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« paroleobbedisco »

frank

Post n°35 pubblicato il 20 Febbraio 2008 da cicuta4
 
Foto di cicuta4

quando ho iniziato i miei viaggi ad ushuaia l'ho fatto con l'intento, soprattutto, di scrivere brevi racconti e buttarli là, in pasto a chi avesse avuto voglia di leggerli.
in questi mesi ho parlato di attualità e di politica, ma spesso mi sono lasciato andare a qualche esercizio di pura narrazione. ho avuto qualche incoraggiamento, qualcuno (soprattutto gli amici, e se no, a che servirebbero se non a dire pietose bugie?) mi ha davvero mosso qualcosa dentro con i complimenti... e insomma, il secondo intento di chi scrive è quello di suscitare qualche emozione in chi legge, e quando ci riesce, quando ci riesco, ne sono contento.
se questo è il secondo intento, vi chiederete qual è il primo... meglio di me vi risponderà stephen king ('misery'): "non è mai stato per te, Annie, nè per tutte quelle persone che ci sono là fuori e che firmano le loro lettere con 'La tua ammiratrice numero uno': nell'attimo in cui cominci a scrivere tutta quella gente è dall'altra parte della galassia, come minimo. non è mai stato per le mie ex mogli, o per mia madre, o per mio padre. il motivo per cui uno scrittore appone quasi sempre una dedica a un libro, cara Annie, è che alla fin fine persino lui è orripilato di fronte al proprio egocentrismo".
insomma, non è per voi, è per me.
qualche anno fa scrissi una raccolta di racconti abbastanza brevi, circa una dozzina, che narrava delle gesta di un paio di soldati belli (dentro) e straccioni (fuori, tanto) durante la prima guerra mondiale. quella raccolta prendeva il nome da uno dei protagonisti, Frank. tentai di pubblicarli, ovviamente senza successo, e quell'ovviamente fa riferimento al fatto che erano estremamente acerbi, privi di nerbo letterario, belli forse da leggere al circolo (arci?) con gli amici per farsi due tenere risate, ma sicuramente non interessanti per un editore. a distanza di tempo, mi dico che forse è andata bene così, c'è così tanta brutta letteratura pubblicata che forse non era il caso di aggiungere anche i miei 'sfizi'.
succede però che qui, in qualche modo, sono a casa, e allora perchè no, torna la voglia di condividere quei due - che in realtà, con molte sorprese, saranno almeno tre - straccioni buoni con chi avrà la curiosità di seguirne le gesta.
non sarà tutta una tirata, la pubblicazione su ushuaia sarà anche l'occasione per una grande revisione di tutto il testo, qualcosa che faccia i conti con l'aggravata insipienza di questo quasi quarantenne, cercando di non offuscare l'entusiasmo di cui erano pervasi e che guidò la penna di quel meno che trentenne che li scrisse, anni fa.
per chi ha voglia, buona lettura.

