Creato da Tanysha il 15/01/2008
Scrivere è vivere e apprezzare ogni tipo di espressione.
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SCRITTURA MULTI-CREATIVA
Ti piace scrivere e a volte ti ritrovi a riflettere anche su una sola delle seguenti frasi?
- Scrivere mi fa sentire meglio
- Quando scrivo mi alleggerisco di un peso
- Scrivo solo quando sono depresso
- Scrivere mi aiuta a chiarire le idee
- Se scrivo anche solo due righe affronto meglio la giornata
- Se devo dire qualcosa di importante a qualcuno preferisco scriverglielo
Sì? Bene, allora sei nel posto giusto.
Sto formando (in zona Ostia e dintorni) un gruppo composto da persone interessate a una scrittura diversa, non necessariamente con finalità estetiche o di pubblicazione, bensì vista come uno strumento utile a star meglio, a rilassarsi e a raggiungere, con un po' di consapevolezza, un certo equilibrio psicofisico.
Scrivere, sia un semplice diario che un racconto o anche dei versi, così come dipingere, o danzare, o comunque dar vita a qualcosa di creativo, è anche una forma di meditazione, ancora più costruttiva.
Non so se sapete che il nostro cervello, quando ci troviamo in momenti di massima attenzione, come ad esempio durante l’apprendimento di qualcosa di nuovo, produce le onde beta, le quali, benchè utili, alla lunga producono uno stato di vigilanza continuo provocando stanchezza e quindi stress. Al contrario, invece, durante una fase creativa, quando cioè ci lasciamo invadere dall'ispirazione, come anche in un momento di meditazione, il nostro cervello emette le onde alfa, che agiscono come una sorta di ideale e benefico massaggio rilassante, al termine del quale ci sentiremo come rigenerati e più positivi.
Se volete iniziare questo percorso di consapevolezza, affronteremo insieme delle fasi di scrittura rilassante e rigenerante, se necessario abbinata al training autogeno o alla meditazione, o a tecniche come il caviardage, con l'aiuto dei fiori di bach o dell'aromaterapia.
Isabella Giomi, già autrice di narrativa, ha pubblicato due romanzi, La cantatrice muta e I pellegrini dell'eterno presente, entrambi con la casa editrice Laruffa, è diventata naturopata olistica con una tesi sulla parola scritta dall'effetto catartico per gestire lo stress e sua prossima pubblicazione sarà un saggio sull'immagine femminile e le sollecitazioni dei media.
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Leggendo l’unico romanzo della poetessa Sylvia Plath, La campana di vetro, per tutta la prima metà del libro mi sono chiesta come mai questa donna patisse di istinti suicidi. A parte la bipolarità di cui soffriva, che di per sé da sola non basta a scatenare il desiderio di farla finita, leggendo ciò che scrive, ho avuto subito l’impressione di una donna spiritosa, che non si prende mai abbastanza sul serio, quindi, di una che riesce a ridersi addosso, si fa fatica a credere che non voglia più vivere. E fin qui tutto fila.
Nella seconda parte del romanzo l’autrice tenta di togliersi la vita un paio di volte ma viene salvata in tempo, ovviamente, essendo ancora lì a raccontarlo. (Si suiciderà davvero dieci anni dopo aver scritto quel romanzo).
Poi mi è venuto un dubbio, ho riletto alcuni passi delle sue storie e ho avuto un lampo. Ma come no, certo, la sua propensione al suicidio salta a chiare lettere per tutto il romanzo, basta farci un po’ d’attenzione. Ogni esperienza di cui parla è quasi sempre introdotta dalla frase: “credevo che quella cosa fosse…o, mi ero fatta l’idea di…o, mi immaginavo che…” insomma, ogni situazione che si trova a vivere è sempre da lei pronosticata in un certo modo, immaginata, quindi, quando si trova a viverla, ne ha quasi sempre una sorpresa, raramente positiva, quindi, Sylvia Plath viveva di continue delusioni, anche per le cose più stupide. Un esempio. Durante un breve periodo di volontariato in ospedale, viene assegnata al reparto gestanti e incaricata di consegnare loro i fiori regalati dai parenti. Il racconto comincia pressappoco così (più o meno): “immaginavo che, avendo appena partorito, le donne giacessero inerti e mezze morte nei loro letti, e invece, macchè, erano tutte intente a qualcosa, chi sfogliava riviste, chi lavorava a maglia e chi telefonava, tutto intorno un chiacchiericcio fitto fitto, sembravano pappagalli in una voliera”.
Insomma, ogni volta che Sylvia è in procinto di vivere un’esperienza se la immagina fin nei minimi particolari, ricca di dettagli – sempre sbagliati – ovvio che tutto ciò è destinato a generare delle forti delusioni e, alla lunga, a dar luogo a depressioni.
Certo, l’immaginazione è a volte un processo che parte in automatico, difficile da disinnescare, molto attivo soprattutto nei creativi, poeti o scrittori, quella sorta di “spirito d’osservazione “ che il lettore tanto ammira in certi autori, altro non è che questa capacità di anticipare ciò che sta per succedere, facendolo già vivere nella nostra mente, ma che spesso si scontra con la realtà. Difficilmente chi immagina crea un mondo reale, ma spesso è un mondo ricco di sue proiezioni personali, che, se non ben gestite, rischiano di procurarci delusioni cocenti.
