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MINIMO COMUNE DENOMINATORE

Post n°3 pubblicato il 10 Settembre 2006 da claudiofondelli

[appunti per la programmazione urbanistica]

Nel processo di formazione di uno strumento urbanistico (Piano Strutturale e Regolamento Urbanistico) il dimensionamento (qui inteso come la stima del fabbisogno insediativo per l’arco temporale di efficacia dello stesso) rappresenta indubbiamente uno degli aspetti più complessi e discutibili della sua formazione.

Complesso perché ad oggi nessun procedimento di stima è stato univocamente adottato dalla comunità tecnico-scientifica; discutibile perché dipendente anche dalle aspettative della comunità locale di riferimento e delle istituzioni che la rappresentano come, è utile ricordarlo, da interessi economici, talvolta particolari.

Non è un caso se ad oggi nessuna legislazione vigente in materia, nazionale o regionale, sia mai entrata nel merito – disciplinandola – alla modalità di stima del fabbisogno insediativo limitandosi, nei casi più avanzati, all’introduzione del rispetto di una soglia di sostenibilità, attraverso la valutazione ex-ante degli effetti ambientali delle trasformazioni previste.

Certo è che la materia risulta particolarmente complessa e non può rappresentare una soluzione al problema né il rispetto della soglia di sostenibilità da un lato (perché indipendentemente dalla sostenibilità dei nuovi insediamenti, l'antropizzazione del territorio è costosa, sia in fase di realizzazione che nella gestione e manutenzione) e neppure la rinuncia aprioristica di nuove antropizzazioni dall’altra (perché i bisogni mutano nel tempo, influenzati dal modificarsi del contesto socio-economico e culturale - basti pensare a come negli ultimi cinquant’anni è mutata la composizione dei nuclei familiari - e non soddisfarli può portare ad un declino di quell’ambito territoriale).

Se dunque si può concordare sulla necessità di prevedere, nella redazione di un nuovo strumento urbanistico, un fabbisogno insediativo non soddisfabile con l’utilizzo o la trasformazione del patrimonio edilizio esistente (anche perchè, almeno fino a quando saranno facilmente reperibili aree libere da edificare in ambiti territoriali contigui, in molti casi non è sostenibile economicamente – ovvero non competitivo sul mercato – adeguare ai nuovi usi tale patrimonio o procedere alla sua demolizione e ricostruzione) e che per la sua quantificazione di tale fabbisogno non è possibile utilizzare un procedimento o un metodo puramente analitico, ritengo altresì concordabile che una trasformazione antropica (qui intesa come l’attuazione di una previsione edificatoria o di parte di essa) è necessaria soltanto quando questa soddisfa un bisogno effettivo e adeguata soltanto quando questa lo soddisfa sostenendo il minore dei costi possibili tra le diverse opzioni di scelta.

Quello sopra esposto, ritengo,  può rappresentare un principio, minimo comune denominatore, da applicare alla formazione di ogni strumento urbanistico affinché questi sia riconoscibile - a larga maggioranza - come efficace ed adeguato al contesto ed all’ambito territoriale al quale si riferisce;  si tratterà casomai di capire come questi trovi cittadinanza nei suoi contenuti.

Per ad uscire dal piano teorico, provo ad avanzare una possibile metodologia, più che perfettibile.

Assodato che, per le ragioni precedentemente espresse, non è il processo di formulazione delle previsioni (qui inteso come il dimensionamento del Regolamento Urbanistico) l’ambito sul quale agire, ritengo invece sia possibile intervenire sull’impianto normativo (Norme Tecniche), introduciendo dei processi di verifica ex-post ai quali subordinare le azioni di trasformazione (più esattamente parte di esse) previste dallo strumento stesso (del resto non vi è dubbio che a produrre effetti, positivi o negativi a seconda dei casi, non sono tanto le previsioni, benché ne rappresentino il presupposto indispensabile, ma la loro attuazione).

