Creato da Tanysha il 15/01/2008
Scrivere è vivere e apprezzare ogni tipo di espressione.
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Sono più le cose che:
- NON mi interessano,
- le persone che NON mi piacciono,
- i momenti che NON vorrei passare,
- i cibi che NON voglio mangiare,
- i discorsi che NON vorrei intavolare,
- gli spostamenti che NON vorrei fare,
- i lavori che NON mi interessano,
- i ragionamenti che NON vorrei sentire,
- le musiche che NON voglio ascoltare
- gli accostamenti di colore che NON vorrei vedere,
E anche nelle situazioni in cui mi trovo più a mio agio, e cioè quelle scelte da me, esistono dei momenti in cui NON vorrei trovarmi, tipo durante un bel film dei passaggi noiosi, oppure, durante la lettura di un bel libro delle pagine che vorrei saltare, (ma in questo unico caso, qual è il problema, le salto, per questo leggere è creativo). Oppure durante uno scritto di mia invenzione, esistono dei brani che NON vorrei scrivere, ma che servono per la completezza del tutto, o anche durante un piacevole intrattenimento, esistono dei vuoti, dei momenti insipidi che non si vede l’ora che finiscano.
Eppure tutto serve e si completa in un tutto con un senso, in un chiaroscuro fatto di elementi negativi, insignificanti o pieni di intensità, senza i quali la vita formerebbe un disegno asettico, o un anonimo videogioco da noi stessi guidato ma proprio per questo senza senso, perché il senso che noi stessi pensiamo di dare alla vita non corrisponde al senso universale delle cose, che ci coinvolgono stravolgendoci. Un po’ come quei mandarini senza semi, che forse si mangiano più volentieri, ma a cui manca quella punta di sapore, quel brivido di agro che invece abbonda in quella frutta piena di semi, che siamo costretti a sputare mentre però ci stiamo gustando l’intensità del sapore. Ecco, questo è uno dei sensi della vita, mentre siamo intenti a sputare fuori i semi dei momenti ingrati, intanto ci gustiamo il vero senso delle cose.
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E se fate, nani ed elfi non fossero altro che persone diversamente abili?
Una coraggiosa teoria magistralmente esposta in un saggio.
Non perderà un milligrammo di fascino il mondo delle fiabe se leggete questo libro. Forse è un tantino più scientifico dei soliti trattatelli sulle fate e sulla loro origine perché apre gli occhi a molti che ancora credono alla possibilità di un universo parallelo abitato da strane creature. Senza ferire l’orgoglio degli appassionati, questo saggio, scritto da un medico, Massimo Conese, prende le mosse da un classico dell’antropologia culturale: Le radici storiche dei racconti di fate di Propp, che spiega il motivo dell’universalità della fiaba. Perché le fiabe di tutto il mondo sono simili? L’origine risiederebbe nei miti e conseguenti riti, che, dalla notte dei tempi avevano più o meno il medesimo iter un po’ ovunque. Insomma, i riti all’origine di un etereo e apparentemente inconsistente prodotto come la fiaba, che concretamente, si sarebbero ripetuti nelle varie civiltà sin dall’alba della specie umana, dando vita a un racconto, trasmutato poi in fiaba. Questo, stringatamente, sostiene Propp nel suo saggio.
Nel libro di Conese, parallelamente, si dimostra che le storie di gnomi, fate e strane creature, non sono altro che il frutto del rifiuto di spiegare l’esistenza della malattia. Forse dovuto all’ignoranza, o piuttosto, alla non-conoscenza di alcune patologie deformanti, come ad esempio la sindrome di Down o il nanismo, o anche varie malattie genetiche, poiché non se ne conosceva l’origine, si poteva solo spiegare con la fantasiosa presenza di esseri fatati che si divertivano a sostituire i bambini nella culla, con una pratica che presso gli antichi Celti veniva chiamata changeling. Questo rendeva più accettabile la diversità, che, non dimentichiamolo, nei tempi passati era molto dura da accettare proprio perché senza spiegazione. Un bimbo non nasceva malato, era solo colpa delle fate che l’avevano scambiato in culla con un loro bambino non sano. Inoltre Conese, nella sua teoria, si spinge ancora più lontano, ipotizzando addirittura che tra gli esseri fatati rientrassero persino individui di specie differenti, come i primitivi abitanti di alcuni popoli, ad esempio i nativi Celti, a causa di tratti somatici e colorito differenti.
