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Perfidie di Stefano Torossi

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Regalino di capodanno - Ovvero -Incompetenti o solo stupidi

Post n°257 pubblicato il 02 Gennaio 2014 da torossis

IL CAVALIER SERPENTE

Perfidie di Stefano Torossi

30 dicembre 2013

 REGALINO DI CAPODANNO CON FOTO

Ovvero

INCOMPETENTI O SOLO STUPIDI

La faccenda ha raggiunto una dimensione che ci sembra travalichi quella umana. Noi non lo sappiamo per certo, ma presumiamo che nella giunta municipale di Roma ci sia un responsabile dell’arredo urbano. E’ a lui che ci riferiamo con il nostro titolo (anche a rischio di querela).

La notizia. Nella nostra città esiste un luogo in cui avventurarsi è più pericoloso che entrare disarmati nella jungla del Borneo: Piazza Venezia. E’ un grande spazio disseminato di dislivelli che trasformano il selciato in una pista da fuoristrada, e assediato giorno e notte da un traffico diabolico. Non ci sono semafori automobilistici o pedonali. Chi vuole attraversare si butta, sperando nella buona sorte. Il centro della piazza è occupato da una doppia grande aiuola tagliata a metà dall’unico corridoio di relativa sicurezza per il folle o l’audace che ci si avventura: un attraversamento pedonale regolarmente segnalato da belle strisce bianche dipinte sui sampietrini. Lì ci si sente più o meno protetti.

Ma nel turbamento di questi giorni di festa dev’essere successo qualcosa di destabilizzante in giunta perché il funzionario citato all’inizio ha pensato bene di piazzare l’obbligatorio albero di Natale non nell’aiuola dove era infilato negli anni scorsi, quindi “fuori dalle balle”, come abbiamo sentito dire a un irritato turista, ma esattamente nel centro del percorso pedonale. Così che chiunque si trovi ad attraversare la piazza su questo sentiero, fra l’altro rigidamente arginato dagli archetti della recinzione, incontra un ostacolo quasi insormontabile.

Per non passare da mitomani abbiamo deciso di contravvenire all’abituale austerità del nostro blog e di darvi qualche foto sul fatto. Guardare per credere. Si vedono bene le strisce, i muretti delle aiuole e i pellegrini che arrivati all’albero non sanno cosa fare. E il bambino che ci passa appena, mentre la mamma si deve intrufolare sotto le fronde?

 

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P.S. La lupa capitolina di verdura, di cui abbiamo già parlato, regalata non si sa bene da chi al sindaco Marino e alla città, eccola qua. Ci siamo sbilanciati con le altre foto, e allora vi aggiungiamo anche queste. Che meritano. Sullo sfondo le pietre trimillennarie delle Mura Serviane. Pregasi prestare attenzione, oltre che alla nobile resa espressiva del vegetale animale, anche ai gemelli, identificabili meglio in due cavolfiori bolliti che in Romolo e Remo.

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 Già che ci siamo vi replichiamo l’intero resoconto; dalla settimana scorsa: “Eccolo il regalino per il sindaco. Noi crediamo sinceramente che neanche nel giardinetto della Pensione Bellavista di Casteltirolo avrebbero avuto il coraggio di esporre una faccenda del genere. Vi consigliamo la passeggiata (non in Tirolo, ma al Campidoglio), salutare e istruttiva. Per vedere.

Piazzata in una cassetta di legno in puro stile Alto Adige, si erge una lupa capitolina ritagliata con approssimativa arte topiaria (tecnica di sagomare fronde e rami in figure geometriche o forme di animali) mentre allatta i due proverbiali gemelli, anche loro scolpiti nella stessa materia vegetale. L’opera di sublime fattura etrusca, con in più il tocco del Pollaiolo, rifatta in verdura. Mah! Naturalmente fotografatissima da mandrie di turisti che così neanche si accorgono delle vere lupe storiche in marmo, bronzo, a tutto tondo, in bassorilievo, che li circondano.

E non finisce qui. Proprio davanti alla povera bestia, adagiata su un letto di ciottoli sbiancati alla varechina, ci appare, sempre ritagliata in una miseranda siepetta di bosso, la scritta S.P.Q.R. (osservare l’agghiacciante foto a destra). E’ un’immagine di nostalgica malinconia che ci riporta a quando, da piccoli, andavamo per le vacanze a Gabicce Mare o a Ladispoli e alla stazioncina ci accoglieva immancabilmente il nome della località, disegnato come questo, con erba o fiorellini. Però qui siamo a Roma. Una certa differenza di stile ce la saremmo aspettata.


Che dire? E’ ovvio che il buon gusto non lo possiamo pretendere da tutti, ma la salvaguardia dei luoghi della storia sì, specialmente se si tratta di impedire che una casereccia, imbarazzante lupa di erba rubi la scena a quella vera e nobile, di bronzo”.

 
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Regalino di Natale

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

   23 dicembre 2013

REGALINO DI NATALE

 

Traffico natalizio. Per evitare code, ingorghi e stress da parcheggio, si va col bus. E si chiacchiera alle fermate e a bordo. E invariabilmente si incontra l'ultrasessantenne un po' new age, di solito donna, all'inizio arrabbiata: "Così non si può andare avanti, i mezzi non passano, la gente spende i soldi che non ha, l'aria è inquinata..." e subito dopo romantica: "Se potessi me ne andrei a vivere in campagna, a fare passeggiate, coltivare l'orto, sedermi davanti al caminetto acceso..." e altri sogni (i quali, assolutamente, devono rimanere tali, altrimenti ve li immaginate questi poveri vecchi, diventati campagnoli per illusione, in contatto con la realtà vera: il duecento per cento di umidità, sentieri ripidi e fango alle caviglie, l'orto morto per sei mesi all'anno, e il caminetto che ti arrostisce davanti e ti gela di dietro).

A questo proposito, ci siamo appuntati qualche tempo fa una notizia apparsa su Facebook, che ci ha fatto sorridere per il richiamo ai desideri fantastici di cui sopra, e sghignazzare per la realtà che, con il nostro collaudato scetticismo, intravvediamo chiarissima dietro il racconto; eccola.

Marco, descritto in un articolo di Corriere.it come una specie di eroe new age, è un ex manager di successo della Yamaha. Il quale, una decina di anni fa ha mollato l'ufficio di Manhattan (uno dei luoghi più stimolanti del mondo) per ritirarsi a vivere in una catapecchia a Valle Pezzata  sull'Appennino, senza luce, senz'acqua e in compenso, ci immaginiamo, con una bella percentuale dell'umidità di cui sopra.

Si tratta, è ovvio, di quel tipo di persona che non sa gestire le cose della vita, e finisce col farsi gestire da loro. "Quella del manager - dice - era un'esperienza totalizzante. Al di là delle otto ore di ufficio, il lavoro assorbiva completamente la mia vita. Era difficile staccare la spina quando tornavo a casa. (Staccare la spina è una delle prime pratiche da imparare appena si entra nel mondo professionale. A meno che il lavoro ti piaccia talmente tanto da non avere nessun bisogno e nessun desiderio di tempo libero). Ero pieno di cose che non mi servivano". 

E allora esagera. "E' stato facile rendermi autonomo rispetto ai bisogni primari legati alla sopravvivenza, al cibo, ai vestiti e a un riparo sopra la testa. Coltivo l'orto, seguendo i consigli degli anziani contadini, e l'acqua la prendo dal torrente".  Niente più elettricità, scaldabagno, frigorifero, termosifoni (e magari un bel Negroni verso le diciotto e trenta): conquiste per cui l'umanità lotta da secoli. E' la semplicistica filosofia new age che spinge un grullo col cervello bollito a perdere la propria libertà (credendo di averla riconquistata) e a diventare schiavo del momento in cui maturano gli zucchini nell'orto, della legna bagnata che non brucia nel focolare, di dovere aspettare il tramonto per dormire e l'alba per svegliarsi. Per non parlare di reumatismi e altri acciacchi. E l'igiene?


Merita il posto d'onore, in chiusura (quello che in ogni serata spetta alla star), la seguente chicca che vi regaliamo per Natale: Il Servizio Giardini di Roma ha presentato al nuovo sindaco Marino un omaggio che ora vi andiamo a raccontare.

Gambe in spalla e arrampichiamoci su per la magnifica cordonata del Campidoglio (Michelangelo). Arrivati nella magnifica piazza (sempre Michelangelo), si può ammirare la magnifica statua di Marcaurelio (copia del capolavoro romano, ora nelle sale dei Musei Capitolini) e girare intorno lo sguardo rapito dai magnifici palazzi gemelli sede dei musei succitati.

Poi, però, basta buttare l'occhio verso sinistra, e qui comincia il rapimento vero, purtroppo molto simile al raccapriccio, perché immediatamente ci appare, intrufolato sotto il portico del Palazzo Nuovo, un presepio realizzato dalla Cooperativa Sociale Cantina delle Idee di Palermo, con la collaborazione (citiamo alla lettera il cartiglio di presentazione) di soci disabili e normodotati, consistente principalmente in scene di crapula con odalische ancheggianti e gruppi di avvinazzati indegnamente sbracati sui triclini in mezzo ad architetture e rovine classiche. Il tipico banchetto di Trimalcione. Francamente incomprensibile in relazione al Natale, a meno di non ipotecare qualche corto circuito nella comunicazione proprio fra i soci disabili e quelli normodotati.

 Tiriamo innanzi ignorando anche l'alberello di Natale annidato nello stesso angolo e puntato da tre o quattro biciclette su cavalletto, le cui pedalate mettono in azione una dinamo che accende le lucine. Ignoriamo anche un paio di stendardi, che invocano "Salviamo i marò" e "Libertà per la Timoshenko" relegati giustamente in castigo, trattandosi di fatti ormai decotti; sorpassiamo l'ingresso laterale della magnifica chiesa dell'Aracoeli, ed eccoci in uno spazio, in cui ci accolgono un magnifico capitello corinzio, e sullo sfondo, al di là del quale si intravede l'immensità del Foro Romano, i resti delle magnifiche Mura Serviane (VI secolo avanti Cristo).

Siamo finalmente arrivati al regalino del sindaco. Noi crediamo sinceramente, che neanche nel giardinetto della Pensione Bellavista di Casteltirolo avrebbero avuto il coraggio di esporre una faccenda del genere. Vedere per credere, e vi consigliamo la passeggiata, che comunque è salutare, istruttiva e artistica.

Piazzata in una cassetta di legno in puro stile Alto Adige, si erge una lupa capitolina ritagliata con approssimativa, bisogna dirlo, arte topiaria (tecnica di sagomare fronde e rami in forme geometriche o di animali) in una siepe di bosso, mentre allatta i due proverbiali gemelli, anche loro di una qualche materia vegetale, i quali, essendo più piccoli e quindi di sicuro più difficili da scolpire, risultano in tutto e per tutto uguali a un paio di cavolfiori. La lupa e i gemelli! Opera di sublime fattura etrusco romana con in più il tocco del Pollaiolo, rifatti di verdura. Mah! Naturalmente fotografatissimi da frotte di turisti che così neanche si accorgono della storia, vera, che li circonda.

E non finisce qui. Lì vicino, adagiata su un letto di ciottoli sbiancati alla varechina, ci appare, sempre ritagliata in una miseranda siepetta di bosso la scritta S.P.Q.R. E' un'immagine che ci riporta a quando, da piccoli, andavamo per le vacanze a Gabicce Mare o a Ladispoli e alla stazioncina ci accoglieva immancabilmente il nome della località disegnato, come questo, con erba o fiorellini.

Che dire? E' ovvio che il buon gusto non lo possiamo pretendere da tutti, ma la salvaguardia dei luoghi della storia, sì, specialmente se si tratta di impedire che una casereccia, imbarazzante lupa di erba rubi la scena a quella vera e nobile, di bronzo.


PS. Avvertenza. L'uso continuato dell'aggettivo "magnifico" che potrebbe apparire eccessivo a uno sprovveduto lettore, è in realtà voluto per dar vita a un esemplare contrasto con la miseria della vicenda.



                                       


 

 

 
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Metti, un pomeriggio di pioggia

 

 IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

  16 dicembre 2013

    METTI, UN POMERIGGIO DI PIOGGIA


 Metti, un pomeriggio di pioggia. Dicembre. E' già buio e sono ore che cammini. Sei stanco, scocciato, e anche un po' confuso dalla gente, dai negozi, dalla città, e ti vuoi riposare. Magari anche riflettere in un posto tranquillo e, perché no, perfino dire una preghiera.

Che fai? Entri in una chiesa. A Roma ce ne sono tante, e belle. Diciamo che spingi la porta di San Lorenzo in Damaso, a Piazza della Cancelleria. Per essere tranquilla, la chiesa è tranquilla, e silenziosa, e soprattutto vuota. E che succede? Perché ti prende quello smarrimento infinito? Semplice, perché la chiesa è così desolatamente buia che sembra un'orrida spelonca. C'è da immaginare grappoli di pipistrelli appesi là in alto, dove l'oscurità nasconde ogni cosa.

E allora via di qua. Andiamocene alla Chiesa Nuova: grande, barocca e piena di quadri e statue. Qui la spelonca è più ampia e più sontuosa, ma sempre disperatamente buia. Si sa che ha anche un soffitto splendidamente affrescato, ma saperlo è un conto, vederlo un altro. C'è qualche lampada accesa, ma è stupidamente puntata verso il basso, contro gli occhi dei fedeli, che ne restano smarriti e abbagliati.

La soluzione ci sarebbe, semplice ed economica. Dov'è Dio? In alto. E dove sta l'umile fedele in preghiera, o anche il visitatore solo curioso? In basso. E allora basta illuminare colonne e volte con luci nascoste (e nelle chiese i cornicioni per coprirle non mancano davvero) e lasciare nella penombra banchi e confessionali.

Nel centro storico, in un raggio di pochi passi, ci sono tre chiese che questa problema l'hanno risolto: Santa Maria di Monserrato, San Luigi dei Francesi, e Santa Maria dell'Anima. Nessuna italiana, chissà come mai. La prima è spagnola, la seconda ovviamente francese, e l'ultima tedesca. Bene, entriamo in una di queste; preferibilmente in Santa Maria dell'Anima, e sbalordiamoci. Gli ori abbagliano, i marmi splendono, gli affreschi raccontano, e non si vede una lampada. Una diffusa luce calda riempie tutto lo spazio, e dà un senso di familiare conforto.

Non è che la bellezza impedisca la preghiera, anzi. Una bella casa suggerisce che il padrone ci ospiterà con stile. Basta un po' di cera per lucidare e qualche lampadina. Niente di più.

E naturalmente un briciolo di buon gusto.


Restiamo in chiesa, ma parliamo di musica. Domenica 8 a Sant'Apollinare, per il RomaFestivalBarocco, l'Accademia Bizantina dedica un'intera serata a Corelli. Ora, bisogna sapere che per Corelli il violino è tutto; il resto molto meno. E allora gli altri possono essere bravi (arciliuto, violone, cembalo, organo), come stasera, ma il violino dev'essere superlativo. Stefano Montanari è acrobatico ma anche morbido, autorevole e commovente, insomma perfetto. E' come osservare una piattaforma che avanza sicura sostenuta da solidi portatori, e in cima un leggiadrissimo funambolo fa ogni genere di acrobazie, eleganti e mai gratuite. E bisogna vedere sul programma di sala la foto di questo mago: un muscoloso supermacho che tiene il suo violino per il collo come per impedirgli di scappare (ci hanno detto che è anche uno scatenato Harleysta). Tante volte, dove va a nascondersi il talento! E credeteci, mentre lui suonava c'erano dei ragazzi in sala con le lacrime agli occhi.