L’ideale sarebbe invece lasciarsi andare agli eventi, non aspettarsi mai nulla di particolare, prendere al volo ciò che si trova, chissà che non sia questa la ricetta della vera felicità.
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La mia motivazione a scrivere si basa su una disperata e forse un po’ isterica onestà intellettuale che a volte si spinge fino al ridicolo e al patetico.
La verità è che NON mi piace quasi niente di ciò che viene proposto oggi nelle librerie. Parlo degli autori affermati, ovviamente. Di quelli in via di affermazione non parlo, sperando che non cerchino di imitare i già affermati!
Questo rifiuto della produzione letteraria attuale mi porta disperatamente a cercare di scrivere cose mie, proponendo un mondo a parte. Un po’ come una poveretta che si arrangia a cucire crea vestiti fatti a mano perché non le piace niente di ciò che va di moda. Magari saranno vestiti strani, buffi, strampalati, che non seguono nessuno stile, ma sono suoi, suoi e basta!
Io scrivo cose mie, a volte un po’ tetre, incolori e magari stupide, su argomenti inutili per la maggior parte della gente, ma almeno le ho dette, le ho manifestate, cavolo!
Perché mai dovrei scrivere roba su ordinazione! Al massimo posso fabbricare un raccoglitore, un vuotatasche su ordinazione, se qualcuno lo vuole in carta di Varese invece che in carta riciclata, oppure quando faccio i miei buonissimi topini di cioccolata, posso metterci la vaniglia al posto della nutella, questo sì, ovvio che l’artigianato vive per accontentare la clientela. Non la scrittura. Non ciò che esce fuori per pulire l’animo e medicare il dolore, non ciò che usa la fantasia come parafulmine delle emozioni. Ma, dico io, come caspita si fa? Eppure c’è un sacco di gente che scrive quello che gli viene chiesto di scrivere…e il bello è che c’è pure chi lo legge! Evidente che sono fatti della stessa pasta fasulla, autori e lettori di questa roba finta. Io dico che se c’è una sola persona che riesce a leggere ciò che scrivo e non ciò che eseguo, ho già vinto. Come si fa a dire di avere avuto successo quando un milione di lettori legge della roba che non ha nulla a che fare con il suo autore! Quei lettori hanno letto sì, ma hanno letto la roba di qualcun altro.
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E' con immensa soddisfazione che annuncio la pubblicazione del mio ultimo romanzo, presentato in anteprima alla mostra Più Libri Più Libero al Palazzo dei Congressi dal 4 all'8 dicembre con la casa Editrice Laruffa di Reggio Calabria. E' la storia di un lungo percorso, una sorta di trekking interminabile che ha per condottiera una gatta, che inizia e finisce nello stesso luogo, costellato di cambiamenti e trasformazioni di vario tipo.
Il romanzo sarà disponibile a giorni, direttamente alla casa editrice ordinandolo online, al link : http://www.laruffaeditore.it/index.php?option=com_virtuemart&view=productdetails&virtuemart_product_id=203&virtuemart_category_id=&lang=it oppure, con un po' di fortuna, si può prenotare in libreria
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Questa trasmissione dura da oltre vent’anni e, come accade per tutte le formule vincenti e che quindi non si cambiano nel tempo, non solo è durevole, ma tende a raffinarsi e a migliorare divenendo sempre più accattivante, grazie a una conduttrice molto presente e a curatori e inviati coinvolti e coinvolgenti. Insomma, una trasmissione che non perde nel tempo le sue mirabili virtù, un po’ come accade a certi medicamenti, vedi l’argilla, l’aloe o l’olio di argan, Chi l’ha visto è e rimane una trasmissione di servizio, e sottolineo di servizio, sua dote precipua, molto efficace e funzionante. Le storie che propone sono spesso terribili e crude, specie i cold case, e cioè gli omicidi ancora aperti, anche a distanza di decenni, servono a risvegliare le coscienze di chi ne ha condotto, magari superficialmente, a suo tempo le indagini, o a risvegliare i ricordi in chi se ne ritrovò coinvolto. Insomma, una trasmissione a tutto tondo.
Tuttavia me ne scaturisce una riflessione, un po’ amara, un po’ oziosa, un po’ fine a se stessa, però mi viene così spontanea che sento di parlarne.
I casi esposti– specie quelli di persone sparite volontariamente - trattano sovente di gente depressa, incompresa, vilipesa o emarginata che un bel giorno decide di eclissarsi, a volte non sono del tutto decisi a determinarlo, altre volte sì. Comunque vengono sempre presentati ritratti accattivanti di queste persone, così interessanti da suscitare la curiosità di chi si occupa di materiale umano, magari chi scrive – come nel mio caso – o chi si occupa di psicologia. La mia triste riflessione è: ma è più interessante il ritratto che ne emerge in sede di trasmissione, o la persona medesima? Se a suo tempo la persona in questione fosse stata più seguita, amata, considerata, magari non sarebbe scomparsa, tanto da diventare una ghiotta preda mediatica. Possibile che la tv triti miseramente anche i comuni mortali tanto da farli diventare importanti più da morti che da vivi?
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Inviato da: cassetta2
il 24/07/2019 alle 12:44
Inviato da: Tanysha
il 09/12/2014 alle 14:55
Inviato da: DJ_Ponhzi
il 09/12/2014 alle 14:53
Inviato da: Tanysha
il 22/10/2014 alle 15:49
Inviato da: misai
il 22/10/2014 alle 14:32