FRANK

Era l’alba di Natale del 1915. La notte ci abbandonava col suo gelo che penetrava nelle ossa, alcuni di noi dormivano rannicchiati in qualche angolo della trincea, altri, come me, aspettavano di finire il turno di guardia. Come al solito, anche quella notte non era successo niente. Certo, c’era stato qualche colpo isolato, ma erano solo i colpi con cui, da una parte e dall’altra, si voleva far capire al nemico che si era ancora presenti. Ma, per il resto, c’era una specie di tacito accordo per far sì che ci fosse qualche ora di sonno da passare in santa pace. La tregua, dalla nostra parte, iniziava dopo la distribuzione serale del rancio per il giorno seguente.
Quasi contemporaneamente, anche gli austriaci smettevano di fare sul serio. Un colpo in aria ogni tanto era più che sufficiente.
La notte della vigilia era stata più gelida del solido. Non era il freddo che penetrava nelle ossa, e neanche l’umidità o le pozze delle nostre trincee. Molti di noi erano mal vestiti, gli scarponi sfondati, il fango si raggrumava in croste che spaccavano la pelle, in certi momenti non c’era modo di sottrarsi a violente sferzate di vento. Eppure a tutto questo eravamo abituati, al dolore e alla sofferenza fisica cercavamo di opporci con lo spirito, con la speranza che ad ogni notte sarebbe seguito un giorno migliore, e che ogni giorno ci avrebbe avvicinato sempre di più alla fine di quella guerra insensata, che pure molti di noi, ed io per primo, avevamo disperatamente e volontariamente cercato.
Era la nebbia, che a tratti ci isolava gli uni dagli altri, che ci lasciava estranei al senso stesso dell’esistenza e cancellava in noi ogni appartenenza ad un passato, pure recente, di calore, di affetti, di famiglia e lavoro e sudore e stenti e gioie. Sembrava che il Signore, nella stessa notte della sua venuta al mondo, volesse imprimere nelle nostre menti il senso di quella solitudine che pure avevano sofferto Maria e Giuseppe, soli e reietti nella grotta santa.
Quella mattina qualcosa turbò la nostra veglia intorpidita. Dal lato destro del nostro schieramento si avvicinò un uomo in bicicletta, con la divisa e i gradi da caporal maggiore, che, senza preoccuparsi minimamente di stare coperto, fischiettava e cantava un motivo patriottico. Uno di noi gli corse incontro, lo gettò a terra e gli intimò il silenzio.
Personalmente, lo detestai subito. Ero un ragazzino, ma già all’epoca non sopportavo le persone che credevano di avere un rapporto speciale col destino, quasi un’aura di intangibilità che li rendesse immuni da qualsiasi evento nefasto. Ricordo che pensai di lui che fosse un irresponsabile, che era il classico esaltato in grado di recare nocumento a se stesso e di inguaiare gli altri. E poi, l’aspetto… era orribile, la barba lunga e i capelli sporchi, la divisa ridotta in un cencio rattoppato, puzzava di capra, di marcio, di malato. Sotto la barba, uno squarcio piccolo ma profondo su una guancia, pulci tra i peli, pidocchi nei capelli.
Ma in realtà, capii molto presto che non era questo che mi infastidiva. Nonostante suscitasse un profondo ribrezzo, quell’uomo aveva un portamento estremamente fiero, lo sguardo sicuro che non abbandonava gli occhi di chi lo fissava, qualcosa che non esisteva in nessuno dei miei compagni di trincea, neanche in quelli con cui, per necessità, condividevo lunghi momenti di intimità. Lo odiai e ne fui subito geloso. Ero il pezzo forte della compagnia, ero quello più desiderato. Sapevo che quest’altro uomo, seppur basso e corpulento, aveva abbastanza fascino da rubarmi il ruolo e gli amanti.
Lo portammo a rapporto dal capitano, ma nessuno ebbe il coraggio di dire in che modo era arrivato da noi; un uomo in più in trincea faceva comodo, per cui fu subito aggregato al nostro gruppo. Disse che veniva da Bassano, che c’era stata un’imboscata in cui erano morti parecchi suoi compagni. Il resto del plotone, senza più comando, si era smembrato, qualcuno aveva deciso di disertare, altri di raggiungere le linee più avanzate. Lui, solitario di natura, si era incamminato verso le montagne per combattere una sorta di guerra personale. A Pordenone aveva trovato la bicicletta, a Tarvisio aveva avuto notizia della nostra posizione. Aveva cambiato idea circa la possibilità di continuare da solo, e ci aveva raggiunto.
Il suo aspetto nobile non era casuale. Si chiamava Francesco Filippuccio Emanuele, duca di Roncofreddo. Per spirito esotico e per brevità cominciammo subito a chiamarlo Frank.
Lo odiavo e lo ammiravo. E, soprattutto, ben presto arrivai a desiderarlo.
La sera di Capodanno ci ritrovammo insieme a fumare dietro una siepe, a qualche metro dalla trincea. Gli diedi metà della cicca che avevo conservato dal mattino in cambio di un po’ del suo vero cognac francese, e mi immersi nei miei pensieri. Sentii che mi guardava, mi voltai e lo guardai a mia volta. Mi fissava, ma io non abbassai gli occhi. Dopo un pò ruppe il silenzio.
- Senti…
- Dimmi, Frank.
- Non vedo una donna da sei mesi.
- Se vuoi, ci sono io…
Mi prese proprio mentre qualcuno, da lontano, salutava con un colpo di cannone l’arrivo del 1916.
Qualche tempo dopo, per le sue abitudini alimentari, ci dimenticammo che era un nobile e gli demmo l’appellativo ‘delle cipolle’. Per i più intimi, come me, divenne semplicemente Frank Cipolla.

 

 
 
 
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Un blog di: cicuta4
Data di creazione: 24/10/2007
 

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