Indietro di due giorni, venerdì 6, con tutti gli amici a commemorare Paolo Renosto alla Filarmonica. Sono passati più di vent'anni dalla sua morte. Un musicista bivalente: funzionale realizzatore di brani di commento per le immagini, TV e cinema; sperimentatore audace dell'avanguardia in Nuova Consonanza. Si è parlato della sua musica, si sono ascoltate alcune sue composizioni, e si è brindato alla sua memoria con dell'ottimo prosecco, che, se non ricordiamo male, avrebbe gradito lui stesso, buona forchetta e ancor migliore bicchiere.


Venerdì 13 al Museo Boncompagni Ludovisi, una mostra intitolata "Vittorio Zecchin, Duilio Cambellotti e Le Mille e una Notte", una faccenda assolutamente trascurabile: qualche pannello dipinto (di Zecchin - brutti), qualche illustrazione a tempera, appunto per le Mille e una notte (di Cambellotti - mediocri) e qualche vetro soffiato (ancora di Zecchin - belli), ma soprattutto un polveroso raduno di vecchie signore.

Perché citare l'evento, allora? Per non dimenticare il nome esecrabile dei principi Boncompagni Ludovisi, proprietari fin dal '500 di una magnifica villa nello spazio fra Porta Pia, Porta Pinciana e Piazza Barberini. Buon per loro che ci hanno fatto una montagna di soldi, e male per Roma che ci ha rimesso un insostituibile giardino; subito dopo il 1870, aiuole, viali e fontane sono stati prontamente trasformati in terreno edificabile, e così è nato un quartiere senza più neanche un filo d'erba. La stessa identica fine che ha fatto tutta la cintura di ville e parchi, di proprietà di altrettanto esecrandi conti, duchi, cardinali e papi, che, sempre entro le mura, girava intorno al piccolo nucleo abitato della città dell'ottocento. Roma doveva essere un sogno, magari un po' tarlato, ma sempre un sogno. Andato.



                                     


 

 
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Il minestrone di Bruckner

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

    9 dicembre 2013

   IL MINESTRONE DI BRUCKNER


 Lunedì 2 dicembre ore 12, Palazzo delle Esposizioni. Presentazione dell'interessante e ben costruita mostra "Il cibo immaginario 1950 - 1970". Un'antologia di pubblicità e rappresentazioni dell'alimentazione italiana, per noi fonte di due sorprese e una constatazione. La constatazione (amara) è stata accorgerci che riconoscevamo, con pochissime eccezioni, tutti i marchi, i nomi e le confezioni di prodotti di mezzo secolo fa; il che la dice lunga sulla nostra collocazione anagrafica. Le sorprese: scoprire che la Coca Cola, che noi (probabilmente come voi) eravamo convinti fosse arrivata con le truppe americane dopo la guerra, era invece già imbottigliata e venduta in Italia fin dal 1927. E renderci conto che Aldo Grasso, uno dei testimoni della mostra nonché scrittore e giornalista, che noi abbiamo sempre letto con grande piacere e divertimento, appena presa la parola si è rivelato oratore soporifero dal timbro monotono e dalle pause estenuanti. Abbiamo fatto fatica a rimanere svegli benché i contenuti fossero come sempre intelligenti e piacevoli. E' chiaro: non tutti quelli che scrivono bene possono aspettarsi lo stesso risultato quando parlano.

Ah già. Non vogliamo dimenticare un altro difettuccio piuttosto diffuso. Il rappresentante della Coca Cola, sponsor della manifestazione, ha preso il microfono e naturalmente, dato che parlava del suo prodotto, ha detto "Coca Cola" qualche dozzina di volte, ma sempre scivolando sulla prima delle due parole, e pronunciando "Coa Cola". Capita anche a voi?


Lunedì sera, sala Santa Cecilia. Kent Nagano dirige Bruckner, la terza sinfonia. Da sempre ci accompagna la inconfessabile convinzione che Bruckner sia uno di quei cuochi che confezionano minestroni troppo pieni di troppi ingredienti, dove tutti i sapori si confondono e, malgrado ogni tanto esca qualche aroma accattivante, alla fine il piatto risulta di difficile digestione. Nagano comunque riesce a tirar fuori il meglio. L'orchestra, ottimamente preparata, ha fornito un'esecuzione superba (il piatto rimane indigesto, ma almeno la presentazione è piacevole). Professori impeccabili in frak (così vorremmo sempre vedere le orchestre), e lui che, chioma molto mossa e abbondante e scarpini di vernice, ci ha riempito gli occhi con la suprema eleganza delle sue movenze, nello stesso tempo da geisha e da samurai: samurai nel gesto da direttore, e nella corsetta dal podio alle quinte e viceversa per gli applausi, decisamente geisha, e anche molto aggraziata.


Martedì. Aria nuova al conservatorio. Nella Sala Accademica di Via dei Greci, serata per la consegna del Premio Via Vittoria ai migliori diplomati, e soprattutto alla star Sir Anthony Pappano. Mondanità e presenze illustri. Apre Stefano Mhanna, uno dei vincitori del 2007, con la toccata e fuga in re minore di Bach al grande organo della sala; magnifico suono, anche se il non stare in chiesa priva lo strumento del suggestivo eco naturale delle grandi volte. Consegna di altri premi, poi breve pittoresco discorsetto del presidente Cagli e altrettanto breve ma meno pittoresco e molto più concreto intervento di Alfredo Santoloci, da pochi giorni nuovo direttore del conservatorio, che è uno che parla poco, ma fa molto. Come si comincia a vedere già da stasera.

Finalmente arriva il momento di Pappano, a cui il premio speciale sarà consegnato da Gianni Letta. Collaudato protagonista cultural politico, cravatta perfetta, giacca dal taglio impeccabile, Letta comincia a servirci una bella pappardella, lirica, alata e soprattutto generica, con parecchie cadute nell'ovvio: tipo la universalità del linguaggio della musica, la simpatia e la comunicativa italiana in giro per il mondo, e così via banaleggiando. Dopo quasi mezz'ora ci rendiamo conto che, a meno di tagliare la corda subito, non ne usciamo vivi. Anche perché lo zio Gianni, esibendo ogni tot minuti il normale calo del tono e della tensione narrativa che precedono la fine dello sproloquio, ci illude di essere arrivato alla conclusione. Macché. Invece del tanto atteso punto fermo, ecco un ma... un però...un allora...e il discorso si riapre senza pietà con un altro carico di aneddoti e notiziole superflue. A proposito di protagonismo...


Riagganciamoci a questo "a proposito", però non di protagonismo, ma di eco naturale. Con una galoppata ci catapultiamo alla basilica dei Santi Apostoli, dove suona e canta, immerso nella bellissima sonorità delle alte navate, l'ensemble vocale e strumentale Festina Lente diretto dall'amico Michele Gasbarro. Seconda serata del RomaFestivalBarocco con due messe di Frescobaldi. Niente mondanità, ma un pubblico sorprendentemente numeroso e attento. Chiesa grande, misteriosa, in cui si cominciano a intravvedere, nascosti nelle cappelle laterali, i primi segni dell'imminente presepio: pecorelle, personaggi col turbante, cammelli. Esecuzione fortemente partecipata con momenti di commozione non comuni in partiture ormai così lontane da noi. Siamo convinti che, oltre alla qualità degli esecutori, conti proprio l'atmosfera davvero unica di questa intensa, sonora penombra.



                                         

 

 
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Drammatiche letture

 

  IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

  2 dicembre 2013

   DRAMMATICHE LETTURE

 

In realtà l'invito diceva "Letture drammatiche - Voci contro la violenza sulle donne", ma la qualità dell'evento ci autorizza, semplicemente invertendo i termini, a capovolgere il significato del titolo e nello stesso tempo esprimere il nostro giudizio. Momento e scena del crimine: pomeriggio del 25 novembre all'Università ECampus di Roma in Via del Tritone. Con tutto il corollario (sembra fatto apposta, ma non c'è niente di esagerato) di questo tipo di eventi casarecci. Previsto all'inizio il trailer del film "Christine/Cristina"; non c'è stato verso di far partire il DVD. I microfoni: fischi, scrocchi, e buchi muti. C'era anche un fonico che per imperizia propria o per inefficienza del misero impiantino a disposizione, è riuscito solo ad aggravare la situazione. Stendiamo il proverbiale velo pietoso sulle performance di alcuni allievi/e dell'Istituto. Unico momento di rispetto e divertimento: Miranda Martino che ha letto un testo, cantato una canzone e intrattenuto il pubblico da grande diva quale è sempre stata. Adesso, con l'età, ha raggiunto vette sublimi: "Mi versi un po' d'acqua (che poi non ha bevuto), cara" all'organizzatrice; "Mi raccogli il foglio, caro", al fonico, che stava per farle cadere in testa l'asta del microfono, e via raccontando di sé con maestosa padronanza di tempi, pause e attenzione del pubblico. Una gran dama.

Poco prima eravamo passati al Teatro Argentina per una commemorazione di Aldo Giuffré, ma non avendo avuto il tempo di fermarci possiamo solo accennare alla folta presenza di anziani (c'era da aspettarselo) e alla bruttezza dell'ambiente. Alleghiamo, autocitandoci, un nostro passato accenno sul tema: "La Sala Squarzina è uno dei più tristi esempi del gusto anni '70. Sgraziatissima nelle proporzioni perché troppo lunga, stretta e alta, è stata notevolmente peggiorata con la ristrutturazione. Ha un pavimento di mortuario marmo biancastro, quattro enormi e incombenti lampadari a grappoli di palle luminose, tutto un lato appesantito da tre ballatoi d'acciaio che richiamano un penitenziario, e l'altra parete infilzata da frammenti di mascheroni recuperati dal sottostante teatro romano (quello di Pompeo), di bellissimo marmo di Carrara, che in quel contesto sembra polistirolo di Cinecittà". In più, abbondante e ubiquo, il consueto strato di muffa.


Altro livello, giovedì 28 alla Sala Sinopoli del Parco della Musica. "Ballet Mecanique", omaggio a Fernand Leger. Al lavoro per noi gli ottimi strumentisti del Parco della Musica Contemporanea Ensemble e la Cantoria di S. Cecilia, magistralmente, come sempre, diretti da Tonino Battista; e perfino un pilota con il suo aereo sul palco (un superleggero con le ali ripiegate, naturalmente, ma col motore acceso o spento secondo la partitura). L'occasione era la proiezione del film muto di Fernand Leger (1924), nato per essere accompagnato della musica di George Antheil, che abbiamo ascoltata dal vivo, bella, ben suonata e soprattutto moderna anche se ha novant'anni. Lo stesso film è stato riproiettato, stavolta con il commento di Michael Nyman, molto più recente ma molto meno moderno, meno bello, e molto, troppo furbo. Antheil vince, Nyman perde. Colpisce l'ingenuità del filmato, naturalmente giustificatissima dalla data. Semplici (ma probabilmente strabilianti per l'epoca) moltiplicazioni delle immagini in bianco e nero con effetto caleidoscopio, primi piani di occhi e bocche molto truccati, una graziosa ragazza in altalena e una corpulenta contadina carica di fagotti; l'industria nascente rappresentata da modeste bielle e piccoli stantuffi in movimento con gran sbuffi di vapore.

Il programma era pieno di altri interessanti pezzi, fra cui un "Living room music" per coro e quattro strumenti a percussione guidati da un rosso pianofortino giocattolo. Ancora una divertente dimostrazione della capacità di Cage nel prendere per i fondelli il pubblico, ma così abilmente da non offendere nessuno, anzi, addirittura da passare per serio. Grande.

Ci sembra opportuno aggiungere che ogni volta che andiamo a un concerto di questo genere, ci facciamo premura di passare al bar dell'auditorio, dove preparano un ottimo Negroni, propedeutico alla creazione di una buona ed euforica disposizione all'ascolto. Mai smetteremo di lodare la gioiosa atmosfera del Parco della Musica, un misto fra un vivace e soprattutto giovane campus universitario americano, e, specialmente d'estate, un glorioso parco di divertimenti.


Chiusura di settimana come meglio non si potrebbe con l'inaugurazione del nuovo spazio dell'Associazione ERA DEA, da sabato a mezzogiorno saldamente impiantata (per rimanerci) nel centro del Centro Storico di Roma, fra Panteon, Senato e Argentina, in un vecchio magazzino con cantina, che, visto prima dei lavori, ci aveva fatto inorridire per la sua aria di decrepita topaia. Dal bruco alla farfalla: ora è confortevolissimo, bellissimo e molto razionale. Ci si fa del teatro, della musica, del cinema. E sabato anche eccellenti tramezzini e squisito prosecco.

Ottima breve performance di Rosa Balivo su un testo di Rosa Di Brigida, che è anche presidente, e proiezione del promo di una singolare iniziativa dell'Associazione: una serie di videointerviste da parte del venticinquenne regista Francesco D'Ascenzo a grandi vecchi del mondo dell'arte che si raccontano sull'orlo della fossa. Primo a molte lunghezze, fra i testimoni, il critico d'arte Gillo Dorfles, centotre anni. Gli altri: un cinicissimo Paolo Villaggio, un pessimista Paolo Poli, un rassegnato Franco Cerri, più Lina Wertmuller, Dudù La Capria, Enrico Intra, Carlo Loffredo, Giampiero Boneschi, eccetera eccetera; tutti sopra gli ottanta e molti pericolosamente vicini ai novanta. Soprattutto campioni di umanità beffarda, dolente, amara, ma anche (e non sembri un paradosso visto che stanno, come già detto, con un piede nella fossa) viva.



                                          



 

 
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Muffa e fuffa

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

25 novembre 2013

MUFFA E FUFFA


22 novembre. Giornata intensa per il nostro argomento della settimana: mostre, mostrine e mostricciattole. Con supplemento del giorno dopo.

Ore 18: muffa, vera muffa con solide basi storiche e borghesi; una muffa sicura di sé che emerge vivace anche da sotto una spessa coperta di cultura.

Palazzo Primoli, alla fine di Via Zanardelli, di fronte al ponte, con il Palazzaccio sull'altro lato del Tevere. A una seconda entrata dell'edificio c'è il museo Napoleonico. Ma a noi interessa il Museo Mario Praz. Praz, letterato, famoso anglista e traduttore, ma soprattutto collezionista bulimico e ossessivo, e anche appassionato di ricamo, specialmente di piccolo punto (non nel senso che lo collezionava, era lui stesso a ricamare. Ci sono spalliere e centrini confezionati da lui). Il Museo non è altro che casa sua, dove lui morì ultraottantenne, e l'occasione è la mostra "Gusto Romantico" organizzata dalla GNAM per esporre le opere ottocentesche della collezione Marabottini, altro raccoglitore maniaco, quasi ma non proprio allo stadio di Praz, e suo amico nonché rivale nella caccia agli oggetti.

