nei grani di questo pavimento che ora si muovono lenti come fuliggine, come ombre morenti, m'illudo che quella sedia vuota si riempia anche per un solo lampo di una donna, non del suo corpo, no, ma della sua pietà.
Vedo due scarpe décolletées color vino, due gambe senza calze, una fronte troppo alta.
E lei è già davanti a me per ricordarmi che non un untore, un uomo che segna senza cautela la fronte di chi ama.
Tu non la conosci, è passata nella mia vita quando ancora non c'eri, è passata ma ha lasciato un'impronta fossile.
Voglio raggiungerti, Angela, in quel limbo di tubi dove ti sei coricata, dove il craniotono scassinerà la tua testa, per raccontarti di questa donna.

 
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