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Post N° 55

Post n°55 pubblicato il 07 Novembre 2005 da unaqualunque_s
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Una donna faceva il bagno nel mare, la sua testa scompariva e riaffiorava tra le schiume.
Uscì dall'acqua fino alla vita.
Si strizzò i capelli, attorcigliandoseli con le mani, poi scosse la testa.
Camminò fino alla riva, nell'acqua sempre più bassa il suo corpo si rivelò a poco a poco.
Indossava un due pezzi turchese.
Non era abbronzata.
La pancia bianca leggermente prominente, come quella di un bambino che ha appena mangiato.
Avanzava verso di me, oscillando le anche ossute.
Credetti di sentire il fruscio del suo respiro, le gocce di mare che si staccavano dal suo corpo in movimento e ricadevano sulla sabbia.
Credetti di voler alzare un braccio per fermarla, ma nessun gesto si staccò da me.
Tutto era immobile, congelato.
Lei sola si muoveva al ralenti.
Incastonato nel mio blocco di pietra, aspettavo la fine.
Passò, e nemmeno trovai il coraggio di seguirla con la testa, avevo il collo indurito dallo choc.
Ma nelle iridi rimaneva il miraggio di lei, quella sagoma deperita che si avvicinava scalzando la sabbia.
Poi tornò il sonoro intorno a me, il soffio del vento che si era levato ancora, e, a poco a poco, le chiacchiere di mia suocera sempre più presenti, il duro respiro di mio suocero.
Come quando ci si avvicina alla riva con la barca, e si ricomincia a sentire sempre più prossimo il murmire della spiaggia.
Allora mi voltai, alle mie spalle trovai solo il muro farinoso delle dune, Italia era scomparsa.
Trascorsi quel che avanzava del giorno in trance.
Tutto mi sembrava eccessivo, troppo acute le voci, troppo invasivi i gesti.
Chi era quella gente ottusa che mi viveva intorno, che stazionava nella mia casa?
E dire che un tempo mi era sembrato un bel balzo sociale imparentarmi con questa specchiata famiglia di imbecilli!
A cena faticai per portare la forchetta verso la bocca.
Quel transito dal piatto alle labbra era diventato lunghissimo.
Mi alzai da tavola per andare in bagno.
Nel corridoio lo yorkshire terrier di mia suocera saltò fuori da un angolo buio, digrignando i denti.
Slanciai la gamba e colpii quel cagnetto da salotto.
Zoppicando, filà di là dalla padrona, che gli stava già correndo incontro.
"Scusami, Nora, l'ho urtato per sbaglio."
Mi stesi in terra sul tappeto in una delle stanze al piano di sopra.
Mi sentivo uno di quei fiacchi vermi che d'estate pencolano appesi a un viticcio secco, quei vermi che, storditi, cascano in terra senza rumore.
Dopo cena i genitori di Elsa se ne andarono, io mi mossi subito dopo.
Elsa mi aveva raccomandato di scortarli fino alle prime luci della città.
Mio suocero giudava lentamente lungo quelle strade buie che non conosceva troppo bene.
Oltre il parabrezza, osservavo quelle due teste immobili, mute.
A cosa stavano pensando?
Alla morte forse, è facile pensare alla morte la domenica sera.
Oppure alla vita, a una cosa da comprare, da mangiare.
A quella vita che in ultimo diventa solo voracità.
Si prende e non si ha più il desiderio di dare qualcosa in cambio.
Verso quello stesso silenzio io e Elsa ci stavamo incamminando.
La solitudine che lambivo come i fari sarebbe stata nostra tra qualche anno.
Due fantocci correvano davanti a me nella notte.
Ero ancora in tempo per fermare quel viaggio e riconsegnarmi alla vita, una vita diversa nella quale magari non avrei fatto in tempo a raggiungere quelle figure anziane.
Sterzai e mi fermai ai margini dell'asfalto.
La macchina dei mie suoceri scomparve davanti a me oltre la curva nera.
Quella sera sentivo che sarei morto giovane, e che Italia era un dono al quale non avrei rinunciato.
"Come hai fatto a trovare la casa?"
"Ho camminato sulla spiaggia."
"Ma perchè?"
"Volevo farti un regalo di compelanno, volevo che tu mi vedessi in costume da bagno."
Era ancora in accappatoio, intorpidita si stringeva al suo cane.
"Ti lascio dormire."
"No, usciamo."
Per strada camminò lentamente, il braccio infilato dentro il mio.
Entrammo nel bar, il solito.
"Cosa prendi?"
Non mi rispose.
Si era appoggiata con tutto il peso del corpo al bancone.
Vidi la sua mano che strisciava sul piano di metallo verso i tovaglioli di carta.
Con un gesto aggressivo li divelse dal loro contenitore e si precipitò fuori con la schiena curva in avanti, arrancando.
La raggiunsi, si era appoggiata al muro, la testa bassa.
"Cos'hai?"
Aveva le mani strette tra le cosce, i tovaglioli stretti lì in mezzo.
"Non sto bene, portami a casa..." sussurrò.
C'era poca luce, ma adesso vedevo che i tovaglioli bianchi si erano fatti scuri tra le dita.
"Stai perdendo sangue..."
"Portami a casa, ti prego."
Ma intanto era svenuta.
La presi in braccio, camminando fino alla mia macchina e l'adagiai sul sedile.
Avrei corso il rischio di portarla nel mio ospedale.
Guidavo e cercavo di ricordarmi se qualche amico era di guardia quella sera.
Lei si era ripresa, pallida, gli occhi mogi aperti sulla città notturna.


 
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