La mostra, che riempie alcune stanze dell'appartamento, è carina: ritratti di maniera molto piacevoli, paesaggi descrittivi e dettagliati, arredi. Ma quello che è ci interessa, più della mostra, è l'appartamento, rimasto, a quanto dichiara la guida, come quando lo abitava lui.

Luci fioche, pareti dipinte di giallo, verdino, rosso pompeiano, e: (attenzione) uccellini impagliati sotto campane di vetro, ventagli incorniciati, miniature, dagherrotipi, profili in silhouette, santini, madonnine, piccoli busti, orologi, bronzetti, cere, cartapeste, diorami, fermacarte, soprammobili, strumenti musicali, tabacchiere, calamai, cuscini, sedie, poltroncine, lettini, divanetti (aiuto!) e tutto, proprio tutto, in quantità strabordante, tanto che a un certo punto uno non ce la fa più perché rischia l'asfissia sotto la polvere e la muffa degli anni, dell'accumulo, e di quella patologia nota con il nome di collezionismo. Così il fascino artistico di queste cose, ognuna bella per conto suo, ma stomachevoli se inghiottite tutte insieme, va a farsi benedire.


Sotto l'acqua, ore 19, verso Via Margutta, meravigliosa per la sua aria solitaria e nobile anche se si trova a un passo da turisti e traffico di Piazza di Spagna, e famosa per essere la strada degli artisti e dei loro studi. Crediamo che ormai di artisti ne siano rimasti pochi da quelle parti, ma alcune vecchie gallerie resistono. In una di queste, la "One piece art", mostra di fotografie di Pino Settanni, morto troppo presto, e giustamente noto per i suoi ritratti fotografici di personaggi dello spettacolo e della cultura, tutti presi con sciarpa rossa al collo.

La gallerista, bellona anni sessanta intrattiene quattro o cinque anziani infreddoliti (non smette di piovere dalla mattina) assisa su una specie di trono nella saletta troppo piena anche di opere che non c'entrano con la mostra in corso; e tutto sembra una caricatura dei bei tempi di Novella Parigini, quando la strada era un movimentato centro d'arte, e non, come oggi, un fossile neanche valorizzato da un ente turismo che non capisce quello che di vendibile ha in mano. La mostra? Piccole foto di luoghi che magari in un formato più grande avrebbero figurato meglio. Poche e male esposte. Forse semplicemente un pretesto per fare salotto in un pomeriggio uggioso.


Via verso ancora un'altra destinazione. Sono quasi le 20, l'ora giusta. Mai andare troppo presto. Qui, niente muffa, ma fuffa. Fulcro di mondanità, presenzialismo e probabilmente anche molto denaro: è la Gagosian Gallery a Via Crispi. Uno stanzone ellittico immenso, perfetto per esporre grandi pezzi come questi, ma, proprio per la sua forma, condannato da un riverbero dei suoni sulle pareti curve, il soffitto e il pavimento senza protezione, che lo trasformano, appena c'è un po' di gente in un calderone di echi e rimbombi. E di gente ce n'è parecchia, e molto scicchettosa, all'inaugurazione della mostra di Tatiana Trouvé: "I cento titoli in 36.524 giorni". I nomi a effetto, specie se incomprensibili, sono obbligatori per eventi di genere modaiolo. In questo caso abbiamo anche l'aggravante di due righe dell'artista riportate sul programma: "Nella mia visione il razionale e l'irrazionale, la mente e i sensi, si mescolano sempre. Mi piace lasciare che scivolino uno nell'altro e diventino complementari anziché opposti". Roba nuova, eh?

Malgrado la fuffa, quadri e sculture sono belli, anche se quasi tutti "Senza titolo" (e allora il logo della mostra che significa?), il servizio dei custodi impeccabile, l'atmosfera frizzante, e non c'è neanche bisogno di parlare, tanto, nel calderone di frastuono, non ci si sente.


Per non farci mancare niente, l'indomani, tutti al La.Vi., Latteria & Vineria, nome casareccio che nasconde un locale molto giovanilistico e trendy a Via Tomacelli. In mostra parecchie belle fotografie di Vito Vinci, astratte e descrittive, appese in alto alle pareti e ignorate dalla folla di ragazzi del sabato pomeriggio occupati giustamente a bere, mangiare e rimorchiarsi immersi in un bum bum tecno da far paura. Loro neanche le guardano, e hanno ragione, perché la gestione si è accuratamente astenuta dal segnalare in qualsiasi modo la presenza di opere d'arte nel locale.

Ce ne siamo andati un po' frastornati dal suono, dall'ottimo Falanghina bevuto e dalla domanda: "Ma, perché le espongono se poi non lo dicono a nessuno?"


 

                                           

 
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Se l'Arcivescovo di Costantinopoli...

 

  IL CAVALIER SERPENTE

    Perfidie di Stefano Torossi

    18 novembre 2013

SE L'ARCIVESCOVO DI COSTANTINOPOLI...


Martedì 12, si inaugura (forse contro la sua volontà) una mostra di Fausto Delle Chiaie, un pittore di settant'anni, onesto, naif e spiritoso che vola alto. L'hanno intitolata "Fuori Luogo". Azzeccatissimo. Normalmente Delle Chiaie espone le sue opere sul marciapiede di Piazza Augusto Imperatore, e vive, appunto fuori luogo, da eremita, in una catapecchia a Sgurgola senz'acqua né luce. Non lo fa (crediamo) per una consapevole scelta filosofica o per una sciocca ricerca della presunta innocenza originaria. No, di sicuro neanche ci pensa, e comunque non se ne cura. Per lui conta l'arte, e il resto no. Alla vernice della mostra una signora voleva comprargli un disegnino e gli ha chiesto quanto. Il povero artista è piombato nella disperazione: non sapeva cosa rispondere, finché è arrivato il gallerista a salvarlo. Niente soldi, che appunto non chiede, ma anche niente confort, cibo decente, igiene. Semplicemente non insegue questi beni e, come succede, loro non inseguono lui. Ne fa a meno e non vuole altro. Ecco il perché della nostra parentesi in prima riga.

Quindi è un saggio. O uno sciocco?


Nuova Consonanza. Giovedì 14 alla Sala Casella della Filarmonica di Roma. "Doppio dittico per i 50" (anni dell'istituzione). Una serata piacevole, ed è abbastanza inconsueto usare questo aggettivo per definire un concerto di musica contemporanea. Solo voci con un unico intervento di percussioni. Un paio di opere dei vecchi fondatori dell'associazione (Guaccero e Macchi, ovviamente fuori discussione) e due di giovani: Grimaldi e Ronchetti. Ok, con qualche riserva sull'ultimo brano "3e32 Naufragio di terra" dedicato dall'autrice al terremoto dell'Aquila, a nostro parere incongruamente condito da un lungo gospel a bocca chiusa e concluso con un'invocazione a God in inglese, interventi che ci sono sembrati poco abruzzesi. Forse la Ronchetti pensava a un terremoto a Harlem...

La Sala Casella è un bel capannone molto accogliente e sempre scaldato da una simpatica atmosfera familiare. E come in ogni famiglia, anche qui c'è lo zio un po' tocco. In questo caso è l'assistente di scena. Una specie di Paperino che non ne fa una giusta. Già qualche serata fa lo avevamo notato aggirarsi capitombolando fra microfoni e leggii, con il pubblico già in sala, tutto vestito di bianco, splendente in mezzo ai musicisti rigorosamente in nero. Stavolta, a metà concerto, fra un brano e l'altro, mentre il direttore si sbracciava disperato per chiedere l'accensione di un faro sul proprio leggio, è arrivato caracollando dopo un bel po' e prima ha chiesto: "Lo vuole spento?" indicando il faro, che spento lo era già, dato che ne era stata reclamata l'accensione, poi, quando ha finalmente capito, se n'è andato borbottando: "Ma questa non l'avevamo provata".

Come dicevamo, simpatica atmosfera familiare. E non intendiamo niente di ironico.


Domenica 17, perseverando nella nostra missione di sostenitori di Nuova Consonanza, ci siamo catapultati alla Festa d'Autunno: un'intera giornata di commemorazioni e sperimentazioni musicali, teatrali e figurative di NC, ospitata come ogni anno a Villa Aurelia sul Gianicolo. Sede di rappresentanza dell'American Academy e storico relitto della battaglia fra garibaldini e francesi nel breve e sfortunato tentativo della Repubblica Romana a metà ottocento. Distrutta dalle cannonate, poi ricostruita e splendidamente arredata, la villa ha molte sale una più bella dell'altra, un grande giardino e soprattutto una terrazza magnifica su Roma. Serata ancora tiepida e romantica luna piena.

Dentro, una folla di studenti, musicisti, appassionati, e niente pubblico generico, di quelli che vanno ai concerti così, per passare il tempo, ma qualificato e attento. Questo ha reso tutta la giornata divertente e stimolante. E' chiaro che otto ore di musica contemporanea sono sufficienti a spezzare la schiena a chiunque. Anche noi, benché sostenuti da qualche bicchiere di ottimo cesanese offerto per l'occasione da un'azienda vinicola di Olevano Romano, a un certo punto abbiamo alzato bandiera bianca. Ciò non ci impedisce di reiterare, come in passato, il nostro sostegno totale a questa iniziativa del tutto speciale in una città pigra come Roma, quindi ancor più meritevole.


       Infantilizzazione. Eccolo finalmente l'aggancio al titolo dell'articolo, che sembrava una scemenza. Perché si tratta di una parola che butta sullo scioglilingua (Se l'Arcivescovo di Costantinopoli si disarcivescoviscostantinopolizzasse... ecc. ecc.). Dunque, l'infantilizzazione è una cosa seria, anzi, tragicomica, di cui, un po' generalizzando, vi portiamo un paio di esempi.

Il primo: a Verona quest'estate per uno spettacolo all'Arena, abbiamo visto girare per Piazza Bra un trattorino camuffato da locomotiva con al traino quattro o cinque piccole carrozze. Insomma, un trenino alla Disney, ma pieno di adulti schiamazzanti e, appunto, infantiliti, che avevano accettato, per di più a pagamento, di farsi portare in un giro turistico da cretini mentre avrebbero potuto benissimo farlo da esseri pensanti, per il bel centro storico della città. (I villaggi vacanze o le crociere, che sono il peggio del peggio come estrema manifestazione di infantilizzazione, li diamo per scontati).

Il secondo: i funerali, ai quali ultimamente (troppo spesso) siamo invitati. Di fronte a questo evento che ci fa tutti uguali, c'è sempre qualche prete che invita gli addolorati non ad affrontare da adulti la inevitabile realtà della morte, ma a cercare rifugio fra le braccia della mamma celeste, o a consolarsi con risibili ipotesi dei nostri cari che ci guardano e ci proteggono da lassù, di colleghi che dirigono il coro degli angeli o di sassofonisti che suonano con Charlie Parker fra le nuvole.

In questo modo noi cattolici infantilizzati dall'addestramento a scaricare il peso del lutto fra le braccia della mamma (celeste) non cresciamo mai. Vedere come invece, nella chiesa protestante, non c'è nessuna mamma che perdona; ognuno è responsabile delle proprie azioni. Allora sì che, costretti a trottare, ci si fa le ossa per la vita vera.



                                                 






 

 
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La manifestazione del Mistero Romano

 

                                                    IL CAVALIER SERPENTE

                                     Perfidie di Stefano Torossi

                                            11 novembre 2013

               LA MANIFESTAZIONE DEL MISTERO ROMANO


Concerto di apertura, Festival di Nuova Consonanza, domenica 3 novembre. Ce l'hanno fatta, malgrado le difficoltà di cui parlavamo due settimane fa. L'attesa era grande e la Sala Petrassi messa a disposizione da Musica per Roma perfetta per l'occasione (e piena). Ottimo il PMCE, Ensemble Contemporaneo del Parco della Musica, diretto da Marco Angius. Due omaggi: al defunto Franco Evangelisti e al vivo e vegeto Salvatore Sciarrino.

"Die Schachtel" di Evangelisti, è uno di quei pezzi in cui gli esecutori vanno avanti a forza di piripipì con il piffero, o barabang col tamburo. O tirano fuori versacci dalla bocca e sibili dal bocchino (del sax). Sperimentazione sui suoni, senz'altro, e valida per l'epoca. Oggi datata, come i nastri magnetici con rumori di traffico e conto alla rovescia di un lancio spaziale. Vere e proprie ingenuità da infatuazione futuristica. Anche l'"Aspern Suite" di Sciarrino è piena di ricerche sonore altrettanto ardite, ma molto più gustose (e più attuali). Flauti che sfiatano invece di suonare, soprani che mormorano romantiche, incongrue barcarole, tutto piano piano. Magari quaranta minuti sono un po' lunghi, però con un innocente pisolino in mezzo filano via che è un piacere. Insomma, hai voglia a criticare, è sempre roba interessante.

Rimani ancora a lungo con noi, NC!


Lunedì 4, Santa Maria Sopra Minerva, l'unica chiesa gotica di Roma, anche se poi l'hanno tutta imbellettata di un pesante make up barocco. Quarto concerto del XII Festival Internazionale di Musica Sacra. In programma "Mysterium", oratorio di Nino Rota. Potrebbe essere l'occasione per rimangiarci la sensazione che da sempre ci dà la musica "seria" di Rota: qualcosa che arriva quasi in cima alla scala, ma poi non ce la fa.

L'invito dice ingresso libero, ed ecco subito la prima mezza sòla. Ci sono ancora dei posti, ma non sono a disposizione, ci vuole un biglietto. Ma come? Qui c'è scritto ingresso libero. Si, però invece ci vuole il biglietto. Va be', rimaniamo in piedi (poi abbiamo scoperto che i banchi riservati erano per i sostenitori, per gli amici, per i monsignori, ecc.). Per fortuna in una chiesa grande come quella si può anche passeggiare, e ce n'è di belle cose da vedere.

Come Dio (siamo pur sempre a casa sua) vuole, la musica attacca. Grande orchestra del Teatro San Carlo di Napoli, nutritissimo coro, e in più le voci bianche. C'è tutto quello che serve. E bisogna dire che l'orchestra è trattata bene, così come le voci. La scrittura è sapiente, l'esecuzione ottima. Timpani, gran cassa, perfino le campane (a un certo punto fa capolino anche un sorprendente tema western, e ci è parso di intravedere Michele Lacerenza alla tromba su sfondo del Gran Canyon). Eppure, malgrado tutti i potenti mezzi a disposizione, la musica non decolla.

Comunque la nostra rimane un'impressione personale, ancora una volta confermata, ma sempre in attesa di essere smentita. "Quasi fino in cima alla scala, ma poi non ce la fa".


"Lelio swing", mostra di memorabilia di e su Lelio Luttazzi. Mercoledì 6 ai Mercati Traianei, una location che ha poco a che fare, è chiaro, con lo swing degli anni 60/70. Eppure l'abile illuminazione e la scenografia di bacheche e poster riescono a trasformare i muri rustici di quel centro commerciale di venti secoli fa in una cantina dei nostri anni giovanili. Merito di Cesare Bastelli, organizzatore (quasi) unico di tutta la faccenda. Ha curato lui l'allestimento, è andato in giro fra mercatini e collezionisti a recuperare oggetti, foto e dischi (pare che Luttazzi fosse uno che non conservava neanche un vecchio francobollo: tutto buttato, con grande disperazione di storici e biografi).