Insomma, la credenza nelle fate era in origine il tentativo di un appiglio razionale alla bio-diversità e alla malattia, proprio per sopperire all’insufficienza delle informazioni da parte della scienza. Questo nel tempo è stato tramandato come un prodigio, qualcosa di fantastico e degno dell’orgoglio di un popolo, ma in realtà si riduce alla mera spiegazione di un fatto altrimenti difficile da accettare.
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Continuo la mia periodica carrellata sui libri di autori interessanti, questa volta torno a parlare di Serena Frediani, una cesellatrice delle parole, le sceglie con grande accuratezza, senza lasciare nulla al caso e le combina in modo da procurare delle piccole scosse emotive. In questo suo secondo romanzo, in apparenza diverso dal primo, il sorprendente Il silenzio del colore nero, che parla di amore assoluto, come si leggeva forse nei tempi passati, sceglie una storia completamente diversa, una sorta di discesa agli inferi dell’infanzia.
In Memorie dall’innocenza sembra, a tratti, di trovarsi sul lettino dello psicanalista, proprio perché il tema centrale del romanzo è, appunto, Sua Maestà la Rimozione, ossia tutto ciò che ci crea dolore ricordare e alla fine ci impedisce di vivere con serenità il presente. Come succede a Daria la protagonista, che l’autrice inserisce sapientemente in un laboratorio di fotografia. Cosa ha più potenza retrospettiva di una foto? Intorno a tutto ciò ruota la sua storia, dall’andamento quasi spiralico, condita da ritmici feed back, che piano piano ricostruiscono un dolente passato, molto più doloroso proprio perché rimosso, come una specie di rigonfiamento nascosto, che si ridimensiona di colpo con la presa di coscienza, lasciando finalmente spazio alla vera vita affettiva.
Memorie dall’innocenza è una storia che entra poco a poco nelle vene, all’inizio come un racconto narrato a bassa voce, poi questa voce acquista sempre più sicurezza fino a diventare quasi un inno. All’innocenza, per l’appunto.
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Citando a chiare lettere uno dei romanzi della serie in questione gli farei altra pubblicità. Siccome non voglio regalargli niente e per giunta dalle pagine del mio blog, cercherò di mettere in ridicolo una potenziale lettrice media di questa serie di libracci. Se tu che leggi putacaso nei hai letto uno per sbaglio o perché te l’hanno regalato o te lo sei ritrovato tra le mani durante una seduta sotto il casco del parrucchiere, non ti offendere, se non rientri nella categoria non ce l’ho con te, ma con questa ipotetica lettrice di cui andrò man mano delineando le sue più tipiche caratteristiche.
Per strada, quando a tradimento ti ritrovi a cozzare con la ruota della carrozzina sbattuta con violenza su una caviglia, non c’è nemmeno bisogno di voltarsi: di sicuro è lei. Ne hai la conferma guardandola procedere come un carro armato, a discapito dell’incolumità del povero piccolo trainato in quel modo così brutale.
Quando arrivi in spiaggia e senti quel terribile odore di crema solare misto all’olio delle patatine fritte distribuite a piene mani ai figli: è ancora lei, anche a occhi chiusi lo sai. Poi la vedi e ne hai un’ulteriore conferma: capelli ossigenati color varichina lisci con quella frangetta immobile che sfida l’umidità marina, abbronzatura color noce scuro, tatuaggio all’altezza delle reni che può rappresentare un decoro floreale stilizzato come un bisticcio di cuori rossi sormontati da tralci di edera, fisico che può oscillare tra il palestrato tonico snaturatamene imbottito da interventi vari su seni e natiche, oppure sul matronale pigro imponente ma di impatto ugualmente carnale.
I centri commerciali sono il suo regno: vi si reca soprattutto d’estate il sabato o la domenica dopo ripetuti bagni di sole a esibire le forme prorompenti sotto abiti che sembrano lì lì per scoppiare causa la pressione anomala delle carni pressurizzate. Passando davanti a uno di quegli sgabuzzini dove si creano unghie fantastiche decorate di lustrini, animaletti e cuoricini, le sue mani sono sempre in primo piano, sotto le grinfie della estrosa manicure e così lei se ne va in giro sui mezzi pubblici e in automobile facendole baluginare di vividi bagliori mentre si attacca al mancorrente o al volante della sua Smart scattosa.