In estrema sintesi si tratterebbe di procedere all’attuazione delle previsioni per soglie progressive subordinando l’attuazione di quelle successive alla prima al conseguimento di parametri fissati.

Basterebbe infatti non consentire l’attuazione contemporanea di tutte le previsioni edificatorie del Regolamento Urbanistico ma soltanto una quota di esse (quantificabili, in ipotesi, in una frazione corrispondete all’incremento di un punto percentuale della popolazione residente o delle attività produttive o commerciali insediate, comunque riferita a comparti edilizi) e subordinare l’attuazione di  successive quote di eguale entità al conseguimento dell’utilizzo effettivo minimo (da monitorarsi dunque incrociando i dati sulla residenza ed iscrizione a ruolo delle imprese) dell’80% (considerando la quota del 20%, più che abbondante, come inutilizzo fisiologico per rotazione o utilizzo parziale) ed alla verifica della sussistenza dei corrispettivi standard urbanistici fissati dal piano (ovvero all’effettiva realizzazione, collaudo ed acquisizione delle opere di urbanizzazione, primaria e secondaria, relative).

Sul piano giusurbanistico si tratterebbe semplicemente di introdurre, a livello di Regolamento Urbanistico, una specifica norma di attuazione di carattere generale senza la necessità, dunque, di dover escludere da esso parte delle previsioni contenute nel Piano Strutturale e dunque senza la necessità di procedere con successive modifiche allo strumento stesso per inserire quelle aree escluse, in prima istanza, da processi edificatori.

 Relativamente alla scelta dei criteri con cui stabilire l’ordine di trasformazione delle diverse aree (prendendo quale unità di rifermiento il comparto edificatorio) previste dallo strumento urbanistico, considerando che è comunque necessario consentire più opzioni di scelta (sia per limitare fattori di influenza esterni sull’attuazione del piano, come la difficoltà di attuazione di un comparto a causa della non volontà dei proprietari - che costringerebbero ad un frequente ricorso a procedure espropriative - che per evitare il crearsi di ingiustificate posizioni di monopolio) si potrebbe ipotizzare il raggruppamento dei comparti edificatori in macrogruppi sulla base dei costi necessari alla loro attuazione mutuando, in forme semplificate, la metodologia dell’analisi di soglia ideata da J. Kozlowski e sperimentata in Italia da F. Forte ed altri.

In tal modo risulterebbe possibile soddisfare tutti i bisogni insediativi effettivi (al momento del loro manifestarsi) senza ritardi o nuovi e costosi procedimenti amministrativi (già nel primo Regolamento Urbanistico sarebbero contenute le norme e le procedure per l’attuazione differita delle previsioni, senza dover dunque ricorrere a successive varianti) evitando al contempo il manifestarsi di fenomeni di squilibrio nell’uso del suolo (come nel caso in cui, per eccesso di “offerta” edificatoria, si manifesta un marcato sottoutilizzo - edificazione parziale - delle aree interessate dalla trasformazione, a fronte dell’intera realizzazione delle infrastrutture previste e dimensionate sulla base del massimo carico urbanistico) che comporterebbero, oltre allo “spreco” di suolo (in termini di rapporto abitanti/territorio antropizzato), alti costi per la comunità (per gli evidenti squilibri tra risorse – in termini di oneri e contribuenti – e costi di realizzazione, gestione e manutenzione del patrimonio e delle infrastrutture pubbliche).

E’ evidente che una edificazione non equilibrata (qui intesa come scorretto rapporto tra suolo utilizzato e fabbisogno effettivamente soddisfatto) rappresenta, al di là degli apparenti vantaggi derivanti dall’incameramento degli oneri di urbanizzazione, un debito economico e sociale che le amministrazioni successive (considerando il già precario equilibrio finanziario degli enti locali è ipotizzabile che gli effetti negativi si manifestino già dopo 5-6 anni) saranno ineluttabilmente chiamate a saldare.

 
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