La stampa ha naturalmente parlato dell'evento. E qui, visto che siamo stati così buoni fino ad ora, lasciateci dire la nostra. Che è sulla pigrizia del cronista: una volta inventato un nome legato al personaggio, quel personaggio se lo porta addosso per l'eternità. Così Luttazzi è diventato il Giovanotto Matto, Sordi sarà per sempre l'Albertone Nazionale, poi abbiamo il Molleggiato, il Califfo e via banalizzando, mai un briciolo di fatica e fantasia per trovare qualcosa di nuovo.


L'Associazione Italiana di Psicoanalisi ha un presidente che si chiama Adolfo Pazzagli. Non aggiungiamo altro, ma ai lettori non sfuggirà il risolino che ci gorgoglia in fondo alla gola al semplice abbinamento fra ruolo e cognome. Ecco, l'abbiamo detto; adesso possiamo andare avanti.

 Sabato 9 al MACRO, Museo d'Arte Contemporanea di Roma, organizzato da Simona Argentieri e dall'AIPsi, un incontro su "Il Pregiudizio". I professori, che conoscono a menadito le vie della mente, devono essere all'oscuro di quelle della tecnologia, perché molti erano i microfoni a disposizione, ma nessuno capace di farli funzionare. E niente tecnici nei dintorni: è sabato. Drizzando le orecchie abbiamo seguito l'intervento dell'amica Simona, di grande interesse e con frequenti gustose ciliegine, come il caso citato di una sua paziente negra, che non "sapeva" di esserlo fino a che cominciò a ricevere i primi insulti razziali. E proprio vero: uno non si rende conto di chi è fino a che qualcuno dall'esterno, bene o male, glielo manifesta.

Noi, nella pausa spuntino, ancora una volta siamo stati colpiti dalla manifestazione del mistero romano: perché in una struttura bellissima, modernissima, e certo anche costosa da gestire, come il MACRO (e con pragmatica coerenza in tutti gli altri musei della città), il ristorante è scadente, male organizzato, oppure chiuso proprio di sabato (mentre il giorno di riposo dei musei è il lunedì). E il bar, dove ci siamo rifugiati, anch'esso allestito magnificamente con un bancone simile a un'astronave, è lasciato in mano a due imbranati garzoni, del tutto all'oscuro di cosa siano gestione e servizio in un locale pubblico. Nel frigo quattro tramezzini scamuffi e due pizzette in stato di rigor mortis.

Neppure quando, come in questo periodo, mancano i soldi e ci sarebbero le strutture per arrotondare un po', qualcuno ci prova. Il problema è che bisogna pensare. E, ancora peggio, lavorare.

 

 

                                        

 

 

 
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Trucchi, banchetti e piagnistei

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

   4 novembre 2013

   TRUCCHI, BANCHETTI E PIAGNISTEI

 

Funerale di Gigi Magni, martedì 29 ottobre alla Chiesa degli Artisti a Piazza del Popolo. Fuori, sotto il portico, ci si saluta nel salotto dei sopravvissuti. "Accidenti, non ci vediamo da tre funerali fa" ci ha detto un amico incontrato sul sagrato. Stranamente pochi i giovani, e anche la generazione di mezzo. Vuol forse dire che Magni non ha seminato allievi o collaboratori? Eppure non era certo una mezza figura, soprattutto per Roma e per i romani, ripetuti protagonisti dei suoi film.

Cerimonia piuttosto pittoresca, con un drappello di vecchi bersaglieri, in borghese ma con cappello piumato (forse un riferimento alla Roma del Papa Re spodestato) e moltissime dichiarazioni di amicizia, tanto è vero che è durata quasi due ore. Con forte rischio di deliqui, data l'età veneranda dei partecipanti. Molte chiome bianche, molte assenti, ma anche molte di quel bel mogano scuro così dichiaratamente fasullo.

Sul tema, nella nostra ingenua frivolezza, ci poniamo da sempre una, anzi due domande. Perché sui capelli maschili la tintura chiara degenera spesso in un rosa Barbie, e quella scura vira sul mogano da mobile coloniale (senza contare quella catramata)? E poi, come mai un uomo coi capelli tinti fa sempre un effetto tra il patetico e il grottesco, mentre una donna no? A quest'ultimo quesito, un amico parrucchiere ci ha fornito una risposta professionale che ci sembra pertinente. "Una donna tinta, dice lui, ci sembra naturale, perché i capelli colorati in cima a un volto truccato fanno parte di un insieme abituale, a volte anche armonioso, mentre la faccia vizza, pallida e senza aiuti cosmetici di un uomo vecchio, sormontata da una chioma innaturale colpisce e stupisce". Anche i commenti beffardi su un nostro noto leader girano sempre intorno ai capelli finti, al cerone, al lifting...


La stessa sera, qualcosa di tre volte sorprendente all'Oratorio del Gonfalone. Padrona di casa la Fondazione per la Musica Siemens (sì, quella Siemens lì) che festeggia il suo quarantesimo compleanno. Sorpresina: che una ditta elettrotecnica, anche se a quel livello, ci regali musica da quasi mezzo secolo (superfluo dirlo, e si capisce dal nome, la ditta non è italiana). Sorpresa: che il concerto, malgrado si annunciasse tosto (Berio, Rihm, Lutoslawski, Reimann e Britten; pianoforte e due cantanti) alla fine, per l'eccellenza degli esecutori, si sia rivelato addirittura piacevole, oltre che interessante. Sorpresona: che alla fine dell'esecuzione tutto il pubblico sia stato invitato in un sobrio sussurro a scendere per "un piccolo rinfresco" nei sotterranei dell'Oratorio, dove invece ci aspettava una cena che definire sontuosa sarebbe poco. In un antro da inquisizione, profondo ma bene illuminato e confortevole: ottimi antipastini fantasiosi, prosecco ben gelato, tondelli di polenta con melanzane, passato di ceci, arrosti di ogni genere, contorni vari, vini fermi bianchi e rossi, e alla fine una profusione di dolci. Non vorremmo essere criticati per questa lussuriosa scivolata nel peccato di gola, ma dobbiamo ammettere di essere ancora sotto nostalgia gastronomica e con un residuo di acquolina.


Messa solenne a S. Maria dell'Anima, chiesa della nazione tedesca, domenica mattina 3 novembre. Puntuali come soldatini ci presentiamo non per fede ma per arte. Il nostro amico Flavio Colusso, recentemente nominato kapellmeister, canterà, suonerà e dirigerà il coro e il gruppo strumentale di organo, cembalo, tiorba, tre tromboni e un cornetto. Orchestra e coro seguono la messa ed eseguono, intrecciando gli organici, polifonia rinascimentale.

La nostra riflessione, purtroppo obbligata, è: perché dobbiamo andare a una chiesa tedesca per sentire buona musica durante una funzione? Perché nelle chiese di casa nostra l'offerta ai fedeli si limita ai soliti tormentoni di canzoncine accompagnate dalle chitarrine delle suorine e dai chierichetti coi bonghetti? Eppure ci pare che dell'ottima musica sacra non manchi in repertorio.

 Naturalmente, siccome nella vita niente è gratis, in cambio ci siamo sorbiti un ponderoso sermone in tedesco. Del quale non abbiamo capito neanche una parola, ma intanto abbiamo potuto curiosare, notando: A, Una suora, anche lei tedesca, beatamente addormentata. B, La pulizia scrupolosa di marmi, mensole e balaustre. Neanche un grano di polvere, e cera in abbondanza. C, Una illuminazione sapiente che non abbaglia mai l'occhio. D, L'effetto comico del nome dei defunti tedeschi latinizzato. E sulle lapidi un certo numero di errori (di stampa diremmo adesso). Perché si sa, chi componeva gli epitaffi era un erudito, ma gli scalpellini, tutti analfabeti. E, Con incomprensibile simbologia, nel timpano sovrastante la tomba di Federico di Cleves due coccodrilli insidiano un delfino. F, I tre tromboni che furtivamente scompaiono a turno dietro un pilastro per sgocciolare la bava degli strumenti. (Problema costante dei suonatori di ottoni: dove scaricare la condensa, azione piuttosto antiestetica, ma ripetutamente necessaria).


Domenica sera tardi. Avremmo voluto concludere con il concerto di inaugurazione del Festival di Nuova Consonanza, ma non abbiamo lo spazio. Rimandato alla settimana prossima. Invece lo spazio c'è per due parole sulla puntata di stasera di "Sostiene Bollani". Che meraviglia di garbo, di competenza professionale, di piacevolezza. Bollani è bravo e simpatico, il direttore Lanzillotta è bravo e bello, l'orchestra è scintillante, gli arrangiamenti sontuosi; insomma, un prodotto perfetto. Se non fosse per quella mosca petulante, antipaticuccia, e fastidiosa di Caterina Guzzanti.



P.S. Pettegolezzo on line e sulla stampa: l'Auditorium di Via della Conciliazione (sala privata di proprietà ecclesiastica a Roma) ha rifiutato a Dario Fo la messa in scena di un testo di Franca Rame. Virtuosa indignazione da parte dei tartufi. A noi, al contrario, sembra lo scivolone di un vecchio citrullo (oppure un colpetto furbastro in cerca di pubblicità). Ma come, con tanti spazi laici in giro, e dopo una vita da mangiapreti va a chiedere la sala al Vaticano? Gli hanno detto di no; cosa si aspettava? I piagnistei, proprio non ci sembrano opportuni. Né dignitosi.




                                         

 

 
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Mania ossessiva compulsiva

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

    28 ottobre 2013

  MANIA OSSESSIVA COMPULSIVA


C'era una volta un giovane tenore di belle speranze a cui, in un certo momento della vita, dopo aver cantato con grande successo nel ruolo di Rodolfo alla prima mondiale della Boheme, partì, come si suol dire, la brocca. Mollò la musica e diventò collezionista, una condizione di assoluto squilibrio: prima mentale, e poi, inevitabilmente, finanziario.

Si chiamava Evangelista Gorga e quando morì nel 1957 a più di novant'anni, braccato dai creditori, aveva raccolto di tutto, centocinquantamila pezzi che teneva stipati in dieci appartamenti affittati in Via Cola di Rienzo. "Mania ossessiva compulsiva", la diagnosi. Abbiamo già espresso il nostro stupore di fronte a chiunque collezioni qualunque cosa, perché con quella scelta imbocca una strada senza uscita. Inutile illudersi, l'ultimo pezzo che completa la raccolta non è mai l'ultimo davvero, e non si finisce più.

Perché parliamo di Gorga? Perché il museo di scultura antica a Palazzo Altemps gli dedica una mostra.

Apriamo una parentesi. Secondo noi tutti i musei dovrebbe essere così, come l'Altemps. Un magnifico palazzo rinascimentale per sede, poche sale con pochi pezzi insostituibili, e la certezza per il visitatore di consumare il suo spuntino artistico senza paura dell'indigestione che inevitabilmente ti paralizza, per esempio ai Musei Vaticani, dove, arrivato alla terza sala, immensa, gremita di innumerevoli opere, ti piglia un coccolone da bulimia e cominci a non capire più niente.

Fra i pezzi più rinomati c'è il famoso grande sarcofago Ludovisi, che è talmente sovraccarico da non essere neanche bello, ma è un buon esempio di un certo tipo di propaganda politica dell'epoca, che dura fino a oggi, e di sicuro continuerà domani. E' uno scatolone di pietra affollato di combattenti che si dividono in belli e brutti. I brutti sono naturalmente i barbari: Daci, Galli, Goti, il grande satana, insomma. Irsute facce da selvaggi, coperti di stracci, tutti regolarmente sottomessi dai soldati romani, che invece sono carini, ben rasati ed eleganti. Dato che probabilmente erano anche colorati, si può immaginare l'effetto. Altrettanto eccessiva doveva essere la colonna Traiana con tutti i suoi soldatini e i cavallini dipinti.

Certo i viziati siamo noi che consideriamo chic solo il bianco del marmo (che poi è così perché le sculture ritrovate hanno venti secoli, quasi tutti passati sottoterra; chiaro che i colori sono scomparsi). Chiusa parentesi.

In mostra ci sono milleottocento pezzi, l'uno per cento del totale raccolto dal povero Gorga: intonaci, stucchi, marmi, avori, giocattoli, ceramica, lucerne, specchi, armi, vetri, monete; si rimane senza fiato. Immaginare l'affanno in quei dieci appartamenti a Via Cola di Rienzo.


Mercoledì sera all'Opera di Roma con Turandot. Mondanità sotto la facciata in stile novecentista, probabilmente il parto peggio riuscito di tutte le gravidanze di Marcello Piacentini, architetto del regime e padre felice, peraltro, di cose molto migliori. Buona l'orchestra diretta da Pinchas Steinberg, regia di Roberto De Simone, scene esagerate, troppe persone, a nostro parere inutili, sul palco. La musica di Puccini, qui davvero moderna, continua a essere meravigliosa.

Con alcuni punti imbarazzanti: Ping Pong e Pang non fanno altro che saltellare su marcette da sette nani e i momenti più cinesi dell'azione sono sempre sottolineati dall'ovvio xilofono. E ancora, ma qui Giacomo non c'entra, alcuni guizzi letterari del testo sono da brividi. Siamo tutti consapevoli delle vertiginose intemperanze dei librettisti d'opera, specialmente nell'ottocento, ma qui stiamo un secolo dopo, anche abbastanza avanti. Vale la pena di ricordarne un paio, splendide: "Quando rangola il gong, gongola il boia!" e "Da secoli ella dorme nella sua tomba enorme". Com'è possibile, c'è da chiedersi. Un artista raffinato come Puccini. Neanche al festival di Roccacannuccia.


Venerdì 25, Goethe Institut, conferenza stampa di apertura del cinquantesimo Festival di Nuova Consonanza. E' certo che per finanziare questa benemeritissima iniziativa sarebbe bastato risparmiare una dozzina di costumi dei tanti coristi di Turandot. Invece, micragna assoluta: i fogli del comunicato stampati su tutte e due le facce (è un segnale), niente fondi dal Ministero, e in più la notizia, comunicata con la consueta eleganza dal Comune mezz'ora prima del via, di una riduzione del cinquanta per cento della sovvenzione.

Niente paura; con tragico ottimismo il maestro Fausto Sebastiani, comunica di aver cercato, e trovato, una mano tesa dall'estero verso Roma: Goethe Institut, Forum Austriaco, Accademia Americana, l'Istituto Giapponese, quello Polacco, e per fortuna anche qualche mano italiana: la Filarmonica, Musica per Roma e Santa Cecilia, di cui è stato recentissimamente nominato direttore l'amico Alfredo Santoloci, che siamo certi riuscirà a grattare via un po' della vecchia muffa accademica.

Siamo ovviamente d'accordo sul succo del breve discorso che ha fatto. Non è una novità; da sempre è il problema della categoria. Per avere un minimo di peso bisognerebbe, al grido di "Basta con le prime donne!", lavorare insieme.

Sembra facile. Invece pare proprio impossibile.