L’avete mai sentita parlare? È tutto uno spettacolo, un assolutamente sì o no, un non ci posso credere, un adorare, uno strabello, no, di più; le sue parole sfumate di inconsistenza sono meno eloquenti del silenzio. Pur di restare al centro dell’attenzione ne dice di così fitte e di così ordinarie che in confronto l’elenco del telefono è un’opera d’arte futurista.
Da vera donna à la page, non se ne perde una, quindi imperversa anche su internet dove possiede persino un blog. Il suo contenuto è un vero spasso, a cominciare dal profilo: non sempre mette la sua vera foto, questo no, magari se non ne trova una adeguata è pronta ad inserire quella della star americana sulla cresta dell’onda con la quale più ama identificarsi. Di sicuro il suo profilo è costellato di cuoricini stillanti miele e cascatelle di fiorellini, animaletti di peluche o meravigliose e ieratiche fatine uscite direttamente dal loro reame incantato appositamente per lei, per sfiorare con il loro tocco di banale magia le poesie (non sue, attenzione!), le citazioni riportate e le frasi più lapalissiane (a far del bene ci si rimette sempre, ricordati di vivere giorno per giorno, ecc…), di cui ama decorare ogni schermata del suo diario così personale che lo riconosci subito…
E veniamo al nocciolo della questione: ebbene sì, la tizia legge anche, eccome! L’avevate messo in dubbio forse? Eccerto, lei legge roba impegnata, per far vedere che non è una bigotta, se tante volte vi avesse sfiorato il dubbio vedendola. (E può capitare sapete, anche con quel popò di popò e quella faccia tumefatta, c’è chi potrebbe prenderla per una piena di pregiudizi), e invece no, lei legge, signori cari. E mica legge soltanto quelle poesiole che poi schiaffa pari pari sull’home page del suo blogghetto bello bello, no, lei legge cose di pruriginosa attualità. E l’autrice di codesta serie di libri deve dire un bel grazie a questo prototipo femminile così diffuso e onnipresente, perché è proprio a lei che deve il suo successo.
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Interrompo il silenzio da me annunciato tempo fa causa mancanza di argomenti per riprendere con le recensioni dei romanzi. Questo è di un'autrice che conosco personalmente e che stimo:
Nient’altro che amare ( anche se non è solo così)
Come in un famoso quadro di Magritte, non vi lasciate ingannare dal titolo: non è un romanzo intimista. Ossia lo è ma solo in parte. La protagonista di questo movimentato e palpitante racconto, tanto per attenersi al nome della collana dell’edizione Centoautori, parla quasi più dell’Italia della ricostruzione del dopoguerra, di cui sembra assurgere a simbolo. Un’Italia ferita, affamata e bistrattata, piena di buona volontà e ansiosa di riscatto. Un riscatto che a Maria la Zannuta viene negato per gran parte del romanzo. Ha una strana bellezza questa donna, appena oscurata da una dentatura esagerata, che al giorno d’oggi potrebbe essere rimessa a posto da un banale apparecchio, una bellezza carnale che a molti uomini smuove i più bassi istinti, della quale non sembra peraltro del tutto consapevole. Se proprio dobbiamo giudicarla, un pietoso tribunale non potrà che assolverla, perché Maria ha usato il suo corpo solo per amore, lo stesso elementare amore che non nega a nessuno degli uomini con cui si unisce, e che trasmette, centuplicato, ai figli che genera. Per lei amare è come respirare, per questo alla fine non possiamo operare nessun tipo di giudizio nei suoi confronti, invece nell’ambiente ipocrita di cui è circondata appare come vittima designata, vittima delle comari saccenti che la processano di continuo, poiché è facile sentirsi superiori a lei, così nuda e senza nessun tipo di maschera, rifiutata perfino dalla famiglia di origine, una sorta di brutto anatroccolo dal nobile animo di cigno, dotata però dell’intelligenza del cuore – da poco rivalutata – che invece all’epoca dei fatti sembra quasi un handicap che la rende troppo buona e arrendevole. Un personaggio a tutto tondo Maria ‘a Zannuta, un poco paragonabile a certe miti eroine dei romanzi della Morante, triturate dalla guerra, vere vittime della storia, di cui rimangono le reali e tangibili testimoni.
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Inviato da: cassetta2
il 24/07/2019 alle 12:44
Inviato da: Tanysha
il 09/12/2014 alle 14:55
Inviato da: DJ_Ponhzi
il 09/12/2014 alle 14:53
Inviato da: Tanysha
il 22/10/2014 alle 15:49
Inviato da: misai
il 22/10/2014 alle 14:32