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Post N° 17

Post n°17 pubblicato il 09 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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Le pale del ventilatore cominciarono a muovere fiaccamente l'aria calda che c'era nel locale, un tovagliolo volò in terra, mi chinai a raccoglierlo.
Scorsi qualche lurido truciolo di segatura e più in là le gambe dei due giocatori.
Quando tornai su mi accorsi che la mia testa aveva risentito di quello spostamento repertino e si era appesantita di sangue.
Il barista posò il bicchiere con la vodka sul mio tavolo.
Me la tirai dentro in un solo fiato.
I miei occhi galleggiarono verso il juke-box.
Era un modello vecchio di un azzurro screziato, dallo schermo si vedeva il braccio di metallo che scivolava sui dischi quando era in funzione.
Pensai che mi sarebbe piaciuto ascoltare una canzone.
Una qualunque.
Mi tornò in mente il volto di quella donna, troppo carico di trucco, che dondolava, bifolco e attonito, dentro la luce che proveniva dal basso di quella scatola musicale.
Una pallina schizzò fuori dal calciobalilla e ruzzolò a terra.
Prima di uscire, lasciai una buona mancia al ragazzo, che posò la spugna con la quale stava ripassando il banco e inghiottì il denaro nella mano bagnata.
Camminai nuovamente verso l'officina.
Davanti a me un gruppo di bambini seminudi arrancavano carreggiando un sacco della spazzatura colmo d'acqua che pisciava da più parti.
La serranda del meccanico finalmente era ammezzata, chinai la testa ed entrai.
Dentro, sotto i seni oliati di una ragazza calendario, trovai un uomo robusto, più o meno della mia età, strizzato dentro una tuta da lavoro nera di grasso.
Montai con lui a bordo di una vecchia Dyane dai sedili infuocati e raggiungemmo la mia auto.
C'erano da sostituire la pompa dell'olio e il manicotto.
Tornammo indietro per prendere i pezzi di ricambio.
Il meccanico mi scaricò davanti all'officina, buttò nel bagagliaio gli attrezzi necessari, e ripartì.
Ciondolai a zonzo, la camicia sudata, gli occhiali appannati, ormai incurante del caldo.
La flemma indotta dall'alcol coincideva però con un mio desiderio più intimo.
Avevo pompato duro in quell'ultimo anno di successi, ero sempre presente, sempre reperibile.
Per puro caso scivolavo fuori dal radar, e ora quell'assenza che mi concedevo mi pareva un premio improvviso, ora che non mi ribellavo più e mi abbandonavo ad essa come un turista.
Tornai accanto al palazzo occupato.
I bambini avevano svuotato l'acqua su un cumulo di pozzolana e stavano costruendo una capanna, una sorta di grande uovo nero.
Rimasi a guardarli, inebetito sotto il cielo rovente.
Mia madre non voleva che io scendessi in cortile a giocare con gli altri bambini.
Dopo il matrimonio si era adattata a vivere in un quartiere popolare.
Non era affatto triste, nemmeno così decentrato, era popoloso e allegro.
Ma tua nonna si rifiutava di guardare fuori dalle finestre, per lei quel quartiere non era triste, la tristezza sapeva bene come sopportarla, no, era molto peggio, era un gradino al di sotto della miseria.
Era l'ultima soglia prima dei suoi fantasmi.
Viveva segregata in quell'appartamento come su una nuvola dove aveva ricostruito il suo mondo, dove aveva sistemato il suo pianoforte e suo figlio.
Avrei voluto in certe languide ore del pomeriggio spingermi verso quella vita che vedevo brulicare in basso, ma non me la sentivo di umiliarla.
Finsi che anche per me quel mondo non esistesse.
Frettolosa, lei m'infilava sull'autobus che ci portava verso la sua casa di famiglia, verso sua madre, e in quel posto pieno di alberi e villini io potevo finalmente aprire gli occhi.
Lì lei era radiosa, era un'altra.
Insieme ci buttavamo sul letto di quella che era stata la sua camera da ragazza e ridevamo.
Faceva il suo carico di energia e anceh la sua persona si riempiva di un nuovo splendore.
poi si rinfilava il cappotto e lo sguardo di sempre.
Tornavamo che era già buio, quando fuori non si vedeva nulla.
Dalla fermata alla porta di casa lei correva, terrorizzata da quell'abisso che la circondava.

 
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