                                           

 

 
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Ottobrata romana

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

   21 ottobre 2013

  OTTOBRATA ROMANA

 

Ottobrata romana: designansi con questo nome, qui in città, le ultime manifestazioni di bel tempo prima dell’autunno propriamente detto. Sono giornate con un clima quasi estivo, il cui sole tiepido e l’aria balsamica contribuiscono al nostro benessere. Non serve altro. Per fortuna; perché proprio in una di queste giornate, precisamente il 19 ottobre a mezzogiorno, cioè nell’ora culminante della felicità (in cui, lo ripetiamo, non ci abbisogna niente altro) ci siamo presentati all’inaugurazione del Giardino delle Fontane, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna (GNAM, infelice acronimo, a cui manca solo un punto esclamativo per suggerire una gestione non proprio corretta del pubblico denaro: GNAM!) Ma questa è pura malignità.

L’edificio della Galleria, costruito a inizio ‘900 in un’architettura un po’ tronfia, ma non priva di decoro, situato in una bella vallata alberata, è affiancato da giardinetti, uno dei quali era la scena dell’evento. Scena modesta, che noi ricordavamo ornata, prima, di bellissime palme. Non più: il punteruolo rosso, implacabile, ha colpito, e invece degli alberi svettanti, ci sono in terra dei perfetti dischi di legno che altro non sono se non i monconi delle succitate palme segati a filo cemento. Peccato perché senza di queste, buona parte della suggestione svanisce, e rimangono solo qualche siepe di bosso e un paio di vasche assolate, su una delle quali trionfa “Ipotesi grafica”, una delle opere inaugurate.

Con tutto il rispetto per l’autrice, il manufatto, consistente in due sostegni verticali reggenti un tubo orizzontale da cui, attraverso fori equidistanti scendono sottili getti d’acqua che finiscono nella vasca sottostante, a noi ha fatto pensare a un umile, normale impianto di innaffiatura.

Probabilmente siamo dei semplicioni che hanno bisogno di evidenza per capirci qualcosa, ci siamo detti. Ma insieme a questo empito di umiltà ne abbiamo provato un altro forse più intenso di sbalordita ammirazione per chi, a mostre e vernissage, scrive le note di presentazione delle opere. Fantascienza pura (sempre secondo noi buzzurri).

Eccone alcuni brani pescati dal comunicato stampa: “Protagonista è l’acqua che dall’alto scende (ah, la forza di gravità!) creando un velo che separa porzioni di spazio ma al contempo le mette in comunicazione (bisognerebbe decidersi: che fà ‘sto velo, separa o unisce?) sorta di zona cuscinetto neutra, impalpabile e riflettente”.

E, a proposito dell’opera successiva, “Libri in giallo”, una scultura in travertino, appunto, giallo, rappresentante una pila di libri. “Le striature del marmo somigliano ad una scrittura che si srotola verticalmente con moto ascensionale. Presumibilmente (meno male che qui l’estensore è colpito da un dubbio) è questo il senso che l’autrice ha voluto trasmettere e che il titolo non smentisce, dato che l’opera rappresenta libri il cui contenuto è la scrittura”. Colpiti da questa rivelazione sensazionale, non siamo andati oltre.

Ammettiamo di avere decontestualizzato un po’ le frasi citate, ma le parole sono quelle (abbiamo il testo nel cassetto).

In ogni caso la giornata era splendida, numerosi gli amici che abbiamo incontrato, e poi, di soppiatto ci siamo fatti un giro per la GNAM, che è un bello scatolone pieno di arte straniera, e anche, anzi soprattutto italiana. Non è stato tempo sprecato.


Lo stesso giorno, la sera, alla Sala Sinopoli, Secondo Festival Internazionale della Fisarmonica Digitale. E’ stupefacente come una normale fisarmonica, con qualche migliaio di circuiti elettronici in più diventi non solo un’intera orchestra, ma anche un contenitore di effetti sonori: spari, motori, cinguettii a volontà.

Il problema di queste manifestazioni-concorso è, in primo luogo il tono sempre un po’ provinciale, con troppi salamelecchi agli sponsor; troppo lunghe presentazioni di ogni singolo membro della giuria; sfrenato uso di parole come splendido, straordinario, meraviglioso; continuo chiamare l’applauso da parte dei presentatori: un grande applauso a…, salutiamo con un applauso…, ancora un applauso…e infine il cattivo gusto dei concorrenti i quali, o continuano a scegliere i soliti voli del calabrone e hora staccato, oppure sempre più spesso presentano loro proprie composizioni infarcite di effetti mirabolanti, che della musica hanno perso quasi tutto il sapore. Si riscattano poi durante lo spettacolo, poverini, perché sono giovani, spesso molto malvestiti, ma soprattutto concentrati su quel momento fondamentale della loro vita. E vogliamo rovinarglielo? No di certo.


Proseguendo nell’autolesionismo, domenica 20 eccoci alla Sala Petrassi, musica contemporanea: “Il Suono Sospeso”, omaggio a Berio e a Nono. Due composizioni del ’65. Volevamo vedere se l’avanguardia, dopo cinquant’anni regge ancora o si è fatta vecchia.

Bisogna ammettere che questi fatti musicali, oggi come ieri, ci forniscono, contrariamente ai concerti tradizionali, notevoli invenzioni spettacolari. Stasera abbiamo sul palco cinque grandi lastre di metallo dorato sospese a cordoni lucenti accanto a quattro altoparlanti neri. Ai lati della scena due arpe e una quantità di percussioni, più attori, cantanti, musicisti (ai quali in alcuni momenti vorremmo chiedere come facciano adulti consenzienti a rimanere seri mentre fanno cose da bambini: tirare catenelle, battere martelli, cacciare urli e lamenti).

Per quanto siamo riusciti a intuire, e in questi casi non è mai facile, l’esecuzione ci è sembrata buona (fra l’altro non abbiamo capito come facessero i cinque percussori delle lastre a entrare a tempo senza direttore) e ci siamo divertiti.

Ma sull’attualità dell’avanguardia dopo mezzo secolo non abbiamo risposte. E’ troppo presto?



                                         


 
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Pifferi e tromboni

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

    14 ottobre 2013

  PIFFERI E TROMBONI


E' l'otto ottobre e nel suo museo degli strumenti musicali l'Accademia di Santa Cecilia ospita una nuova iniziativa: l'Archivio Multimediale delle Colonne Sonore del Cinema Italiano, un'ottima idea di Gianni dell'Orso, che la presenta con la sua abituale chiarezza, sobrietà e senza inutile protagonismi.

Adesso viene il bello. Al tavolo sono seduti Bruno Cagli, Nicola Piovani e Riz Ortolani, ognuno dei quali si esibirà in una caratterizzazione che gli ignoravamo, stupendoci alquanto. Il primo, Presidente di S. Cecilia, sfodera una parlata virata su un vernacolare accento romanesco raccontando aneddoti e interpretando lo zio scherzoso, magari un po' troppo autoreferenziale, ma simpaticamente autorevole.

Il secondo, Piovani, che tutti conosciamo come eccellente compositore, comincia in sordina, poi se ne esce con ottimi e puntuali contenuti; esattamente quello che ci piace sentire da un divulgatore intelligente e spiritoso che ci introduce all'argomento. Non mancano riferimenti decisamente anticonformisti alla musica da lui definita (e noi siamo d'accordo) un po' terroristica di Stockhausen, perfetta, malgrado la sua fama di ostico intellettualismo, per commentare efficacemente una scena horror. Soprattutto ci è piaciuta la sua annotazione sulla inesistenza, nel mondo delle colonne sonore, delle gerarchie accademiche.

Unendosi a questo piacevole duo di leggiadri pifferi, ecco che attacca il trombone, il Maestro Ortolani! Il quale, dopo aver esordito con un "non so cosa dire" (si fosse attenuto a questa premessa, sarebbe stato meglio per tutti, soprattutto per lui) entra nel personale e parte con una spiacevole pappardella. Sul fatto che nella lista dei circa duecento autori di musica per il cinema presentata dal progetto ce ne siano anche parecchi non proprio eccelsi, che magari non conoscono il contrappunto (bene come lo conosce lui). Su quanto erano più competenti i compositori di una volta (come lo è stato lui). Poi polemizza sul perché l'Accademia di S. Cecilia non lo abbia mai invitato (ma se sei qui oggi! è la risposta di Cagli), e così via trombonescamente recriminando. Tanto che in chiusura di convegno, Piovani, lui sì, arguto e giovane, prima di salutare raccomanda ai giornalisti di non attribuirgli, neanche per sbaglio, le parole di Ortolani.


Sabato, dodici ottobre, primissimo pomeriggio. Dobbiamo relazionare un fatto che di artistico ha poco, ma che rimane ugualmente un capolavoro. La pennichella (o siesta). Per renderla memorabile occorrono alcuni elementi fondamentali: un pasto leggero ma soddisfacente, un ambiente a temperatura appena più alta del giusto, una poltrona comoda e un poggiapiedi di uguale altezza. Ma soprattutto un quotidiano possibilmente di molte pagine che a un certo punto della lettura sfugge dalle mani e va a distendersi sullo stomaco (ogni barbone conosce le mirabili proprietà termoisolanti del giornale). Ecco, si scivola serenamente nel sonno dal quale ogni tanto ci si risveglia a metà per rassicurarsi che c'è ancora tempo e riscivolare nell'oblio. Un godimento sublime.

E il tempo c'era effettivamente. Perché l'appuntamento era alle 19.30 alla chiesa dei Santi Apostoli per un concerto di musica italiana dei secoli diciassette e diciotto organizzato dall'Associazione Architasto. Ai comandi di un piccolo organo portativo, Cosimo Prontera. Che dire? Noi eravamo in un nirvana di serenità, la musica era bella, ma, certo, la grande chiesa cavernosa, malissimo illuminata come il solito, era semivuota; e naturalmente la voce del piccolo organo, fatta per la meditazione, non contribuiva a risvegliare l'attenzione dei presenti. Con tutto ciò, buona l'esecuzione, comodi i banchi e meritoria l'iniziativa.


Invito gradito nel pomeriggio di domenica tredici al Museo Ebraico di Roma. L'occasione è un incontro con proiezione del "Giardino dei Finzi Contini" un film di De Sica padre, colonna sonora di De Sica figlio, Manuel, nostro vecchio amico. Il museo, ottimamente ordinato si trova nei sotterranei della Sinagoga e contiene dagli oggetti del culto ai bandi dei papi che costringevano i piccoli ebrei ai battesimi forzati e gli adulti alle prediche coatte. Ci è stato offerto dell'ottimo vino kasher; ci siamo anche tolti la soddisfazione di chiedere a un signore totalmente pelato come facesse a tenere in testa la kippah senza la tradizionale forcina per capelli (sospettavamo nastri adesivi o velcro) e lui, togliendosela ci ha mostrato che non c'era trucco né inganno, e ha confermato che sì, in caso di vento vola via come un normale cappello.

La sensazione più curiosa, però, è stata percepire fra tutti i presenti un certo sotterraneo fremito di soddisfazione discreto ma decisamente vivo, del quale non ci siamo dati ragione finché non ci è balenata la spiegazione, semplice e umana. Sta a vedere, ci siamo detti, che ha a che fare con la notizia della dipartita tardiva, certo, ma comunque finalmente avvenuta di quel tale, centenario, ex capitano delle SS...


 

                                        






 

 
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Allegria!

 

IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

7 ottobre 2013

 ALLEGRIA!

 

Naturalmente non si tratta di un revival di Mike, ma del grido di sollievo che il 3 ottobre a mezzogiorno è sgorgato prepotente da tutti noi alla presentazione del programma di Musica per Roma, Sala S. Cecilia, Parco della Musica.

Temibili sono normalmente per la loro pesantezza queste occasioni. Tutti parlano troppo e ammorbano. Bene, stavolta, prima della sciagura, i presenti in sala hanno avuto in regalo un breve divertentissimo filmato: "Istruzioni per l'uso" (destinate al partecipante alla conferenza stampa, naturalmente) in cui, insieme all'indicazione di furbi stratagemmi per svignarsela non visti, i personaggi che avremmo ascoltato al microfono di lì a poco apparivano in faccia e voce. "I numeri parlano chiaro", annunciava dallo schermo Aurelio Regina, il Presidente, che in seguito, anche se non proprio succintamente come aveva promesso, ce li ha dati questi numeri, davvero confortanti e tutti positivi. Musica per Roma è in attivo per il decimo anno; gli eventi aumentano (1.300 nel 2012), gli spettatori pure, come gli sponsor privati, e così via.

"Ruberò solo pochi minuti" continuava l'AD Carlo Fuortes, anche lui, poi, ambasciatore di ottime notizie. Abbiamo visto inquadrato Massimo Pasquini, sorridente capo ed eminenza grigia dell'Ufficio Stampa e, sospettiamo, autore di questa simpatica burla. E poi tutto è filato via con scioltezza, lasciandoci solo una lieve sorpresa perché il personaggio da cui ci saremmo aspettati la maggiore disinvoltura, è risultato invece il meno brillante: Max Gazzè, artista in residenza, decisamente un po' banalotto nella sua dichiarazione.

Goloso, invece, l'intervento dell'Assessore alla Cultura del Lazio, Lidia Ravera, che l'ha buttata sulla dipendenza confessandosi drogata di cultura a causa della sua irresistibile attrazione per la stessa, come lo si può essere per pasticcini e giocattoli, e dichiarandola indispensabile medicina contro la nullità del quotidiano, e altrettanto utile rimedio contro l'invecchiamento.

E per rimanere in tema gastronomico, dopo i saluti, rinfresco così così, ma con un punto a favore di un primo di squisiti quadrucci in brodo di pollo con fegatini, castagne, melograni e porcini. Un piatto piuttosto invernale, prontamente smentito dal sole caldo e dal frinire di un ultimo cicalone estivo abbarbicato su un pino lì di fronte, che ci hanno salutato all'uscita.


Sera del 3. Sul programma: "Székesfehérvàr", impossibile nome ungherese della città da cui arriva l'orchestra da camera Hermann Làszlò, in concerto a Santa Maria del Popolo. Una lingua assolutamente incomprensibile, quella, con in più parole chilometriche. Ricordiamo un nostro viaggio verso Budapest. Per leggere (senza capirlo, naturalmente) ogni cartello con il nome del paese non bastavano dieci minuti. Bel concerto, bel programma di musica sette-ottocento, ottima orchestra. La chiesa, tutta in biondo travertino (come sappiamo, rubato dal Colosseo, che all'epoca più che un monumento era una cava di marmo) di elegante sobrietà rinascimentale, ferita da un pugno nell'occhio: la cappella Cybo, superbarocca, fasciata da una decorazione di cupi, preziosissimi marmi, colonne e cornicioni (probabilmente anche questi sgraffignati a qualche rudere romano), senza un millimetro di semplice intonaco. Bellissima, intendiamoci, ma, ficcata a forza in quel contesto, discretamente cafona.


Auditorium di Via della Conciliazione, venerdì 4. I Concerti gratuiti di Uto Ughi per Roma; una serata di musica per il cinema con l'orchestra da camera I Filarmonici di Roma, direttore e solista al pianoforte Luis Bacalov, Cicci Santucci alla tromba. L'orchestra, quattro violini primi, quattro secondi, due viole, due celli, un contrabbasso e niente ritmica è superba, la direzione e il piano altrettanto. Il nostro vecchio amico Santucci ci ha emozionato per la sua delicata e agile padronanza della tromba, per gli arrangiamenti sapienti e per la disinvoltura con cui ha affrontato brani anche molto ritmici, accompagnato da una formazione in cui la ritmica, come abbiamo detto, non c'era proprio. Un vero grande godimento. Malgrado tutti i nostri serpentini sforzi non riusciamo a trovare un solo difetto nella serata.

