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Post N° 16

Post n°16 pubblicato il 08 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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Il caldo era sempre lì, galleggiava nell'aria, muoveva impercettibilmente le cose.
L'asfalto cedeva molle sotto le mie scarpe.
Mi misi ad aspettare l'ora della riapertura accanto alla saracinesca sbarrata dell'officina.
Di nuovo sudavo, e di nuovo avevo sete.
Tornai verso il bar.
Chiesi ancora una volta dell'acqua, ma poi, quando il ragazzo dal viso butterato si spostò lasciando libera la teoria di bottiglie dietro la sua testa, cambiai idea e ordinai una vodka.
Me la feci versare in un bicchiere largo e chiesi del ghiaccio che lui raccolse dal fondo di un contenitore di alluminio, e che forse sciogliendosi avrebbe sprigionato lo stesso odore che risaliva da lì, di maionese rancida, di straccio da pavimento mal custodito.
Andai a sedermi in fondo al locale, accanto al juke-box.
presi un sorso lungo e rumoroso, l'alcol mi penetrò dentro come un dolore secco, una fiammata che si sciolse subito in una frescura protratta e intensa.
Guardai l'orologio, avevo ancora un'ora e pi di tempo.
Non ero abituato agli intervalli, Angela.
Avevo appena quarant'anni e già da cinque ero aiuto primario di chirurgia generale, il più giovane dell'ospedale.
La clientela del mio studio privato era in crescita, e con un pò di riluttanza, ma sempre più spesso, operavo in clinica.
Mi sorprendevo ad apprezzare quei luoghi a pagamento, puliti, organizzati, silenziosi.
Avevo appena quarant'anni e forse già non amavo più il mio mestiere.
Da ragazzo mi ero mosso con veemenza.
Dopo la specializzazione, i primi anni di pratica erano stati febbrili, gagliardi, come quel pugno sferrato a un infermiere colpevole di non aver atteso che l'autoclave a vapore per sterilizzare i ferri finisse correttamente il suo ciclo.
Poi, senza quasi accorgermene, un velo di pacatezza, accompagnato da un blando sentimento di disillusione, mi era sceso addosso.
Ne avevo parlato con tua madre, lei aveva detto che stavo semplicemene scivolando nell'abitudine della vita adulta, una transizione necessaria e tutto sommato gradevole.
Avevo appena quarant'anni, e giò da un pezzo avevo smesso d'indignarmi.
Non che avessi venduto l'anima la diavolo, semplicemente non l'avevo offerta agli dei, me l'ero tenuta in tasca, in quella tasca di grisaglia estiva dove si trovava adesso dentro quel brutto bar.
La wodka mi aveva dato un colpo di vita.
"Fa caldo, accendi!" sbottò, guardando le pale spente del ventilatore, un ragazzo alto, tutto sporco di calcina, mentre si dirigeva verso il calciobalilla seguito da un compagno tarchiato.
Con un colpo secco tirò la leva cilindrica e le palle rotolarono giù dalla pancia di legno.
Il tarchiato gettò la prima palla sul campo, lasciandola cadere dall'alto con un gesto forte, che doveva corrispondere a una specie di rituale, poi il gioco cominciò.
I due parlavano poco, le mani strette sulle impugnature, ruotavano i polsi assestando colpi precisi e duri che facevano vibrare le aste di metallo.
Svogliatamente, il ragazzo del bar uscì dal  bancone asciugandosi le mani bagnate sul grembiule e mise in funzione il ventilatore.
Mentre tornava verso il banco, gli allungai il bicchiere: "Portamene un altro, per favore".

 
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