Beh, a dir la verità, un paio di osservazioni, volendo, possiamo farle. Una stupida, l'altra un po' meno (speriamo). La prima: perché in una serata così raffinata, con il grande palcoscenico elegantemente vuoto a disposizione dell'orchestra e un magnifico pianoforte a coda, i solisti, tutti naturalmente in nero, devono stare seduti su bruttissime sedie da bar, anzi da latteria, con il telaio bianco smalto, e sedili e spalliere di un'orrida imbottitura rossastra?

L'osservazione profonda eccola. I temi da film sono spesso bellissimi, ma sempre un po' striminziti nel senso che non arrivano mai a svilupparsi in uno slancio che superi i due-tre minuti, proprio a causa della loro destinazione d'uso. Peccato.


Fine settimana, domenica, con il ventitreesimo Festival della Canzone Romana al Teatro Olimpico. Fuori, sul marciapiede, una folta rappresentanza di vecchietti e vecchiette. Queste ultime spesso e volentieri leopardate. Tutti con la sigaretta in bocca; da non credere. Dentro, spettacolo segnato da due elementi. Il primo piuttosto funereo, sia per la dedica a Califano, il cui nome ricorreva obbligatoriamente nel ricordo degli ospiti e nel saluto col microfono alzato verso il cielo dopo ogni canzone, sia per l'inevitabile lista dei caduti che quest'anno sono davvero tanti: Little Tony, Enzo Jannacci, Jimmy Fontana...Il secondo elemento è lo stupore più volte richiamato, a causa dalla totale incongruenza fra la figura pubblica di Califano, sciupafemmine burino e la sua indubbia delicatezza (tenerezza l'ha chiamata Edoardo Vianello nel suo saluto) di poeta.

Spettacolo più scorrevole delle scorse edizioni grazie alla direzione artistica di Vianello, vecchia volpe del mestiere, che ha anche cantato stupendoci, come sempre, per la naturalezza, la voce potente e soprattutto per la sua immutabile, perfetta intonazione.



P.S. Mercoledì 2 la finanziaria Azimut ci ha invitato nella sua nuova sede per la vernice di un'interessante mostra di quadri poco visti di Giacomo Balla. Bello che una società che si occupa di vil denaro abbia la delicatezza di condire il suo pane quotidiano con un po' di arte.

Deviando leggermente dal tema, una domanda ci viene in mente a proposito di Balla, grande artista senz'altro, ma anche padre sciagurato: perché i genitori come lui, all'inizio del '900, epoca di infatuazione per scienza e tecnica, condannavano i figli a portare nomi infami? Luce ed Elica, le due bambine di Balla; Cilindro, poi Indro, per il giornalista Montanelli; Industria, Energia, Vapore... ci pensate al tormento di questi poveretti a scuola?



                                        

 

 
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Il Postino plagiato e altre storie

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

30 settembre 2013

  IL POSTINO PLAGIATO E ALTRE STORIE

 

Il 25 settembre, all'Auditorium di Via della Conciliazione (quella grande sala che il Vaticano ha affittato per anni a S. Cecilia per i concerti, finché la città di Roma si è decisa a costruirsi un proprio Parco della Musica, istituzione che da allora non solo permette il risparmio di un affitto cospicuo e inutile, ma è diventata addirittura capace di mantenersi) in un tripudio di mondanità cultural politica si è inaugurata la rassegna Romaeuropa Festival.

Primo spettacolo, un balletto di Emanuel Gat "The Goldlandbergers", arzigogolato gioco di parole fra il titolo della musica, le Variazioni Goldberg e l'ipotetica patria (land) dei suoi abitanti. Un fatto artistico che malgrado tutto il contorno sembrasse pensato per scoraggiare se non proprio la felicità dello spettatore (non esageriamo), almeno un tranquillo consumo estetico dell'evento, è riuscito a lasciarci comunque qualcosa addosso. Che è già sufficiente per considerarlo uno spettacolo riuscito.

Per amore di informazione dobbiamo precisare quali erano gli elementi di (voluta?) mortificazione: la versione per pianoforte di Glenn Gould delle Variazioni Goldberg di Bach, a nostro parere (contestabilissimo, naturalmente) usata in modo molto moscio, la voce stessa di Gould ritagliata da una sua trasmissione, in un inglese che evidentemente non dovevamo capire bene, cori vari ed effetti di vento, la nudità squallida del palcoscenico, le luci livide, e addosso ai danzatori un assortimento di calzini, canottiere e mutande che peggio non ne avevamo mai viste.

Eppure un'anima c'era...


Baruffa Endrigo-Bacalov sulla paternità del tema conduttore de "Il Postino". L'argomento del contendere: Luis Bacalov avrebbe plagiato una canzone di Sergio Endrigo, e con questo materiale sgraffignato si è beccato l'Oscar.  Mah! A nostro parere il plagio non è così evidente; semmai, data la semplicità del tema, probabilmente involontario. In ogni caso Bacalov, dichiarando che non ne poteva più di questa rottura di scatole durata due decenni, ha deciso di patteggiare e rinunciare a parte dei diritti in favore di Endrigo (eredi) e altri coautori.

Non è il fatto che ci interessa, ma il clima di compiaciuto livore contro il colpevole che si è subito creato con la più viva partecipazione dei colleghi, musicisti e non, comunque artisti, su facebook e sulla stampa "Eccolo, l'abbiamo beccato, il ladro!", "La solita figuraccia all'italiana". Qualche voce si è alzata perfino contro Morricone, membro della prima commissione che aveva dato ragione a Bacalov. Insomma, ancora una volta sprofondiamo nello stupore che ci prende a constatare quante volte il talento di un artista, che dovrebbe, in quanto dono del cielo, rendere chi lo riceve simile a un angelo, si accompagna invece a tutti e sette i peccati capitali, ed è inutile elencarli perché ce li ricordiamo, fin dai tempi del catechismo.

Forse il talento non è proprio un dono del cielo, ma piuttosto è come un fiore: cresce bene solo sul letame.


Domenica 29, Music Day. Mostra mercato del vinile organizzata da Francesco Pozone in un albergo dell'EUR. Nove ore dedicate a questo fenomeno per noi incomprensibile, ma, a giudicare dal pubblico formicolante e dal numero di espositori, largamente condiviso. Ok, collezionare quadri degli impressionisti o bronzi greci è ancora accettabile (avendo i soldi) perché, se non si è tanto paranoici da chiudere tutto nel caveau di una banca, significa mettersi in casa un sacco di belle cose da guardare quanto si vuole.

Ma il disco è un supporto tecnologico che quando è vecchio funziona male, inquinando il suo contenuto con fruscii, toc e salti che rendono la musica, che è proprio quello che dovrebbe fornirci, inutilizzabile. Le copertine, certo, le copertine dei vecchi LP, quelle sì che erano opere d'arte. A due, anche tre facce; e allora la collezione forse è solo l'esterno. Quell'anima nera che ci sta dentro non è altro che una scusa.

A metà mattinata un ricordo di due cari amici partiti: Claudio Rocchi e Franco De Gemini. Nel pomeriggio due presentazioni: "Canzoni sulle pagine", audiolibro di Renzo Zenobi, mitico cantautore d'insuccesso, svanito dal mondo dei vivi a fine secolo scorso, e ora riapparso con questo nuovo materiale, sempre del suo genere: intimista, leggiadro e leggermente polveroso. E "Manuale del perfetto beatlesiano" di Luigi Abramo. Questo signore si è inventato e ha realizzato un'iniziativa che ha chiamato "Appia Road" (e già questo titolo suggerisce il tono) che offre la traduzione in perfetto romanesco di tutte le canzoni dei Beatles. "Blackbird" diventa "Merlo", "Norwegian wood" si trasforma in "Legno der Po" e così via. Ben fatto e divertente (anche se, crediamo, un po' fuorilegge).


Un pizzicotto al volo. Domenica sera. "Che tempo che fa", ospite Ettore Scola, burbero timido, intelligente e buon raccontatore, il quale, richiesto da Fazio di citare un oggetto importante del suo quotidiano, nomina l'uovo. Perché è buono da mangiare, dice, e perché è la più perfetta e bella forma geometrica. Inevitabile a questo punto sentirci gorgogliare nell'orecchio la battuta vecchiotta, ma non ancora superata: "L'uovo è l'oggetto più bello e razionale del mondo, un capolavoro; e pensare che è fatto col culo".



P.S. Vedete cosa succede a voler per forza fare i giochetti da saccentino? Nell'articolo del 9 settembre, per il gusto di inserire una litote abbiamo raccontato male il premio "Poesie nel Cassetto". Non abbiamo ricordato che esiste da 23 anni, che il suo padrino all'inaugurazione fu Argan, che il buon uso dell'italiano, andarci a proprie spese e la fedeltà sono gli elementi caratterizzanti dell'iniziativa, e che la ragione per cui molti dei partecipanti di questa edizione erano avanti con gli anni è perché sono presenti e fedeli fin dall'inizio. Caro Vito Taverna, scusa la nostra superficialità, tipica del rettile, sul quale tutto scivola perché non trova ostacoli.



                                        

 

 

 
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Scemo più scemo

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

    23 settembre 2013

   SCEMO PIÙ SCEMO


C.L.A.

Comitato per la Liberazione degli Arrosticini. Da Facebook: "Un commando di attivisti scatenati devasta il sito di una fiera locale in Piemonte, tagliando cavi, abbattendo tende, imbrattando tutto". La sagra era quella degli arrosticini, gustosi spiedini di pecora. Fra le scritte lasciate dagli scalmanati: "ASSASSINI!" e "VERGOGNA MANGIATORI DI CADAVERI!!!" Il blitz è stato rivendicato da un gruppo locale di vegani (per chi non lo sapesse, i vegani sono vegetariani estremi: niente che cammini, voli o nuoti, e nessuno dei loro derivati).

Naturalmente, trattandosi di una notizia da Facebook, la sua attendibilità è senz'altro da controllare, ma se vera, una e una sola è la logica conclusione: "Senza proteine si rischia la scemenza".

 

Muffa d'arte. 

Martedì 17 settembre. Il Trovaroma annuncia alle 19.30 al Chiostro del Bramante per la serie "Incontri con l'artista" la presenza di Mario Ceroli che si racconterà agli spettatori. Siamo lì qualche minuto prima dell'orario, ma ci sono solo due tizi occupati a sistemare le sedie all'aperto, peraltro in un posto meraviglioso, in un pomeriggio ancora estivo e con tutta la calma immaginabile.

Bene, siamo a Roma, ci diciamo, inutile agitarsi. Ci sediamo su un gradino e aspettiamo le otto, quando finalmente i due che piazzavano le sedie si manifestano nella loro veritiera funzione di organizzatori dell'incontro, giurano al pubblico, nel frattempo congregato, che Ceroli è in arrivo da un momento all'altro, e intanto danno la parola al noto critico Maurizio Calvesi. Il quale, dopo un excursus alquanto iettatorio sulla Scuola di Piazza del Popolo: Schifano, Angeli, Festa, Pascali, tutti morti, e anche male, passa a intrattenerci come un nonno monomaniaco su come, quando, perché, dove, sono avvenuti tutti i suoi incontri con Ceroli, gli incoraggiamenti e il sostegno che gli ha dato e il ruolo avuto nella sua carriera artistica. Il tutto in un tono così uguale e soporifero, da "buonanotte nipotini", che anche le notizie interessanti scivolano via nel torpore.

Intanto, ogni quarto d'ora, gli organizzatori rincuorano il pubblico con notizie, chiaramente infondate, sull'imminente arrivo dell'artista atteso. L'epilogo di questo raccontino (scemo) è che qualche minuto prima delle ventuno, mentre l'attesa di Ceroli si faceva sempre più spasmodica, ce ne siamo andati a mangiare una pizza; e mai sapremo se lui è arrivato o no.


Due anni sprecati?

Sabato 21, alla galleria Monitor, mostra fotografica di Antonio Rovaldi. Secondo la presentazione (e credo che tutti sappiamo quanto pomposi, ridicoli e spesso mendaci siano i testi che accompagnano le mostre d'arte) l'artista ha girato le coste di tutta l'Italia in bicicletta per due anni, durante i quali, oltre a pedalare (e fare qualche altra cosa, ci, e gli auguriamo) ha anche fotografato l'orizzonte sul mare, e solo quello, da tutti i punti in cui si è fermato.

Immaginarsi quale e quanta può essere la varietà degli orizzonti marini: una linea dritta con sopra il cielo e sotto il mare. E ci fai due anni di pedalate? Curiosi, siamo andati alla vernice. E abbiamo trovato quello che avevamo immaginato. Una cinquantina di foto tutte della stessa grandezza, attaccate al muro rigorosamente allo stesso livello in modo che la famosa linea d'orizzonte di ogni immagine continuasse in quella successiva formando un filo ininterrotto. Dobbiamo ammettere per amore di verità che alcune di queste foto non erano male. Ma ci pare proprio che il progetto nel suo insieme, e considerando i risultati, sia rigorosamente in linea con il titolo di questo articolo.


Con tutto il rispetto.

Per chi ci crede (noi no). Domenica 22 siamo andati a S. Lorenzo in Lucina a visitare la mostra dedicata a Padre Pio. Si intitola "La grande luce". Naturalmente è tutta miracoli, stupore, devozione. E fin qui, ovvio: ognuno ha bisogno di trovare un rimedio alle proprie paure, e quindi cosa c'è di meglio del totalmente irrazionale, che non può essere dimostrato, se ci credi, ma neanche smentito, se sei scettico. Su una serie di pannelli leggiamo delle famose febbri di Padre Pio durante le quali la sua temperatura saliva a 48 gradi, e faceva scoppiare il termometro (ci pare di aver sempre sentito che una temperatura così fa bollire il cervello in pochi secondi - e poi, come mai usavano dei termometri tanto fragili?). Oppure del misterioso profumo di fiori emanato dalle stimmate, certificato dal suo medico, il dottor Festa (del quale ingenuamente si dice su un altro pannello, che era del tutto privo di olfatto; miracolo bis?). Purtroppo, delle famose stimmate non esiste neanche un'immagine. Eppure la fotografia era già ben progredita all'epoca. Ma, appunto come detto in principio, ognuno si aggrappa al salvagente che gli capita più vicino. Sempre con tutto il rispetto, naturalmente.


Sòla.

E quella che ci siamo beccati domenica sera alla Sala Santa Cecilia del Parco della Musica. E francamente ci ha presi alla sprovvista. Lo spettacolo è "The Kilowatt Hour", e nel titolo troviamo anche l'unico elemento positivo della faccenda: la durata ridotta, appunto one hour, un'ora. Il kilowatt è un riferimento elettrico, e noi ci aspettavamo qualcosa di elettrizzante per la sua moderna audacia. Il catalogo ci aveva garantito "Sylvan, Fennesz e Mathieu, ognuno a suo modo e nel rispettivo ambito di appartenenza, artisti poliedrici e innovativi, uniti per lo stesso raffinato gusto per la sperimentazione musicale".

I tre sono entrati nel buio più completo (poi abbiamo capito che era per non farsi riconoscere all'uscita) ci hanno mollato una sbobba di suoni informi e ripetuti con qualche nota di piano, e lunghe chiacchierate in un inglese cavernoso, senza nessuna pausa, ma ancora peggio, senza nessuna intenzione percepibile, accompagnati da immagini che scorrevano lente lente su tre grandi schermi rizzati dietro le tre consolles. Nuvole, strisce colorate e geometrie tridimensionali, b/n e colore. Roba da computerino, altro che innovativa. Quarant'anni fa, al primo apparire dei sintetizzatori (il Moog, il Synket) noi già ci passavamo le nottate a stordirci con questi suoni nuovi, prolungabili per tempi infiniti. E poi abbiamo anche imparato a sincronizzarli con le immagini.

Abbiamo avuto la sensazione, dal tepore degli applausi, che anche lo scarso pubblico, in gran parte ragazzi post Moog e Synket, non fosse molto convinto. Decisamente d'accordo con noi una delle maschere a cui, uscendo, abbiamo manifestato il nostro sconcerto, la quale naturalmente, non potendo per contratto esprimere un'opinione, ci ha fatto un sorriso molto complice, e ci sembra anche che abbia mormorato a mezza bocca "Sòla", ma non ne siamo sicuri.

Quello di cui siamo sicuri è che stavolta lo scemo è stato il Cav. Serpente.

 

 

                                        


 

 

 
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Lirica, Brasile e nostalgia

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

 16 settembre 2013

    LIRICA, BRASILE E NOSTALGIA

 

10 settembre, Sala Accademica di S. Cecilia. Concorso Lirico Ottavio Ziino. Concerto di gala dei finalisti. Da sempre nutriamo una viva antipatia per i recital canto/piano, specialmente di lirica. L'idea di piazzarci in poltrona ad ascoltare, senza la protezione di scene, costumi e soprattutto del bel suono dell'orchestra non sempre sostituito degnamente dal pianista, degli scalmanati che ci invadono le orecchie con il loro volume sonoro (e spesso invadono anche la scena con quello fisico) non ci entusiasma. Anche perché, per dirla tutta, in queste esibizioni la trasparenza del pianoforte permette l'emersione di una delle iatture peggiori dell'opera: il libretto.

Bene, dopo questa premessa, e per dimostrare la nostra totale mancanza di coerenza, eccoci qui ad ascoltare i concorrenti, in questa bella sala, funestata, come abbiamo già avuto occasione di raccontare, da un impianto di 18 fari potentissimi puntati, invece che dove dovrebbero (leggii, tastiere, podio, ecc.) sulle prime file, anzi direttamente negli occhi degli spettatori. Stasera va un po' meglio perché ce n'è uno fulminato. Non sappiamo di cosa ci incolpano, ma siamo pronti a confessare.

Sorprendente il livello dei cantanti: molto alto. Buono anche il pianista accompagnatore. Un sacco di coreani/e partecipanti (ci dicono che è normale). Nell'insieme, non un saggio di fine corso, ma proprio un bel concerto, con il valore aggiunto del tifo per l'uno o per l'altro. Verdi va bene col suo zum pa pa, Bizet va bene con il suo colore, Rossini va bene con le sue risate, ma quando arriva Puccini, è la melodia pura...


Giovedì 12 al Teatro Studio del Parco della Musica. Festival Jammin' organizzato dal St Louis College of Music. Concerto in due set. E' un evento che avrebbe potuto intitolarsi "Mozart e Salieri", proprio per il confronto. Nel secondo set un decorosissimo Radio Trio: Siniscalco, Smimmo, Zanisi, bravi, precisi, ineccepibili, e un po' noiosi (Salieri). Mentre nel primo, non vogliamo esagerare definendoli toccati dalla Grazia, ma certo c'erano dei veri e propri Mozartini: il duo Natalio Mangalavite, piano e Martin Bruhn, percussioni. Due pieni di capelli e di eleganza, e di leggerezza, e di talento che ci hanno portato su e giù per il loro repertorio, tradizionale e originale, cantando, fischiando e suonando senza mai, davvero mai, un momento di pesantezza, di banalità, o di sciatteria. Un vero piacere per le orecchie, e anche per gli occhi grazie a quel gioco continuo che fanno fra di loro e con noi. D'altra parte il loro show si chiama proprio "Juego".


Dalla squisitezza del piacere acustico alla mozione degli affetti. Stessa sera all'Alexanderplatz, appena riaperto per la stagione. Suona Jimmy Polosa and Friends. Jimmy è stato per un certo tempo, e lo è ancora, pianista dei Flippers, gruppo storico nato nei tardi cinquanta e ancora rampante grazie ai sopravvissuti. Sì, perché molti dei componenti e collaboratori originari se ne sono andati, come direbbe qualche nostro amico new age, a suonare con gli angeli: Max Catalano, Franco Bracardi, Lucio Dalla e, pochi giorni fa, anche Jimmy Fontana. Una strage. Del complesso facevamo parte anche noi; per fortuna siamo ancora vivi (anche se non ci sentiamo tanto bene). Ogni volta che si riuniscono li andiamo a trovare per la nostalgia dei bei tempi andati. E così è stato anche giovedì sera. Come si dice, una rimpatriata.


Chiudiamo la settimana con l'inaugurazione al Parco della Musica, domenica 15, del Festival Brasil! Come previsto, dalla combinazione Italia-Brasile è venuta fuori un bel po' di confusão: incertezza sugli orari, contrasti sull'ubicazione degli eventi, biglietti omaggio spariti, eccetera. Ma poi la giornata è andata avanti con una bella improvvisazione di capoeira, due mostre d'arte da dimenticare (Massimo Listri e Odires Mlaszho), cocktail con prosecco (buono) e polpettine (così così) e finalmente il pezzo forte, il concerto di Toquinho alla Sala Santa Cecilia.

Gran pubblico, ovviamente tutti i brasiliani di Roma. Accanto a noi una signora di colore che ogni dieci minuti estraeva dal corpetto una poppa gigante per allattare un bambino che teneva in braccio (forse mandata dall'ufficio del turismo e del folklore di Bahia?).

Anche in questo evento, frequenti rigurgiti di nostalgia, perché Toquinho ha fatto tutto il suo repertorio che conosciamo e amiamo fin dagli anni sessanta. I brani di Vinicius, Chico, Jobim e altri classici brasiliani. E poi, furbamente, ma bene, ha cantato anche "Roma nun fa' la stupida stasera". Insomma, lui è bravo, simpatico, chiacchiera e presenta con disinvoltura, e soprattutto le canzoni sono una più bella dell'altra. Non ci è tanto piaciuta la svolta rokkeggiante che ha dato agli arrangiamenti, ma questo potrebbe essere dovuto a un nostro attaccamento senile alle prime versioni rimaste in memoria.

Naturalmente, a un certo punto della serata è arrivata implacabile la trascrizione da Bach. Siccome pare sia il pedaggio che uno spettatore deve pagare in ogni concerto di chitarra, ci siamo adeguati. Che altro potevamo fare?



                                         


 

 
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Quiz

 

   IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

 9 settembre 2013

QUIZ

 

E' un'eternità che non scriviamo qualcosa di nuovo (1). Il fatto è che siamo stati tutto questo tempo di calura a chiederci se fosse meglio lavorare per vivere, o vivere per lavorare (2); poi abbiamo optato per un'operosa inerzia (3).

Ciononostante, venerdì 30 agosto, nelle prime roventi ore del pomeriggio una freccia (4) percorreva sul suo cavallo d'acciaio (5) la Cassia in direzione Viterbo: era il Cavalier Serpente. Volevamo essere presenti all'inaugurazione, nella Sala del Conclave del meraviglioso Palazzo dei Papi, della mostra di pittura e scultura di Roberto Joppolo, un artista a nostro parere buono ma discontinuo, con opere emozionanti, e altre per le quali non si può certo dargli del michelangelo (6). Promotore l'amico Filippo Gasparro, recentemente svelatosi ai nostri occhi, in coincidenza con la rinuncia del suo ruolo di responsabile del glorioso Burcardo della SIAE, come l'uomo più felice del mondo. Presente anche un altro mitico rappresentante del passato della Società Autori, l'avvocato Giorgio Assumma, presidente dimissionario. Un uomo di cui raramente abbiamo visto l'uguale come compostezza, humour e aplomb. Sempre dritto, perfetto in giacca e cravatta. E con l'aria serena. Una volta, a Roma, dalle parti del suo ufficio, lo abbiamo inquadrato con i nostri increduli occhi mentre scendeva dal marciapiedi senza guardare né a dritta né a manca, per attraversare la strada con il semaforo rosso (per lui) come se il traffico non esistesse. Erano le auto che si fermavano, docili. C'è chi dice di averlo visto camminare sulla acque del laghetto dell'EUR, non lontano dalla sede generale. Verrebbe da trarne una (troppo ardita?) conclusione: "Vuoi essere felice? Molla la SIAE!" (7).


In questa breve trasferta abbiamo dovuto ancora una volta trattenere i conati di fronte allo stile tirolese-disneyano a uso turistico, ovunque presente. Per esempio, le aiuole (*) di erbetta ben rasata con cespuglietti di rose e altri fiorellini che accompagnano tutto il giro delle mura di Viterbo, mura (8) ferrigne, robuste e arcigne, che nella loro maestà minacciosa non sanno proprio cosa farsene di questi gingilli zuccherosi. Zuccherosi e fiabeschi come i nomi degli agriturismo che incontriamo sulla strada: "La spalliera dei glicini", "Trapunte e merletti", "Il bosco delle api". Conati trattenuti anche qui.


Per fortuna c'è stato anche il momento un po' più aspro. Grazie a un gruppo rock che sulla piazza del duomo (siamo sempre a Viterbo) ha insistito a continuare un rumorosissimo e naturalmente ripetitivo sound check per il concerto della sera, anche mentre il vescovo si avviava con passo da Don Camillo, furioso ma impotente a invalidare il permesso del sindaco, verso la sala dove, prima del buffet, ci avrebbe somministrato un tedioso e patetico discorso sulla Madonna, al solito raccontata come mamma e sostegno anche di anziani e robusti signori, come Giovanni Paolo II, protagonista dell'omelia, a nostro parere capacissimi di procedere sulle proprie gambe, senza bisogno di essere portati per mano né dalla Madonna, né da altre badanti.


Chiudiamo con due opposte segnalazioni. Il 31 agosto un sobrio convegno, organizzatore Vito Taverna, a Monterchi (Arezzo): "Poesie nel cassetto", che non dà premi, ma la possibilità a tutti i poeti (non proprio una riunione di giovanetti (9), come abbiamo constatato di persona) di spedire, e poi venire a leggere nel teatro comunale quello che hanno scritto (naturalmente di buono e di cattivo, ma senza censura). Più tardi, ottimi crostini di cacciagione, e vino rosso.

 E poi una faccenda che ci è sembrata del tutto incongrua, soprattutto per l'argomento in relazione al luogo. Una serata intitolata "Manchi solo tu", lettura di testi di Concita De Gregorio, con musica dal vivo. Storie di donne che richiamavano per la loro onnipresente banalità, anche se camuffata da empatica, moderna partecipazione, la posta del cuore dei vecchi settimanali femminili: Grazia, Annabella. Accompagnate da precarie esecuzioni musicali del gruppo "Le Cardamomò" al quale vorremmo suggerire che non basta strimpellare strumenti strani (10) come organetti, bombardini o kalimbe per fare simpatia e spontaneità retrò; bisognerebbe anche saperli suonare.

Insomma, dal Valle Occupato, ci aspetteremmo una più attenta amministrazione dello spazio disponibile. Diamolo pure, questo spazio, a chi ce lo chiede, però assicuriamoci, prima, che se lo meriti.

Presente fra il pubblico, e non ci è sembrato particolarmente partecipe, il ministro della cultura Massimo Bray.



P.S. Quiz. Questi fastidiosi numeretti fra parentesi, ecco, siamo sicuri che avreste pensato male di noi (11): "O Cavalier Serpente, ti sei rimbambito?" (12) E' che abbiamo passato alcune delle ore più afose di agosto a rinfrescare la sintassi (e questo magari ci ha surriscaldato il resto), e ci siamo invaghiti di un vecchio gioco di sapore un po' barocco. Quello delle figure retoriche. Ne abbiamo seminate qua e là. Se non le avete riconosciute, c'è la spiega qui di seguito (occhio ai richiami numerici).

(1)   Iperbole: esagerazione - eternità invece di un mese.

(2)   Chiasmo: incrocio di due concetti corrispondenti e opposti.

(3)   Ossimoro: illogico accostamento di termini dal significato contrario.

(4)   Metafora: trasporto di identità da una parola a un'altra - (veloci come) una freccia.

(5)   Perifrasi: chiamare un oggetto con un giro di parole anziché con il suo nome vero.

(6)   Antonomasia: usare un nome proprio come sostantivo comune.

(7)   Epifonema: sentenza conclusiva espressa enfaticamente - la morale della favola.

(8)   Anadiplosi: ripetizione di una parola nel discorso per rinforzarne l'impatto emotivo.

(9)   Litote: dire meno di ciò che si desidera far capire.

(10) Allitterazione: ripetizione di una o più lettere in posizione iniziale di parola.

(11) Anacoluto: salto sconnesso, sintatticamente incoerente.

(12) Apostrofe: abbandonare la forma impersonale per rivolgersi direttamente a qualcuno.


(*) L'unica parola italiana con dentro tutte le vocali.


 

                                       



 

 
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IL MIRACOLO DELL'OSTIA FRITTA - Replica dal 3 settembre 2012

Post n°237 pubblicato il 31 Agosto 2013 da torossis

 

 

   

 


                                

 

      IL CAVALIER SERPENTE

      Perfidie di Stefano Torossi

        29 agosto 2013

            Replica dal 3 settembre 2012

           IL MIRACOLO DELL'OSTIA FRITTA


C'è a Roma, ai piedi del Palatino, la chiesa di S. Anastasia. Qui, appoggiate alle pareti, stanno otto bellissime colonne romane di scavo; sette di un bel marmo color miele con screziature bruno violette. L'ottava è di un elegantissimo grigio striato di bianco, magnifica.

Bene, placata la nostra fissazione architettonica, veniamo al vero scoop. Nella navata di destra c'è una gran bacheca che espone, raccontati in ordine cronologico, i più clamorosi miracoli transustanziali del passato.

Per la Chiesa il miracolo eucaristico della transustanziazione, che si ripete a ogni celebrazione, è credere che nell'ostia e nel vino c'è la carne e il sangue di Cristo. Ovviamente è un fatto che non si può, anzi, che non ci si deve sforzare di dimostrare. Crederci e basta, se no sono guai.

Si sa che quando ci si affaccia all'indimostrabile si scivola anche nel baraccone dell'ingenuo e del grottesco. Qui ci stiamo dentro in pieno. Naturalmente abbiamo scelto i casi più pittoreschi. Uno più esilarante dell'altro.


Uno. Anno Domini 595. Miracolo di San Gregorio Magno. A messa, una donna di fede poco salda scoppia a ridere sonoramente (sottolineato nel testo) mentre si comunica. Scandalo in chiesa. Il papa blocca la funzione. A questo punto il pane dell'ostia diventa carne e si mette a sanguinare. La donna si pente, il papa si tranquillizza, e tutti tornano a casa felici e contenti.

Due. Il miracolo dell'ostia fritta (non è un titolo nostro, sarebbe troppo facile. Sta scritto proprio così nella bacheca). Siamo nel nono secolo dopo Cristo. Una (badate bene) ebrea si intrufola in chiesa, ruba un'ostia, se la porta a casa, e per sfregio, dopo aver messo sul fuoco una bella padella di olio bollente, ce la butta dentro per a cucinarla. Colpo di scena: l'ostia non solo non frigge, ma si mette a sanguinare inondando in poco tempo tutta la casa. Emozione al paesello. Viene convocato il vescovo, si organizza in quattro e quattr'otto una processione per espiare il sacrilegio, e il luogo del peccato è trasformato in chiesa. Della donna non si dice più niente; siamo un po' preoccupati per la sua sorte.

Tre. Miracolo di San Pier Damiani, è il 1050, località sconosciuta. Una donna, cedendo a suggestioni abominevoli, per fare un maleficio a casa sua ruba un'ostia e la porta via nascosta sotto il vestito. (Qui bisogna stare molto attenti perché sotto un vestito femminile, specialmente in quell'epoca in cui non tutte portavano le mutande, ci possono essere dei punti molto rischiosi per un'ostia innocente). Un prete furbo se ne accorge, l'insegue, l'acchiappa e recupera l'ostia, la quale, questa volta chissà per quale capriccio si divide in due parti, una rimane di farina, l'altra si trasforma nella solita polpetta sanguinolenta.

Quattro. Anno 1228, miracolo di Alatri. Una giovane suggestionata dal cattivo consiglio (continuiamo a riportare fedelmente le parole dei testi) di una malefica femmina, dopo aver ricevuto dal sacerdote il corpo sacratissimo di Cristo, lo trattiene in bocca fino al momento in cui lo può sputare fuori per nasconderlo in un panno. Qui ci tornano in mente le minacce del nostro insegnante di catechismo che ci preparava alla prima comunione e ci aveva proibito di toccare l'ostia coi denti per non rischiare di far male a Gesù. E ricordiamo anche la sensazione di angosciosa apnea quando questo tondino si appiccicava al palato, perché neanche con un dito lo si poteva spostare. Torniamo a noi. Dopo tre giorni la giovane suggestionata va ad aprire il panno e trova, ancora una volta, l'hamburger al sangue, a quanto pare sempre freschissimo. Immediata confessione e pentimento. Minaccia di punizioni efferate soprattutto per la femmina malefica a cui viene attribuito il ruolo di mandante. Però stavolta c'è il lieto fine. Dopo averle spaventate a morte, le autorità ecclesiastiche rimandano a casa le due con una ramanzina, e basta.


Ci fermiamo qui, anche se ci sarebbe molto altro. Tutto vero. Piazza S. Anastasia al Circo Massimo, andate a vedere coi vostri occhi. Noi non vogliamo esagerare e cadere a nostra volta nel ridicolo. Ma ci teniamo a sottolineare due punti. Primo: tutti i miracoli cessano appena compaiono tecniche o apparecchi capaci di registrarne una testimonianza. Secondo, e qui stiamo messi molto peggio, peccatrici, dubbiose, eretiche, ladre sono tutte donne. Capito? La Chiesa non si smentisce. Il diavolo, c'è poco da fare, sta sempre sotto le sottane.



                                          


                                        


 

 
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VA',VECCHIO JOHN - Replica dal 2 luglio 2012

Post n°236 pubblicato il 26 Agosto 2013 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

 26 agosto 2013

  Replica dal 2 luglio 2012

  VA', VECCHIO JOHN!


La rassegna della Filarmonica Romana si chiama "I giardini di luglio", e il nostro titolo, lanciato naturalmente a John Cage, è un po' la bandiera anticonformista di tutta la faccenda (con sconfinamenti nel bizzarro e nell'esotico, e anche nel temibile, di cui parleremo). Diamo un'occhiata al libretto, che merita, perché pieno di spunti di ironia, qualche volta perfino involontaria, ci pare (se invece è voluta, tanto di cappello, ammesso che i serpenti lo portino). Il 25 giugno gli spettacoli iniziano alle 16.93 (ora di Cage), oppure alle 20.105 (anche) e uno dei concerti si intitola "Open the Cage" (Apri la gabbia). Il 26, a fine spettacolo ci offrono un drink Cage creato con la combinazione randomizzata di 46 liquidi diversi. Il 6 luglio proiettano il film "Le vent des amoureux", girato con la tecnica helivision, inventata dal regista Albert Lamorisse per riprese dall'elicottero. "Proprio mentre effettuava questo tipo di ripresa - testuale dal libretto - Lamorisse è deceduto in un incidente di elicottero". Forse il sistema aveva ancora bisogno di rodaggio e lui doveva andarci un po' più cauto? Soprattutto con quel nome...

L'esotico si affaccia il 4 luglio in una giornata dedicata all'Armenia con un buffet tipico. Col bizzarro abbiamo a che fare il 3, perché ci propongono un signore austriaco che suona Mozart allo scacciapensieri, e l'Holstuonarmusicbigbandclub (?). Temibile, e la eviteremo, è la giornata norvegese, il 2, dedicata (oltre che a una cena scandinava, forse non proprio appropriata alle temperature di questo periodo) a lieder per soprano, mezzosoprano e pianoforte. Il lied, specialmente quello nordeuropeo, è un prodotto che a noi provoca letargia, imbarazzo per la frequente pesantezza quando invece vuole essere umoristico, e insoddisfazione per la povertà di colore della combinazione voce-pianoforte. Opinione personale e contestabile, naturalmente.

Il posto è una meraviglia. Un giardino con allori che sembrano baobab, un asciutto profumo di estate, e il vantaggio di essere appena fuori porta: quattro minuti e mezzo a piedi da Piazza del Popolo. Alle 21.45 (ora normale) del 26 giugno: "Spazio Curvo", musica e strumenti inventati da Michelangelo Lupone. Più che un'esecuzione la definiremmo un'istallazione. Tre immensi tamburi microfonati piazzati sul palco e illuminati di colori che cambiano con i suoni; percossi o accarezzati da Philippe Spiesser, con grandi gesti pittoreschi, intercalando le pelli con tromba, campanaccio e varie sonagliere.

All'inizio la suggestione è assoluta; quello che esce dai tre pentoloni è inaspettato e bello, poi comincia ad arrivare una qualche assuefazione, che a un certo punto tende a trasformarsi in "basta!". E' che non c'è un disegno ritmico, dei ritorni, qualcosa che uno riesca a seguire come si segue una melodia, e allora la musica, o meglio il suono perde la presa sull'ascoltatore. Come mai? Probabilmente perché questa suggestione sonora è solo il condimento, e manca il piatto base, il racconto. Ci sono venuti in mente, mentre ascoltavamo Spiesser, sempre più insofferenti man mano che scorrevano i 29 minuti del brano, i Tamburi di Kotò, quel gruppo giapponese (quasi una fratellanza mistica) di decine di percussioni di ogni dimensione, capaci di tramortire il pubblico per serate intere. Loro il discorso lo fanno e, trattandosi di tamburi, il linguaggio non può che essere ritmico. Qui alla Filarmonica ci è sembrato che Lupone al discorso non ci avesse pensato proprio. Da cui, secondo noi, la perdita di tensione e di attenzione.


Cambio scena! Mondanità e sangue blu. Capitiamo la sera del 27 alla consegna del Premio Via Condotti 2012 a Palazzo Torlonia a Bocca di Leone, una meraviglia (qui a Roma, dovunque si capita è una meraviglia). Raramente visto in contemporanea un così alto numero di nobili chiappe adagiate sulle sedie nel giardino. Cicaleccio di principi e politici, di commercianti e gente di spettacolo. Conduzione very casual (non diremo casereccia come sarebbe più giusto, per rispetto alla nobile ambientazione). Interventi spesso zoppicanti, puntualmente tamponati con garbo e presenza di spirito da Gianni Letta, un misto tra Paolo Limiti e Mike Buongiorno, sempre sul palco, pronto e generoso nelle emergenze. Filmato, dolorosamente e inutilmente lungo, per raccontare la carriera del premiato numero uno, Dante Ferretti; oltretutto inquinato da un difetto del lettore DVD che ogni tot salta fastidiosamente diversi fotogrammi.

Dopo parecchi altri, finalmente arriva Cocciante. Il quale, uomo di scena fino in fondo, prima finge, ammiccando, di stupirsi perché proprio lì accanto c'è un pianoforte che, guarda un po', è già  microfonato, poi cerca di impadronirsi dello show per dargli un passo professionale. Difficile, molto difficile, con gente che vaga e si urta sul palco e l'astuccio del premio che passa di mano in mano, senza mai arrivare a quella giusta, la sua. Finalmente caccia tutti, canta benissimo un paio di pezzi, e poi (anche qui umorismo involontario?) conclude la serata, mentre le cariatidi del pubblico si accalcano zoppicanti verso l'uscita, con una sua canzone che fa: "Morire con la voglia di vivere..."



                                         





 

 
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L'ASINOSSI - Replica dal 2 aprile 2012

Post n°235 pubblicato il 22 Agosto 2013 da torossis

 

          IL CAVALIER SERPENTE

        Perfidie di Stefano Torossi

       22 agosto 2013

       Replica dal 2 aprile 2012

        L'ASINOSSI


Non è un errore di battitura, è la testimonianza dell'immortalità del somaro, e più specificamente del somaro italico, e se vogliamo proprio entrare nello specifico, del "Cives Somarus Sum".

I fatti.

La farsa (involontaria, credeteci) va in scena lunedì 26 marzo al Teatro Quirino, secolare istituzione nel centro storico di Roma; l'orario (ipotetico, intendiamoci), sarebbe le sei e mezzo, in realtà la faccenda comincia alle otto; l'organizzazione (fantascientifica, scommetteteci) fa ridere i polli, oltre ai somari. Per dire: nel vicolo davanti al teatro, auto e moto parcheggiate alla romanesca, da non far passare una sedia a rotelle (poi si capirà perché facciamo questo esempio), e due vigili, sigaretta in bocca: "Aho! Ma nun l'hai chiamato er carro attrezzi?" "Io no, ma nun ce dovevi pensà tu?". Quando siamo usciti, verso le nove e mezzo, i due vigili erano sempre lì, la stessa cicca in bocca, le stesse macchine e moto piazzate  nell'identico fantasioso modo.

Entriamo insieme ai vip, Roncato, Brilli, De Sica, Tognazzi, per assistere all'evento, che è la premiazione dei vincitori del Festival film corto a tema "Un sorriso diverso". Diverso nel senso dell'handicap, e della sedia a rotelle; ecco il riferimento alla difficoltà di accesso. Subito, gli organizzatori, dal palco, si premurano di farci sapere che (testuale): "La diversità colora il mondo che sennò sarebbe grigio". Avremmo voglia di chiedere a qualcuno dei presenti in carrozzina se si rende conto di quanto è fortunato a vivere in questo mondo colorato, invece di quello grigio della gente che va a spasso con le gambe, senza bisogno di ruote.

Poi comincia il balletto dei microfoni. Passalo a me, ma non funziona, allora lo riprendo e ti do il mio, adesso ne hai due, sono troppi. Finché, con un tocco di ruspante ribalderia, il presentatore la butta lì: "Pare brutto?", e si infila uno di questi microfoni itineranti nella tasca dei pantaloni. Per tirarlo fuori a ogni occasione e passarlo a questo e a quella. Avete presente la forma dei microfoni senza cavo, quelli che nell'ambiente si chiamano gelati? Un cilindro di una ventina di centimetri, con un rigonfiamento a bulbo a una estremità. Inutile il commento.

Molti i corti premiati proiettati in formato spot ma chissà perché senza sonoro, variatissime le motivazioni, troppe le assenze o gli scambi dei personaggi che dovrebbero ritirare i premi. Continuamente costretti i presentatori a invocare qualcuno, "C'è"? e poi rimanere ad aspettarlo, spesso invano. E moltissime e confusionarie le presenze di attori, registi o assessori chiamati a leggere di ogni filmato "la sinossi" (ecco dove abbiamo preso il titolo). Un bel bordello, evitabile con un minimo, davvero un minimo di organizzazione.

Utile e dilettevole lo show acrobatico di due signore spesso avvicendate (pare che la prestazione sia molto faticosa) nel comunicare a gesti ai diversi (veri) fra il pubblico quello che gli altri diversi (fasulli) dicono sul palco.

Due vallette giovani e graziose ci deliziano gli occhi portando i diplomi ai premiati. Ci hanno rallegrato anche durante la lunga attesa prima dell'inizio mentre giravano in platea nei loro eleganti abiti lunghi e scollati con niente sotto tranne mutande evidentemente troppo strette perché le abbiamo sorprese più di una volta sistemarsi l'elastico con pizzichi furtivi. Stendiamo un velo pietoso su un paio di imitazioni (Asia Argento drogata e Carla Bruni cantante) offerte allo sconcerto del pubblico e, ci è parso, anche degli altri presenti sul palco, da una sedicente attrice o, più probabilmente, un'amica di passaggio.

Insomma, per sopravvivere, a un certo punto ce ne siamo andati, mentre la faccenda ancora si trascinava penosamente. Il dilettantismo sembra un condimento obbligato di queste occasioni assistenziali e/o istituzionali. Aggiungiamo che poco ci è piaciuto scoprire che fra i diversi a cui era dedicata la manifestazione c'erano anche gli anziani!


Come risarcimento sabato sera siamo andati a vedere James Taylor all'Auditorium di Via della Conciliazione. Prima le buone notizie. Lo spettacolo è annunciato alle ventuno, e alle ventuno  comincia. Teatro gremito. Pubblico benissimo disposto. Applausi esagerati perfino quando Taylor annuncia l'intervallo. Tutti conoscono i pezzi e alla prima nota già si scatenano. Il tempo lo accompagnano in levare. Le spiritosaggini in inglese sono comprese e apprezzate. Non un'esitazione negli attacchi. Tutto provato e riprovato. Così fanno gli artisti americani; i professionisti, insomma. Potrebbero farlo anche gli italiani ma ci vorrebbe qualcuno di pratico.

Adesso le notizie cattive. Fa un caldo esagerato. Niente aria condizionata. Troppo presto per la stagione? La temperatura dei concerti è spesso un'incognita, e quasi sempre un disagio. Il prossimo evento a gradazione giusta vi promettiamo di evidenziarlo. L'altra notizia cattiva è l'artista. Fin dagli anni ottanta, noi ci ricordavamo Taylor come uno dei cantanti più noiosi del panorama. Questa sera ci si è confermato il giudizio. La noia è sottile. Le canzoni sono uguali, molte anche nella stessa tonalità. Garbate, prevedibili, ben confezionate e ben cantate. Ma alla quinta non se ne può più. Lui è sobrio, qualche volta moderatamente spiritoso. La sua voce non si, e non ci  emoziona mai. E' elegante, magro, diritto e decorosamente pelato. Immobile quanto basta, e quando cambia chitarra sembra che sposti un fragile vaso di Murano. Insomma, anche da qui, per sopravvivere ce ne siamo dovuti andare prima della fine.



                                          



 

 
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